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abolizionìsmo, sm. Movimento nato in Francia al tempo della rivoluzione francese (sancito nel 1794 dalla Convenzione) che intendeva abolire la schiavitù. Nel 1802, però, la schiavitù venne nuovamente legalizzata da Napoleone; nel 1848 con la caduta di Luigi Filippo, si ebbe la definitiva abolizione della tratta degli schiavi. Si diffuse in Gran Bretagna (abolizione della tratta e della schiavitù rispettivamente nel 1807 e 1833) e negli Stati Uniti (1839), ove fu oggetto di contesa nazionale per le implicazioni di carattere economico. Verso la fine del XVIII sec., in Pennsylvania sorsero i primi movimenti antischiavisti che trovarono nei quaccheri e nei loro discendenti i sostenitori più accaniti. Il movimento si estese a Boston (1831) e a Filadelfia (1833, fondazione della Società americana contro la schiavitù) dove nacquero le due fazioni di progressisti e radicali. I radicali, sostenitori di una rapida abolizione della schiavitù, mantennero il controllo degli organi antischiavisti, mentre nel 1840 i progressisti, sostenitori del raggiungimento dell'emancipazione attraverso l'intervento politico e religioso, fondarono la Società antischiavista americana e internazionale. La svolta decisiva si ebbe nel 1854 con la fondazione del Partito repubblicano che con un programma decisamente antischiavista, fece eleggere come presidente nel 1860 Abraham Lincoln. La popolarità di questo movimento si estese a tal punto che portò alla guerra di secessione tra il Nord e il Sud (che aveva negli schiavi l'unica fonte di manodopera nelle piantagioni di cotone). La vittoria del Nord (1865) portò all'abolizione della schiavitù, riconosciuta dal XIII emendamento della Costituzione. 


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