Lettera di Giuseppe Ungaretti a Leonardo Sinisgalli

Caro Sinisgalli,

mi chiedi quali riflessioni mi vengono suggerite dal progresso moderno, irrefrenabile, della macchina. Tocca esso l'arte del poeta? È implicita in esso un'ispirazione poetica? Ho detto una volta, e già sono passati molti anni, che ritenevo la civiltà meccanica come la maggiore impresa sorta dalla memoria, e come essa fosse insieme impresa in antinomia con la memoria. La macchina richiamava la mia attenzione perché racchiude in sé ritmo: cioè lo sviluppo d'una misura che l'uomo ha tratto dal mistero della natura, che l'uomo ha tratto da quel punto del mistero dove è venuta a mancargli l'innocenza. La macchina, dicevo, è una materia formata, severamente logica nell'ubbidienza d'ogni minima fibra a un ordine complessivo: la macchina è il risultato di una catena millenaria - sinteticamente rammentata anello per anello - di sforzi coordinati. Non è materia caotica. Cela, la sua bellezza sensibile, un passo dell'intelletto. Nella macchina, dicevo dunque, s'attuano prodigi di metrica. Tu sai, e meglio di me, come le calcolatrici elettroniche riescono a risolvere come niente equazioni che richiederebbero, se quei conteggi avesse da farli direttamente il matematico, anni e anni di lavoro, e forse gli anni non basterebbero; ma il prodigio non è qui: il prodigio metrico non è tanto nei prodotti di calcolo di quella macchina quanto nella macchina stessa: nei suoi congegni, nelle funzioni che, dai rapporti che tra di essi istantaneamente s'istituiscono, derivano, possono senza fine derivare.
In quel prodigio di metrica noi possiamo ammirare il conseguimento di una forma articolata che, per raggiungere la sua perfetta precisione di forma, dovette richiedere ai suoi ideatori e ai suoi costruttori un’emozione non dissimile da quella, anzi identica a quella, cui il piacere estetico dà vita.
Vi è una forza, che è della macchina, che si moltiplica dalla macchina generatrice inesauribile di macchine sempre più poderose, che ci rende sempre più inermi davanti alla sua cecità, alla sua metrica che si fa cieca per l’uomo, che perde ogni memoria per l’uomo smemorando essa l’uomo.
Tu sai dell'acceleramento portato alla storia dalla macchina, e della precarietà che ne viene agli istituti sociali, e del linguaggio che non sa più come fare per avere qualche durata da potersi volgere indietro e in qualche modo verificarsi lungo una qualche prospettiva. Quale sforzo dovrà sempre più fare l'uomo per non essere senza amore, senza dolore, senza tolleranza, senza pietà, senza ironia, senza fantasia; ma crudele, con il passato crollato, insensibilmente crudele come la macchina? Quale sforzo dovrà sempre più fare per ridare valore sacro alla morte? Il volo, l'apparizione delle cose assenti, la parola udita nel medesimo suono casuale di chi l'ha profferita senza ostacoli di distanza di tempo e di luogo, gli abissi marini percorsi, il sasso che racchiude tanta forza da mandare in fumo in un baleno un continente, tutte le favolose meraviglie da Mille e una notte, e molte altre, si sono avverate, la macchina le avvera. Hanno cessato d'essere slanci nell'impossibile della fantasia e del sentimento, sogni, simboli della sconfinata libertà della poesia. Sono divenuti effetti di strumenti foggiati dall'uomo. Come l'uomo potrà risentirsi con essi strumenti grande, traendo forza solo dalla sua debole carne? Forza morale! La rivista che inizia con questo numero le sue pubblicazioni, e che tu dirigi, si propone di richiamare l'attenzione dei lettori anche sulle facoltà strabilianti d'innovamento estetico della macchina. Vorrei anche che essa richiamasse l'attenzione su un altro ordine di problemi: i problemi legati all'aspirazione umana di giustizia e di libertà. Come farà l'uomo per non essere disumanizzato dalla macchina, per dominarla, per renderla moralmente arma di progresso?

Una lucerna, una lanterna, una oliera

Si dice ormai da tutti che la conquista del benessere va a scapito della felicità, si riconosce che a vincere la noia, tuttavia, non resta all'uomo che industriarsi. Darsi intorno, inventare, trafficare perché? Per rendere più sopportabile, e in fin dei conti più rapido il tempo che si vive. Noi tutti non facciamo che inghiottire i nostri giorni, senza più masticare, senza ruminare, e probabilmente senza più pensare. È logico che la quantità spaventosa di energia che si consuma sarebbe tutta sprecata se non servisse almeno a procurare un giocattolo all'ultimo bambino lucano o coreano, che dico un giocattolo, se non servisse a comprare un sillabario e l'inchiostro e i quaderni agli ultimi bambini esquimesi o zulù, se non servisse ecc. Può venire in mente anche a qualcuno che le macchine siano strumenti del potere dei ricchi, i quali rinunciando allo spadino dopo la Rivoluzione francese e rinunciando anche ai latifondi perché tutto sommato rendono troppo poco si sono accaparrati i Porti e le Centrali, i Pozzi e le Fabbriche, le Pile e le Miniere, i Boschi e i Forni, i Neutroni e i Mesoni. La mia idea è che le macchine sono di chi sta loro insieme, così come i campi sono di chi li coltiva e li conosce e li calpesta e ci cammina, come la donna è di chi ci vive accanto. Ho l'impressione che il Principe, o il Signore o il Padrone siano figure svuotate di significato, siano ormai soltanto maschere o pupazzi, soltanto vecchi simboli scaduti.
Il sentimento della proprietà ha perduto il vigore che valse all'alba dei popoli a creare la prima società di patriarchi, ha perduto il valore di mito che gli veniva dalla storia sanguinaria di Caino. Spesso mi viene da pensare che come le pecore non possono vivere che in branco, e una pecora perduta è una pecora morta, anche le macchine si completano l'una con l'altra, stando in un recinto, raccogliendosi in un ovile. Devo dire che trovo infinitamente più confortante il fatto che mille, duemila, diecimila operai lavorino insieme in un cantiere, in un'officina, sopra un'area poco più piccola o più grande di un villaggio, trovo più confortante, se pure meno poetica, la "giornata collettiva" dell'operaio che non la solitudine del pastore o del ciabattino.
Ma il mio calderaio, il mio stagnino, Giacinto Fanuele della stirpe dei calderai e degli stagnini di Montemurro, era sempre di buon umore. Umore vivo, umore zingaresco, lepidezza e paturnia, specie nei giorni in cui con la sua piccola carovana di arnesi Giacinto e suo figlio si muovevano dalla loro bottega per andare a lavorare a domicilio. Anche le sarte, anche le lavandaie, anche gli scarpari e i mulattieri erano più allegri quando venivano a lavorare a casa nostra. Ed eravamo più allegri noi ragazzi se fuori nevicava ed avevamo ospite in casa nostra lo stagnino, perché l'ospite e il maltempo, dice un nostro proverbio, portano festa nelle famiglie. Vedete fino a che punto la gente del Sud ha paura della solitudine, fino a che punto è radicato il sentimento della socievolezza, l'amore del prossimo in contrasto al cieco, ascoso potere della natura matrigna. Leopardi per una vita intera perseguì questa verità, che poi divenne in lui certezza cosmica: la comunione, la compagnia; Porfirio e Plotino che correggono lo sgomento dell'islandese (che correggono perfino la desolazione del vecchio pescatore cubano Santiago rientrato in porto soltanto con la lisca spettacolosa del pescepada), la definizione di un bene che può soccorrerci soltanto nell'amicizia, nella partecipazione, nell'amore del nostro prossimo. La civiltà di Leopardi relega l'ipocondria, la mutria, l'egoismo, relega gli orsi nelle loro tane.
Noi facevamo tanti onori e tanta festa a Giacinto Fanuele e a suo figlio che venivano in casa nostra per qualche giorno, non a servirci, ma ad aiutarci. E così le pignate di rame, o i caccavotti, o le brocche, o le padelle, venivano guardati contro luce per scoprire un buco, un'incrinatura.
Poi Giacinto con la forbice, e il mantice, e l'acido, e lo stagno, e la latta, si metteva a fabbricare le sue meravigliose forme, oliere, lucerne, imbuti. Forse è per averle guardate tanto a lungo quando la sfera del visibile è così ristretta, forse è per reagire alla civiltà che mi vuole suo figlio e che in ogni istante ne rivendica la legittimità, forse è per restituire, tutte le volte che mi riesce possibile, all'uomo i suoi meriti e le sue responsabilità, che io in questa fredda e limpida sera di gennaio, mi trattengo a rievocare il calore e l'ardore di una lucerna e la fisionomia snella, tagliente dell'oliera lucana. Alla grande tesi che s'intitola "Industrial design" voglio portare questo piccolo ma preciso contributo personale, l'opera accurata, paziente, amorosa dello stagnino di un vecchio borgo italiota. È chiaro che queste forme sono da prendere come espressioni dialettali, così colme di bellezza, una bellezza perenne e ormai immutabile. Concepite con felicità, la lima dei secoli e delle generazioni le ha perfezionate con accorgimenti millesimali. Noi forse esageriamo l'importanza di questi simulacri, di questi gusci inventati per contenere cibo e luce, un liquido lento e prezioso, un simbolo di Afrodite e di Cibele.
Si capisce come questi sacri oggetti venivano a incorporarsi nella vita familiare dei miei avi e passavano, carichi di storia e di memoria, a confortarli con la loro presenza nelle tombe.
Leonardo Sinisgalli

Calder scultore ingegnoso

Dopo Moore, dopo Zadkine, la Biennale Veneziana ha concesso coraggiosamente il massimo premio per la scultura all' ingegnere americano Alexander Calder. Il pubblico che gira a zonzo per i giardini della Mostra e si sposta da un padiglione all'altro quasi per scommessa, sicuro di trovare a ogni curva una sorpresa sempre più grossa, questa volta ha avuto addirittura la possibilità che nessun Museo, nessuna Cappella offre ai fedelissimi. Gli idoli di Calder non erano intoccabili, invitavano anzi i visitatori a scuoterli, a cullarli.
E qualcuno poi esagerava. Al punto che la graziosa Mrs Valentin, ultimo ménager dello scultore, ha pregato noi di intercedere presso i curiosi. "Con mano leggera" ha detto press' a poco "come se un passero si posasse, si muovono più armoniosamente". I visitatori si divertivano davanti ai Mobiles di Calder e si domandavano come mai in una Mostra d'Arte Internazionale il premio di un milione per la scultura fosse andato ad un fabbricante di giocattoli e di rozze carcasse bullonate. All'uscita del Padiglione americano dove è stato esposto per quattro mesi, alla pioggia e al sole, il grande Tripode, il Treppiedi rugginoso, noi pure ci siamo commossi vedendo che in un diedro, tra una lastra e l'altra, un ragno aveva trovato modo di attaccare la sua trappola. Istantaneamente allora abbiamo visto quel manufatto assorbito nella sfera delle cose naturali, scheletro di pesce o di uccello di un habitat iperuranio dove la densità delle ossa è uguale al peso specifico del ferro. Un ragno, un piccolo ragno rosso era venuto a battezzare, a portare cioè la luce dello Spirito Santo, a quell' essere amorfo, a quell'oggetto mal creato. Il ragno metafisico di Mobius che si muove lungo il famoso nastro crede che il mondo non abbia spessore: il mondo è piatto per lui, è piatto finché non si affaccia sull'orlo dell'abisso. Il ragnetto veneziano è stato dunque più fortunato. Se ci sono dei meccanismi che possono materializzare le tre dimensioni dello spazio e quasi riempirlo ad ogni istante con la loro positura, se ci sono forme che in concreto possono rendere meglio il significato delle categoriche definizioni di Leibnitz, "ordine delle coesistenze, ordine delle successioni", questi, come gli alberi e gli astri, come la trottola e l'urna, sono i plastici di Calder. Calder ha trovato l'equilibrio, la concordia dei sistemi articolati, ha risolto per suo conto 1'assetto di masse multiple che qualche volta ha collegato soltanto con una trama di bacchette, di stecche, che ha sostituito con fili di nailon quando non ha potuto legarle con forze magnetiche, quando non ha potuto inventare una legge di gravitazione come Newton o una legge di attrazione come Keplero e Coulomb. Sono sistemi a due, a tre, a quattro, a cinque poli, sono gruppi infine che molto assomigliano alle coppie, ai quadrilateri dinamici, ai ruotismi. Fanno parte di quella poetica della dissociazione che non solo è la conquista più sensazionale della nostra fisica, ma anche l'attitudine più sincera delle nostre possibilità creative. Vogliamo chiamarli dei collages plastici? Vogliamo dire che anche qui la forbice (cesoia o fiamma ossidrica) celebra i suoi fasti sotto forma di verità costruita a pezzi, a brandelli, di linea fatta di segmenti, di trave fatta di profilati e di piastre e di bulloni, di meccanismi composti di ruote, di assi, di perni, di leve?
Da anni c'erano arrivate a spizzico le idee e le utopie di Calder. A me personalmente ogni volta producevano uno strano effetto. Mi portavano la conferma a certe mie inclinazioni e nello stesso tempo mi lasciavano un poco deluso. Io non ho mai pensato che la matematica e la meccanica siano la stessa cosa della poesia. Non è questa la via per giustificare la matematica e la meccanica. Quello che io ci trovo in comune è una tensione dell'intelligenza, è la felicità nella fatica, nello sforzo. Io penso che un sonetto sia un meccanismo, una costruzione perfetta, in cui non si ammira soltanto l'abilità, la chiusura di un pensiero compiuto, di una sequenza d'immagini entro un numero definito. Nel sonetto c'è molto di più di quello che è scritto. E in una macchina c'è molto di più di quello che è disegnato. Sono forse entrambi dispositivi capaci di produrre energia e di trasformarla, di trasfigurarla. Ma non voglio andare troppo oltre. Io penso che Calder potrebbe andare lui più oltre, più lontano. Così come potrebbe andare lontano Moore. Quando si scoprì la Geometria Barocca si pensò di aver dato a Moore e a tutta la scultura la chiave per aprire certi tabernacoli. Quelle forme non le aveva inventate un poeta: anche la Natura non l'hanno inventata i poeti, non l'ha inventata Ruysdael o Cézanne. Deve aver pensato allo stesso modo Calder nei riguardi delle macchine. Credo che egli si sia fermato troppo in qua, come quelli che credevano tutta la geometria contenuta nel cubo e nella sfera. Le macchine formano un regno che la cultura e la sensibilità moderna devono scoprire nella vera essenza. Non possiamo fermarci alla bilancia, alla tenaglia o alla vite di Archimede. La bilancia, la tenaglia e la vite di Archimede sono bellissime. Ma c'è molto di più. Mi sono portato da casa mia questa estate delle vecchie serrature. Ho fatto impazzire mia zia. Siamo scesi in cantina a rovistare per tutta una notte. Certo, i meccanismi arcaici sono commoventi. La preistoria delle macchine andrebbe scritta col furore con cui Gian Battista Vico scoprì la preistoria del linguaggio. Ma io non mi fermo qui. Anche se una vecchia serratura deve fare impazzire Calder. Io dico che è importante conoscere queste cose. Anche se queste cose non servono a niente. Sartre ha scritto alcune righe su Calder, e si è commosso davanti a un filo di ferro che sembrava un uccello del paradiso. Io mi commuovo, al contrario, se penso che un uccello ha potuto far pensare a una macchina; e per lo stesso motivo per cui di tutte le immagini di Petrarca quella che prediligo è l'immagine della vita vista come una nave, una nave carica di oblio. Che una lampada possa suggerire l'idea del pendolo, questa è un' altra cosa che un commuove. Perché il mondo può servire a creare delle immagini e può servire a scoprire delle leggi. Le immagini rinnovano, ringiovaniscono il mondo. Le leggi evitano alla natura di tornare nel caos. Le sculture di Calder, nate da una suggestione di calcolo, di equilibrio, di ritmo, di danza, stanno a mezza strada tra l'universo delle figure e quello degli ordini, tra senso e intelletto. Sono un poco ambigue. La pluralità dei loro elementi riesce sicuramente a divertirci. Il giocattolo è una corruzione del modello, del prototipo, è una caricatura della verità. Le sculture di Calder sono anche un poco caricaturali.
È stato notato che gli elementi di questi sistemi planetari (specialmente i Mobiles) più che a stelle e a pianeti rassomigliano alle losanghe, ai menischi, ai cucchiai di Klee e di Mirò. Somigliano ai piatti delle bilance, ma soprattutto alle bacchette, le bacchette nere degli ideogrammi di Mondrian, che nella carriera di Calder è l'unico maestro che ha esercitato una reale suggestione.
Il mio gusto personale più che alle instabili tribù planetarie (alle costellazioni) va alle scheletriche armature, agli schermi di ferro fissi, ai catafalchi ancorati alla pietra, ai tralicci agganciati al suolo. Tra l'utensile di cucina e i mulini a vento, tra l'aratro e l'aquilone, qualcosa di arcaico richiama un'arte fabbrile, zingaresca, pellirossa, un'arte lontana nell' infanzia dei popoli, e i guippos, i boomerangs, il Teatro delle Ombre di Giava. Nella invenzione di forme libere, in un certo senso di forme assurde, di profili e sagome gratuite che non si piegano alla imitazione del mondo creato e che pure somigliano, come abbiamo detto, alle forme utili, alle forme del moto, Calder si rivela come il meno convenzionale degli scultori moderni, per lo meno nella scelta del materiale plastico che non è pietra, non è marmo, non è gesso, non è avorio, non è terracotta, non è bronzo, ma è metallo fucinato, metallo stampato, materiale di officina.
Leonardo Sinisgalli

Postille cartesiane

FORSE furono ispirati da lui, e certamente dai suoi allievi, questi croquis tanto singolari, diversi da quelli di Leonardo e di Le Corbusier. Lasciamo stare le tavole di geometria, consideriamo le tavole esplicative della sua Cosmogonia: i cieli disegnati come ragnatele, i campi di forze rappresentati come piste di formiche e le palline d'acqua della Meteorologia. Il disegno cartesiano non presuppone né pittura, né architettura. Gli occhi di Cartesio non sono mai presenti nell'opera di Cartesio, come sono presenti gli occhi di Leonardo nell'opera di Leonardo. Si può dire che Cartesio non ha guardato nulla, che si precluse le gioie della vita, le forme, i colori. La natura è servita poco alle sue speculazioni: e questo forse era l'appunto ch'egli faceva a Galilei. Cartesio vuol costruire una Metafisica, non una Fisica. Cerca " ordini e non figure " potremmo dire citando Cardarelli. Tutta la sua ricostruzione è assolutamente astratta, mentale I suoi libri, infatti, non avrebbero bisogno di alcuna figura, come certi trattati di proiettiva o di geometria algebrica. Ecco perché le illustrazioni dei libri di Cartesio sono così strane Sono interpretazioni visive di intuizioni, di pensieri. Sono tipici disegni di filosofi, non di artisti, né di tecnici. Sono chiose grafiche di cui Cartesio non aveva certo bisogno, né abbiamo bisogno noi per la nostra memoria, per seguire l'itinerario sulla mappa del pensiero cartesiano.
Cartesio è passato sulla terra a occhi chiusi: si è negato alle tentazione della grazia. Ha rifiutato le meraviglie del creato. S'era fornito di strumenti più acuti e più sicuri dei nostri sensi. Per questo ha potuto essere " un poco più preciso della natura "
È giusto che al Museo dell'Uomo di Parigi, in cima alla scala che va dallo scimmione al mostro di Neanderthal, dai cavernicoli agli abitanti di tucul, dalle palafitte ai dolmen, si trovi il cranio di Cartesio, che disprezzò natura e sentimento ed ebbe soltanto un'ambizione, perfezionare l'intelletto dell'uomo.
Nell'opera di Cartesio non troviamo mai la citazione di un verso, né un minimo riferimento all'opera d'arte. Nessuna speranza nella felicità delle lettere. Quanto diverso da Montaigne! Quanto diverso da Pascal! Egli si nega alla Bellezza. Ha ben altro per la testa. Non può commuoversi. Deve riflettere. Quanto rigore e quanta malinconia! Pochi hanno chiesto al cervello, e soltanto al cervello, le magre consolazioni.
Quando Gide volle indicare, in tutta l'opera di Cartesio, un luogo di tenerezza, trovò soltanto la lettera che lesse a Julien Green, una pagina sulla dolcezza del sonno. Una vena di sale nel duro sasso.
CI SFORZIAMO di moltiplicare i valori della Vita, di cercare possibilità di vita; anche fuori della natura. Siamo stati cacciati dall'Eden e inseguiamo ipotesi di altri universi possibili. Ci piacciono le matematiche, ci piacciono le costruzioni e le immagini suggerite dal calcolo, dalla ragione, dall'estro. Non vogliamo restare prigionieri della natura. Non ci sazia il paradiso degli alberi, delle acque, delle pietre, quale lo abbiamo trovato dinanzi ai nostri occhi. La bellezza del mondo nasconde un tranello che è la certezza della morte, la dissoluzione, la cenere.
Una promessa di eternità è più esplicita in una linea geometrica o nel disegno di una ruota. Le invenzioni degli uomini non implicano una nostra partecipazione sentimentale. Il diritto di farci patire spetta solo alla Natura e alla Bellezza, alle materie organiche deperibili, alla pelle, al tessuto corneo, alle pupille, alle erbe, ai fiori. Una statua, come un utensile, va in rottami. La Bellezza fa i vermi, Elena e la viola.
Ma un'equazione, un'invenzione, un'immagine si sottraggono al disfacimento di tutto il creato. I frutti dello spirito sono indistruttibili, anche se l'incanto non è così profondo come è profondo il richiamo ingannevole della grazia terrestre, il seno di Rhodopi, l'occhio del timoniere.
Un fiore marcio, un ciottolo davanti ai piedi possono fermare la nostra passeggiata. La breve storia dei biancospini ha potuto rovinare l'anima di Proust. Il mondo, certo, crea l'incanto, ma poi lo divora in un soffio; la natura si nutre di se stessa, non conosce che il sapore, il gusto di sé. E i fanciulli corrono dove c'è da guardare in faccia la morte.
Ma un moncone di colonna, un appunto di Cézanne, il germe di un'idea o di un congegno, accrescono sempre più la nostra ansia; La Natura non sa che farsene dei frammenti. La Natura li elimina.
Il pensiero è sempre in crescita, malgrado tutte le apparenze. Pensiero e santasia sono sempre sostituibili. La Natura è ferma e stabile. Lo spirito non si ripete mai. Per questo non esistono segreti della Natura che prima o poi non finiremo con l'indovinare, sorprendere, scoprire. I misteri dell'arte e della creazione, le parole e i segni, le figure e gli ordini dello spirito non riveleranno mai completamente i loro enigmi.
PER LUNGHI MESI sulle grandi lavagne che occupavano quasi tutta la parete dietro la cattedra, nelle aule del Seminario di Matematica di via delle Sette Sale (una stradina del Colle Oppio con le selci che hanno il colore dell'argento, i muri di cinta appena interrotti da vecchissimi portali), tra l'odore dei fiori e il cinguettìo dei passeri che, chiuse le imposte lasciavano come una scia, dietro la quale si veniva a stabilire il silenzio necessario ad accogliere quelle cifre, quelle sillabe e quelle linee d'oro il professore apriva
il suo rito, proprio come un sacerdote apre la messa, con un segno di croce. Che non era tracciato dalla mano nell'aria e non invocava nessuna presenza divina: erano due solchi di polvere bianca sul buio schermo di ardesia, due assi ortogonali, l'asse delle ascisse e l'asse delle ordinate che fermavano lo spazio intorno a quella O maiuscola, quella O che nei nostri fogli di esercitazione non restava mai un punto di incrocio immateriale, senza dimensioni, come Euclide e Castelnuovo avrebbero voluto, ma diventata per la nostra inesperienza di disegnatori, oltre che di geometri, una specie di fossa, un buco, una bruttura sulle candide tese di carta fabriano, dove imparammo a costruire la spirale la catenaria la cissoide la lemniscata, e molti alti ghirigori dalle virtù pressoché sublimi. La croce dì Carteso venne a sovrapporsi nelle nostre ingenue meditazioni di allora ossessiva, imperiosa alla caritatevole croce di Gesù. I paradisi che essa ci prometteva ci parvero più immediati, e i sentieri della verità furono per noi, lungamente, labili curve disegnate a lapis, intorno ai due assi e a quella tonda lettera astrusa.
Leonardo Sinisgalli

Linee-guida

Nel terzo libro degli Essais Montaigne definisce la curva del suo umore: "Je ne trace aucune ligne certaine, ni droite ni courbe ". Ad alcuni piace andare avanti a caso. Piace molto anche a me rinunciare alla strada più corta. Credo sia questa la condizione del loisir, del riposo: trovare la strada libera in ogni direzione. Poter andare avAnti o indietro, voltarsi, indugiare, scendere, salire. Il nostro pensiero, si dice, non è un ente fisico; non rifiutiamo i pensieri, i fumi del pensiero, i castelli fatui delle nostre rêveries. Ma per chi opera e non divaga, per chi deve costruire, connettere, legare, comporre, fabbricare, una pista è necessaria, un filo che conduca i suoi ragionamenti, i suoi gesti, un punto che lo attiri, una spinta che lo aiuti. Ed ecco che cosa ho potuto annotare in certe mie esperienze, vigilando l'assillo di chi lavora.
Il calzolaio e il sarto sono condotti materialmente da un filo, da una refe, da uno spago. Entrambi hanno bisogno di un ago per cucire due forme, due sagome, due parti di un involucro, come il saldatore, o due aste di un traliccio come il carpentiere. La linea-guida è una curva, una geodetica della forma finale, tuttavia spezzettata su e giù. (Piero della Francesca conosceva le geodetiche del nostro capo, della groppa di un cavallo, di una pera, noi sappiamo che l'elica è la geodetica di un cilindro, ma qual è la curva geodetica di un petalo di rosa che tanto assomiglia alle pale di una turbina Kaplan?).
Il falegname segue dei segmenti di retta, quasi sempre paralleli. E così il contadino, quando zappa o quando ara, segue il tragitto delle acque, le linee di massima pendenza, o le loro perpendicolari quando fa il rimboschimento. (Pare che anche il cuore conosca questa dinamica). Il muratore ha il filo a piombo come asse dei suoi moti, ed ha pure la livella, si muove davvero in un parallelepipedo. (Le Corbusier esclamò un giorno: "Fatemi vivere in una stanza cubica, non importa se dentro ci piove "). Per non andare avanti così a rosario è dunque evidente che ogni mestiere, e certamente ogni utensile, segue una sua linea-guida: la pialla le sue rette, il tornio i suoi circoli, la fresa le sue epicicloidi. (Gli utensili conoscono bene la geometria della squadra e del compasso, la soluzione di problemi di secondo grado, mi pare; ma la valvola elettronica sa molto di più). L'architetto aveva un tempo, come i tipografi, un asse di metria che equilibrava automaticamente i pesi delle sue masse.
Le linee di crescita di un fiore, di una foglia, la disposizione dei semi del girasole la conoscete? Conoscete la filottassi? Uno strano numero entra come determinante in queste linee generatrici. Un numero che regge più di metà dell'universo vivente come il [simbolo greco del pi greco, ndc] (pi greco = 3,1416...), numero trascendente, regge l'universo meccanico. È il numero [simbolo del fi greco, ndc]* eguale a [radice quadrata, ndc] 5+ 1 : 2 = 1,618... Ed eccoci arrivati alla spirale, quella delle pigne, del guscio della lumaca, delle galassie, delle colonie di bacilli.
Pascal indicò una linea spezzata, periodica, a definire una specie di epilessia cosmica, ed è l'unico graffio che troviamo sui foglietti delle sue Pensées. Sembra estratto dal quadernetto di un bambino di prima che impara le aste. Per questo ci sono tanto piaciuti quei segni chiusi che i monelli scrivono col gesso sui marciapiedi, e che in questi ultimi anni anziché tirati dritti, come ai tempi della mia infanzia, sono diventati dei meravigliosi sgorbi, degli scarabocchi serpentini, somigliano ai graffiti delle caverne e a Mirò. (È ricominciato da qualche lustro il disgusto della linea retta, orizzontale o perpendicolare, la paura della morte e dell'abisso, l'insofferenza per il riposo e per la riflessione, l'orrore della luce, l'amicizia del vento: il nuovo Barocco). Si può dire ancora: che già nell'attrezzo, nel suo profilo, nel taglio, troviamo indicata in qualche modo la sua rotta, il suo cammino, ferro da stiro o ascia, suglia o cazzuola, trapano o sega. Mi piacerebbe analizzare, studiare al rallentatore i gesti necessari ad ogni mestiere, i gesti che ognuno ripete più di frequente e senza più riflettere: si capisce non per cavarne delle norme di lucro, non per accorciare i tempi di lavorazione e sopprimere le operazioni superflue. L'hanno fatto tanti con puntiglio. Al gesto che noi ripetiamo periodicamente, a questo contorno assiduo al quale è legata la nostra figura in qualche modo dobbiamo affezionarci. La consuetudine può togliere all'automatismo la buccia ripugnante, e noi possiamo vedere nel nostro lavoro monotono l'irremovibile necessità di una misura, di un circuito. Non voglio forzare la penna. Dico che è sempre una fortuna pensare che ciascuno di noi un giorno lontano possa chiudere gli occhi sul lavoro preferito, lungo la sua orbita più bella. " Che la morte mi ghermisca mentre sto piantando i cavoli " diceva giusto Montaigne.
* Questo numero, onnipresente, se pure spesso ascoso, nelle opere di natura e nelle opere d'arte, ha una virtù singolare che si esprime nella relazione [fi] + 1 = [fi alla seconda, ndC].

Figlie del fuoco

Mi par di giocare con le pulci già da tanti anni: ma devo dire che in questi mesi scorsi le mie pulci sono diventate obbedienti. Sono pulci ammaestrate, come nel balletto dell'ultimo Charlot. Conoscono gli umori del loro padrone, e basta abbandonarle in libertà perchè esse sappiano scegliersi le orecchie più sensitive, più suscettibili, più attente.
Non sapevo gran che sul principio di questa nuova avventura: vado indicando col dito dei paesaggi piuttosto brulli, degli spauracchi, una fauna che ha insieme qualcosa di preistorico e di verniciatissimo, di bruto e di delicato, un regno più arido del regno delle idee, che sono sempre sinuose, esitanti, invertibili.
Potrei sempre confortarmi col puntello di Platone a cui queste tebaidi, questi volumi ingombranti, offrirono il pretesto per inventare una poesia e una metafisica, la nascita dell'unicum, del modello. Ma Platone vedeva disegni, tracce, vedeva simulacri, non sostanze grevi. Gravide forme nel cui segreto agisce una forza tanto più attiva di quella che muove e sostiene tutti gli oggetti che cadono sotto il nostro dominio.
L'attrattiva dei metalli è la loro pesantezza, la loro compattezza, la loro omogeneità a vista d'occhio. Noi sappiamo, anche senza ricorrere ad analisi troppo raffinate, che nei metalli le cellule, le gabbie, i reticoli sono assai fitti, che nelle loro forme la materia in un certo senso vi è costretta, vi è spinta, vi è pestata dentro. Vi sta come insaccata. In un mondo soggetto a scosse, a tremori, a brividi, in un universo sbilanciato che cerca perennemente un assetto, i metalli ci possono pure restituire la promessa di una stasi, uno spunto di irremovibilità, di ottusaggine. Certo gli uomini hanno fatto di tutto per mettere in sussulto anche queste sostanze nate per vivere ferme come le pietre, di cui del resto sono figlie legittime. E le hanno costrette, sia pure su traiettorie fisse, a rotare o a slittare vertiginosamente. In confronto alla vita effimera, allo spazio vitale della più piccola, più pigra larva, voi sapete che tanto una valvola, quanto un pistone, o un cuscinetto, o una biella, o un albero, o una ruota dentata, godono di una libertà veramente irrisoria. Non si può dire però che se ne stiano in contemplazione. Tocca a ogni particella, quando è comandata, di compiere non un giro in 24 ore intorno a un punto come facciamo noi intorno al sole, ma 40, 50, 100 giri al minuto secondo intorno a un asse, e di sopportare accelerazioni di qualche centinaio di metri al secondo: e tutto questo dentro una placenta poco più grande di una mano o di un sacco. Possiamo dire che alla loro naturale inerzia, tanto più profonda della nostra, è stato trovato un correttivo di vita vorticosa, di fremito, di musica, che ha un solo veto nella forza di coesione dei grani.
Vita veloce dunque su orbite obbligate, quasi come le stelle, per le parti nobili, per gli organi in moto. Come questa bruta materia riesca a sopportare gli sforzi che vorrebbero ogni attimo sfasciarla, come riesca a vivere sempre in extremis, al limite di una caduta, di uno sfacelo, è cosa degna delle meditazioni più solenni.
C'è in giuoco una carica che assomiglia a un'estasi, c'è una vera e propria difficulté d'étre, una condizione anormale, uno sproposito che diventa una regola, un regime.
Io tento di spiegarmelo a modo mio, così come a modo nostro ci spieghiamo tante apparenti assurdità. Ecco. Le macchine, e più di tutto le loro membrature mobili, hanno subito una specie di processo di iniziazione, il graduale crescendo di un rito orfico. Il loro corpo è stato spogliato di tutte le scorie, di tutte le impurità attraverso bagni e cotture e fustigazioni progressive. La materia è passata al forno, la materia è stata fusa, la materia è stata colata, la materia è stata laminata, è stata forgiata, sempre ad alte temperature, è stata materia rossa, materia ardente, volume di fuoco. Come vedete non siamo molto lontani, dai simboli remoti, dai miti eroici. Probabilmente l'uomo imparò a scalfire le rupi, a trovare i primi segni della scrittura, a organizzare il suo linguaggio allora e quando aveva scoperto l'essenza del fuoco. Il fuoco non soltanto brucia e disgrega, il fuoco stringe e coniuga.
A dar vita alle macchine non sarebbe bastato il sole.

Poesie lucane scelte e trascritte dai dialetti indigeni

Il viaggiatore, che si chiami Valéry Larbaud o Norman Douglas o Carlo Levi, lasciato il Tempio di Pesto alle spalle ed entrato nella gola degli Alburni, alla stazione di Sicignano, vede ristretto il suo cielo all'orlo delle montagne brulle. Tre tunnel gli si aprono davanti agli occhi: ha appena il tempo di prendere aria, di meravigliarsi della profondità dell'imbuto quando il roco appello del capostazione lo obbliga a una scelta: Taranto, la Calabria, Lagonegro. E un rumore d'acqua che diventerà lungo il viaggio uno scroscio impetuoso o un remotissimo brusio comincia a entrargli nelle orecchie. Da principio è il Sele, poi il Bradano, infine il Basento, fiumi cupi che appaiono e scompaiono tra una galleria e l'altra e danno al forestiero l'impressione di andare all'Inferno. La Lucania è una terra di passaggio: i soli viaggiatori che buttano fuori i sacchi e le bisacce sotto le tettoie di questi scali desolati siamo noi poveri indigeni. Gli altri si affacciano ai finestrini, un istante, e vanno verso l'Oriente o verso il Sud. Noi ci fermiamo qui, a mezza strada, nel retroterra. Noi non siamo animali d'acqua, non chiedeteci di parlare troppo a lungo, non fateci bere, non fateci ridere. Voi turisti non fate baccano. Vedete come i piccoli e i grandi qui vanno scalzi per non far rumore, guardate i calzari antichissimi e silenti, scarpe fatte di pezza o di corda o di saggina. La gente non cammina, stràscica, si trascina di qua e di là. Il grande strepito lo fanno i galli e gli asini. Il grande evento è la gallina che fa coccodè. Che sia nata quaggiù dal silenzio una religione e dall'uovo una scienza non è un mistero per nessuno. Non è meraviglia se Pitagora potè scoprire le leggi della musica e se il crudele Zenone mise gli uomini in sospetto contro il giuoco dei sensi. Ma io non voglio essere troppo sottile, queste cose non interessano tanti! Certo mi piacerebbe perdermi nelle argomentazioni in cui erano così versati i miei vecchissimi parenti che indagarono l'essenza dello Zero e dell'Infinito. A chi importa lo Zero, il Nulla? A chi importa l'Infinito? Lo so, c'è modo e modo d'intendere un paese. Gl'Imperatori di Svevia, i Prefetti Bizantini, i Re Borbonici capirono che i miei antenati erano di scorza dura ma di midolla delicate, capirono che dietro le montagne c'era una popolazione generosa di nascite, impaurita della Morte, taciturna, meditativa, lenta, ma vigile e scaltra. Le nostre Tribù hanno forse l'udito fragile, ma narici e pupille sono potentissime. Oh i miei cari dalle piccole orecchie di topo, dall'occhio di gatto, dal naso di cane! Chi poteva scoprire i loro vizi e le loro virtù? Non certo gl'Imperatori Svevi, i Prefetti Bizantini, i Re Borbonici che si tennero a debita distanza dai nostri tuguri. Non certo l'inviato speciale che va a guardare il porco sotto il letto. Credono di farvi felici facendo i conti dei nostri bisogni. Si provino a rimuovere le montagne, a mutare il corso dei venti, si provino a togliere i sassi, miliardi di sassi, a fermare i terremoti, le frane, le alluvioni. Non c'è riuscito Mosè, non c'è riuscito Giove, non c'è riuscito Orfeo, non c'è riuscito Maometto. Qualcuno sostiene che non ci riesce neppure Gesù Cristo. Dice che noi non lo abbiamo visto passare per i valichi della Serra, degli Alburni, del Senno. Eppure quando io ero bambino e arrivò in piazza un carretto trascinato da un immenso cane bianco, e nel carretto stava seduto un uomo monco delle mani e dei piedi che comandava a un pappagallo di scegliere una busta col nostro destino - me lo ricordo io, me lo ricordo bene - la gente disse sotto voce: "E lui! Ha lasciato le mani e i piedi sulla Croce!". Me lo ricordo io, me lo ricordo bene. Io ricordo ancora a memoria la canzoncina che i fanciulli gridano alla Luna:

Luna, Luna nova
Io non t'ho vista ancora.
Ma ecco che t'ho visto!
Bacio il piede a Gesù Cristo.

Lo conosciamo dunque! Lo conosciamo, certo, ma ci fa un po' paura. Non è il Diavolo che ci fa paura: questo nessuno lo vuol capire. Il Diavolo è l'unica cosa che ci fa ridere, è l'unica cosa che ci diverte. Ci diverte il Monaciello, ci diverte il Papparom. Sono le due sembianze che ha preso il Diavolo tra noi, e non fanno paura neppure ai bambini. Due sorci sono, due puzzole, due donnole, non sono mica due persone, due spettri. E quando mai i bambini, in Lucania, hanno temuto i sorci, le puzzole, le donnole? Fermate un qualunque monello per le strade di Armento, o di Anzi, o di Montescaglioso, o di Picerno, o di Pescopagano, e fategli fare lo squittire del sorcio, il fischio della donnola, il canto della puzzola. I fanciulli imitano il diavolo, irridono al diavolo, scherzano col diavolo. Credetemi. Ma hanno invece, piccoli e grandi, maschi e femmine, una grande paura, una paura antica, una paura segreta di Colui che non può essere nominato invano. Quello che muove luce e ombra sulle nostre terre, che dà ai porci il mal rossigno e ai bimbi lo scorbuto. Quello che comanda le frane e le alluvioni, la buona e la mala annata, che fa spuntare tra gli sterpi la rosalonga e la serpapinta. Che cos'altro vuol dire quella canzoncina che io imparai a gridare al tramonto, appena caduto il sole, che cos'altro vuol dire se non il presentimento della morte che s'insinua già nella piccola anima, nella piccola voce di un bambino:

In alto in alto c'è la cassa
In basso in basso c'è il tamburo.

S'è tradotto quasi tutto da noi in questi anni: i lirici greci e i metafisici inglesi, i poeti americani, spagnoli e cinesi. Si potrebbe dire che "i poeti hanno letto tutti i libri". Io vi presento un mucchio di versi indigeni. Molti di questi canti sono familiari al mio orecchio. Qualcuno viene gridato, qualche altro è accompagnato dal lagno della cornamusa o del cupo-cupo, altri sono mormorati a bassa voce come le preghiere. Le parole che io ho trascritto nella mia lingua sono parole rustiche, sono parole volgari. Non sono state calcinate dall'accademia, non sono state munte e poi bollite. La nostra poesia indigena ha una struttura semplice e schietta. E un commento, un riepilogo. Non è mai un vaniloquio. Come nei canti delle chiese, come nelle testimonianze processuali, c'è soltanto un piccolo lavoro da fare volta per volta: distinguere le voci.
Per amore ai miei paesi io tradussi, anni addietro, un primo gruppo di versi lucani da una raccolta di canti curata da L. Andretta per una tesi di laurea. Ebbero buona accoglienza tra gli amici. Per questo approfittando di una vacanza straordinaria, mi son portato nella valigia il libro di G. Bronzini, "Tradizioni popolari lucane", stampato a Matera nel 1953. Devo dire che la spinta a queste affascinanti esercitazioni mi è venuta dall'esempio di due maestri insigni, Ungaretti e Paulhan. Non dimenticherò mai quel lontano pomeriggio della mia giovinezza quando mi accadde di leggere, in uno stanzone vicino al Pantheon, le poesie dei Malgasci in uno dei primi numeri di "Commerce". E il nostro caro Ungaretti, tornando dal Brasile, ci portò una merce altrettanto preziosa. Ho la certezza che anche queste immagini nostrane potranno arricchire la cultura dei poeti e sollecitare la conoscenza di un popolo ancora ignorato, malgrado le ultime razzie dei reporters e le ciniche infatuazioni dei politicanti. Questo mio tributo matura oggi al momento giusto. Ho conservato tutto quello che potevo di tanta adorabile "idiozia" ed ho evidentemente cercato nelle forme una stabilità sintattica più che una facile simmetria di accenti. In questi ultimi tempi si è parlato con molto calore della necessità di allargare i confini della cultura indagando oltre gli schemi stilistici tradizionali nel più vasto campo dell'arte spontanea. E un sintomo sicuro di una disposizione più comprensiva, più affettuosa verso i monumenti e i frammenti trascurati di una umanità relegata fuori della storia. Anch'io con animo nuovo e più simpatia ho compiuto un altro viaggio alle origini.

Geometria e geografia

Già tra le isole Azzurre (Azores Archipelago of fine Muses, Corvo Flores, Fayal, Pico, San Jorge, Graciosa, Terceira, San Miguel, Santa Maria), a 770 miglia dalla costa del Portogallo, sentimmo il potente odore dei sargassi bolliti nel Gulf Stream. Quella stessa mattina ci pareva di vivere felici sui ponti della nave come su un balcone di via Toledo o una loggia dei Castelli romani; le case bianche e leggere sui prati e i cespugli delle viti basse e larghe sulle ginocchia dei vulcani. I piccoli nomi delle nove stelle inchiodate alle acque dell'oceano (un diadema grande come una calza infilata al nostro Stivale) ci introdussero dolcemente alla solitaria rotta sulle acque. Noi non toccammo più terra per quattro giorni e per quattro giorni non vedemmo più nulla, soltanto le colonie di sargassi sulla superficie putrida, trascinate dalla corrente del golfo, e di notte le costellazioni amiche. Capimmo qualcosa della forza e della vastità degli elementi; eravamo un puntino nel raggio di migliaia di miglia, un puntino tuttavia sempre equidistante dal cerchio dell'orizzonte. Scoprii questa linea chiusa che fino a quel momento sapevo soltanto tracciare sulla carta con le punte del compasso, il cerchio sacro di Euclide con le sue proprietà meravigliose (l'angolo al centro è il doppio dell'angolo alla circonferenza che insiste sul medesimo arco). Questo teorema cercai di spiegare al parrucchiere di bordo, ahimè senza profitto, cercai di spiegarlo al commissario, al comandante che aveva perduto l'abitudine alle dimostrazioni. Lo afferrò a volo il bambino venezuelano che ne dedusse un corollario egualmente eccitante: "Tutti i triangoli inscritti in un semicerchio con vertice sulla circonferenza sono rettangoli". La carenza dei geometri mi spinse a cercare a bordo qualche cultore di semplice geografia. Anch'io so troppo poco della vita del vento, tanto che qualche mese addietro mi era venuta voglia di leggerne qualche biografia. Sapevo che c'erano venti effimeri, spifferi d'aria, venti mattutini e serotini, ponentini e brezze, venti umidi e venti secchi, venti bizzarri e venti periodici, mi piacevano le banderuole e gli anemometri a coppe, i galletti di stagnola, avevo pratica di venti che intrigano il cielo e la terra nel mio borgo, ma non sapevo quasi nulla dell'influenza che una certa aria può avere sul taglio, la porosità e la morfologia delle pietre e delle onde. Salii tutte le scalette che portavano al ponte di comando, c'erano apparecchi lucidi, blindati e penne che scrivevano continuamente su rotoli di carta millimetrata. C'erano piume dentro una teca di cristallo capaci di segnalare le minime presenze di fumo dentro i vari scomparti della nave. Raytheon, Salmoiraghi, Marconi, avevano stampate le loro sigle sui coperchi di quelle scatole piene di insetti, di grilli, di organismi suscettibili e obbedienti. Misi la testa nel cappuccio del radar che spazzando in tutte le direzioni non trovava un gabbiano che respingesse i suoi raggi. Tutto sgombro e vuoto il cielo e le acque. Dissi al pilota: mi racconti qualcosa del Gulf Stream. Non mi diede retta il genovese e in verità nemmeno mi diede corda, retta o storta. Tanto che mi decisi a consultare il "Corriere del Mare" stampato ogni giorno per tre quarti a Genova, in anticipo, e per un quarto a bordo. Trovai tutto sulla Lollobrigida, sul carcere Mamertino e su Capri. Ma eravamo in rotta dentro il Gulf Stream, ci saremmo rimasti per quattro giorni fino a New York, e nessuno sapeva illuminarci su questo biscione immenso che striscia eternamente lungo il mappamondo sferico, soffiando come un orco a velocità di direttissimo per evitare il congelamento e la morte di una buona aliquota della crosta e delle coste.

Gli uccellini in cabina

L'umidità del cielo gonfiava i pannelli delle cabine. Il rullio faceva scricchiolare le infrastrutture. Una nave si muove come un carretto carico di limoni che fa cigolare i perni. Sentivamo pigolare e miagolare sulle nostre teste, sulle nostre spalle. Qualche notte avemmo la sensazione che il letto si squarciasse e ci svegliammo di colpo. Ma eravamo viaggiatori dilettanti che non sanno rendersi conto dello sforzo immenso che quel guscio oppone alla dura ostilità delle acque. Una nave è sempre una scure che taglia il mare come un tronco d'albero. Una nave è un canestro che non porta il piccolo Mosè sulle acque del Nilo, è un canestro d'acciaio premuto e teso e contorto che trascina migliaia di tonnellate di metallo, di legno, di carne, di lattuga, di uomini, di macchine. I viaggiatori si convinsero che l'uccellino che squittiva nella cabina, proprio lassù, sopra il lavandino, era garanzia della solidità, della flessibilità di tutta l'immensa mole in movimento. Quel fuscello nell'oceano poteva resistere e correre come Coppi perché "gli uccellini" indicavano, sì, un tormento vivo ma anche una resistenza certa. Tutta la massa vibrava, guaiva, miagolava, strideva, perché lo sforzo a cui la struttura e le impalcature erano costrette era certamente più forte di una carezza, era un abbraccio che piegava le costole. Ciascuno di noi si abituò a quella compagnia. Gli sportelli, gli specchi, i letti allentarono il concerto perché la nostra coscienza li digerì per assuefazione e il sonno li conciliò fino a servirsene come complici nella notte e a trasformarli in voci e spiriti del silenzio.

Il mondo nuovo

All'alba, in mezzo alle raffiche del ciclone Carolina Hurricane Caroline, il 31 agosto 1954, arrivammo alla foce dell'Hudson. Sulle rive dell'Hudson non è sbarcato Enea. Arrivò Giovanni Verrazzano sulla punta di Manah-Hatin (l'isola delle colline) nel 1524 e vide un popolo vestito di piume multicolori. Manhattan è rimasta ancora una collina, una collina di prismi e di credenzoni, di guglie e di pinnacoli. Il lontano profilo, tra la pioggia e la nebbia, era quello di un nostro villaggio della pianura padana; ma quando ci avvicinammo, appena doppiata la statua della Libertà (il naso mi disse qualcuno è grande un metro e mezzo) i grattacieli di Wall-Street così vecchi, così scuri, così fitti, mi fecero pensare a una osmosi tra l'Oriente e il Gotico, a un sogno come può venite raccontato, disegnato, raffigurato da un essere con un solo occhio. Non avevo dormito la notte, non volevo perdere nulla. Scrissi a casa: "mi sento come un bambino che ha vegliato pensando ai primi pantaloni lunghi che dovrà infilare domattina per la prima volta". Mi pareva di andare per il primo alla scoperta del Mondo Nuovo. Forse mi ero preparato troppo a lungo e avevo finito col perdere il gusto delle cose che avrei trovato. "Vado a fare dei controlli, vado a verificare qualche misura" dissi per celia a un gentiluomo francese che s'inzuppava di pioggia, come me, risalendo la corrente davanti al fitto pettine delle banchine. Arrivati alla Città di Mezzo (Middle-Town) il pellicciaio parigino che tornava a New York per la sesta volta mi mostrò le punte più alte all'orizzonte, l'ago dell'Empire, la pigna del Crysler, la torre di Radio City. Tra i ferry-boats, i caricatori volanti di pe-rolio, i rimorchiatori, riuscii ad alzare gli occhi verso la città ormai vicina. Lessi la scritta cubitale NABISCO altrettanto sibillina quanto le lettere di DUETTI in Piazza di Spagna. Dopo mezz'ora, all'una del pomeriggio, il ciclone Carolina aveva già fatto mezzo bilione di danni, in dollari. Lo dicevano i grandi titoli su tutta la prima pagina delle edizioni serali. Noi trascinati in macchina da Piero de Peverelli ci trovammo subito sotto il gruppo di sky-scrapers del Rockefeller Center. Non era Oriente e neppure Occidente-gotico; lì, in concreto le leggi di Poisson e la Siderurgia, l'arte muraria e l'acrobazia, Cartesio e i muratori del Friuli, le pietre nere e le pietre bige, in armonia, avevano letteralmente rovesciato il cielo, lo avevano buttato di sotto. E le cime ardue dei grattacieli infatti vi affondavano come radici liquide di ninfee.

Il rettangolino e il punto

Una qualunque tesi sull'architettura di New York si può puntellare tanto con le idee di Cecchi che di Le Corbusier, di Borgese, di Berenson o di Paul Morand. Si può sostenere che "i grattacieli sono troppo piccoli" come disse Le Corbusier quando sbarcò in America la prima volta. Si può dire che non sono una novità e che le torri di San Gimignano provocano maggior emozione, come disse Berenson. Si può affermare che sono belli, che sono brutti, che sono puerili, che sono insignificanti. Qualunque sproposito può passare per originalità. Resta il fatto che queste costruzioni ciclopiche ci turbano e che soltanto il complesso della Piazza dei Miracoli di Pisa ci diede uno choc così forte. I grattacieli non vanno guardati uno per uno, essi non presumono di passare per dei modelli, per dei prototipi. L'opera dell'architetto del resto qui è trascurabilissima. Quello che conta è l'organizzazione, la distribuzione del lavoro, la raccolta delle équipe, l'addestramento; così come contavano nel Medioevo per erigere le cattedrali, così come contano oggi per fabbricare scatole di latta o aeroplani. Il grattacielo è figlio della nostra civiltà come l'automobile, la turbina a vapore, la dinamo. E sciocco fare un paragone fra l'Eretteo e il grattacielo, tra il Pantheon e il grattacielo, tra Leon Battista Alberti e Graham, tra Palladio e Frank Lloyd Wright. Guardavo l'altra notte la città dal terrazzo del settantesimo piano del R.C.A. Building, e mi parve di scoprirne l'essenza, il modulo, nel rettangolino di luce gialla delle migliaia e migliaia di finestre, nelle processioni di punti rossi delle automobili, nelle coroncine di punti verdi dei semafori. L'acciaio, la pietra, il cemento, la sagoma cubica o prismatica, o piramidale, non avevano senso, assorbite dall'oscurità. C'erano quei rettangoli nitidissimi se pure così minuti e gremiti, ma non casuali, non caotici: erano i rettangoli delle schede perforate, delle nuove macchine elettroniche, era il trionfo della statistica. E i puntini? Perché non fare subito il nome di Klee? Perché non pensare ai "buchi" di Lucio Fontana? La cultura, che interpreterà questo spettacolo è dunque cultura nostra e la cultura dei nostri giorni, non è Vitruvio, ahimè, non è l'Estetica.

La parte del diavolo

L'albergo della Ciliegina Olandese, The Sherry-Netherland, di 37 piani (la benemerita Società di Navigazione "Italia" ci ha fatto dono non soltanto di un viaggio di andata e ritorno indimenticabile, sulle due superbe turbonavi gemelle, la "Colombo" e l'"Andrea Doria", ma perfino di una regale ospitalità in un sito bellissimo di New York, davanti al central Park, all'incrocio della Fifth Avenue e della 59 strada) col baldacchino verde davanti all'ingresso sull'ampio marciapiede, ci apriva una vista sugli alberi e sui palazzi addirittura europea; avremmo potuto trovarci a Roma nei pressi di Porta Pinciana, o a Parigi intorno all'Etoile, o a Napoli in fondo alla discesa di via Calabritti. Ma il cielo col crepuscolo verde e rosa è americano, è atlantico. La vena fresca del vento ha una frequenza oceanica. E le bandiere sbattono sui pennoni con un particolare ardire e una diversa frenesia. Ho dormito bene nelle brevi notti. E ho dormito anche a New York qualche pomeriggio. Non ero mai stanco: le sudate, la brezza a tutte le ore anche nel mezzo dell'afa più cupa, il whisky aiutano a stare desti. Di sera, al crepuscolo, rasentavo il Parco camminando a piedi lentamente davanti alle case dei nababbi. Uno scoiattolo veniva a chiedere le noci che poi seppelliva sotto una foglia.
Una nurse portava a spasso due cagnolini piccoli piccoli, ma già adulti. E ricordavo di aver visto al mattino sul tavolo di un restaurant delle rose piccolissime. Facevano certamente meraviglia quei due cani e quelle roselline in un mondo di dimensioni gigantesche. Ma sulla unità di misura, pollice o piede, di questa città bisognerebbe discutere a lungo, scriverne con precisione. Riesce difficile condurre la mano con fermezza sullo scrittoio oscillante di una cabina, infilare dentro le parole l'ago di un pensiero. Credo che gli americani non si siano preoccupati di guadagnare la grazia, di stabilire rapporti sublimi attraverso la bellezza. Essi credono fermamente che senza ispirazione, senza illuminazione, si possa, con gli utensili dell'uomo, con la fresca energia della mente dell'uomo, costruire un mondo più confortevole, più ordinato, più igienico. Hanno cominciato con l'infischiarsene della natura, col ripudiare l'Eden, hanno compiuto operazioni temerarie, hanno raccolto i risultati sproporzionati, le combinazioni mostruose, hanno trascurato le fisiche psicologiche e teologiche, hanno minimizzato il potere del demonio, non hanno avuto paura delle macchine, e si divertono, si divertono seriamente, senza mai peccare di astuzia o di impertinenza, davanti alle donne che si spogliano a suon di musica nei loro ritrovi sotterranei. Che questo mondo, questa vita, volutamente schivi di mistero, finiscano alla lunga col diventare troppo leggibili, espliciti, come un teorema di cui è inutile rifare sempre la dimostrazione, può anche essere considerato un limite. Io non credo alle fole dei sofisti. L'incommensurabile lasciamolo alla matematica, alla metafisica, alla psicanalisi. E le larve, le larve ai poeti.

Poesia a 5 cents

Del resto la poesia non è "servita", non è offerta al pubblico in America col nostro lugubre cerimoniale. Non viene letta solo in sacrestia e nelle catacombe. I versi non rappresentano un insulto per i borghesi, non denunciano un'operazione occulta, né una formula magica. Ogni mattina il "Times" e l'"Herald Tribune", senza tema d'offendere i loro lettori portano un mazzetto di versi che vengono serviti sotto il melone e il prosciutto nelle case, negli alberghi di New York. Perfino "Harper's Bazar", perfino il "New Yorker", in ogni numero recano i versi di poeti noti e sconosciuti. "Lo fanno per riempire le 56 pagine quotidiane" mi diceva un giornalista italiano. Mi pare un giudizio ingenuo, come credere ancora che i grattacieli siano spuntati per deficienza di spazio. Certo sui giornali e sulle riviste a grandi tirature, non si leggono i versi di Ezra Pound. Sull'ultimo numero di "Poetry", rivista di poesia fondata nel 1912 da Harriet Monroe, e diretta oggi da Karl Shapiro, trovo un elenco di 188 nomi di membri iscritti a una Associazione della Poesia Moderna. Sono poeti e amici di poeti, un tentativo di Arcadia, una fondazione di Illusi che a mio avviso spiega e giustifica e impone interpretazioni molto più approfondite dell'anima americana. Ma ecco il florilegio che ho potuto estrarre da una affrettata lettura dei giornali e delle riviste di questi primi giorni di estate indiana. Sull'"Herald Tribune" del 1 settembre i versi di Anobel Armour: "Questo ragazzo che possiede l'universo / Porta sassi nella sua borsa. / Nessuno mai gli ha detto / Il valore dell'argento, neppure quello dell'oro, / E anche se ne avesse sentito parlare / Non avrebbe afferrato le due parole. / Poiché egli possiede la pioggia, la rugiada, il sole, / Ed ha in proprietà ereditaria uno o due porticcioli, / Ed è padrone anche di una collina, di un vitello rosso, di una frusta. / Come mai è arrivato così lesto / A possedere tutto questo? / Gli bastano gli occhi e ancora un giorno di vacanza, / La terra è la sua stanza". E ancora sull'"Herald Tribune" del 3 settembre, questi versi di Margery Mansfield:
"La tortora del cielo, come sempre, il tondo scintillante sole / Comincia il suo viaggio molto prima che noi ci destiamo, / Striscia esatto e sicuro attraverso i cieli, / Mentre noi, conigli del momento, saltiamo e corriamo / A zig-zag tra i dilemmi. Troppo presto la luce / Rossa nei fiumi della vittoria ci dice che / Il sole ha raggiunto la collina... ". Dal "Times" del 2 settembre i versi di Geoffrey Johnson: "...I1 tempo è appeso in catalessi, come una volta, ad Ajalon. / Mi volto e guardo la faccia del boscaiolo con le rughe fitte come le vecchie pietre di questo luogo / Nel sole d'autunno. / Vedo il guizzo della nera scure tre volte. / Il becco tre volte ha colpito con vigorosa voluttà. / Spio in silenzio e spio ancora e odo lontano i tonfi senza più echi nell'aria...". Dal "Times" del 6 settembre i versi di E. W. Northnagel: "Pietro, tu sei un vecchio / Fabbricato col sale. / Misuri il tempo e la strada sulle maree, / Corri sulle piste immaginarie di una pianura senza fine. / Psicologo dei pesci, / Astuto orologiaio delle stelle, lavorato dalla brina e dalle funi, / Uomo anfibio e Acrobata invincibile". Come avete visto non è tutta poesia idiota, poesia da 5 cents questa che viene servita quotidianamente, e a mattutino, a milioni di lettori tirati dal letto dagli uncini dei loro jobs.

Tre incontri mancati

M'ero messo in testa, alla vigilia del mio viaggio, di incontrare almeno tre persone che considero le più rappresentative tra quelle che vivono in America, il poeta Ezra Pound, il matematico Albert Einstein, l'urbanista Lewis Mumford. Pound a Washington, Einstein a Princeton, Mumford ad Harward. Non sono stato fortunato. Di Mumford, a più riprese, abbiamo informato i lettori della nostra Rivista, e in Italia gira un'ottima traduzione della sua opera capitale "The culture of City". Ma non mi è riuscito esprimere a Mumford, a viva voce come avrei voluto, la mia stima profondissima per quella specie di cultura, non soltanto estetica, che lui ed altri pochi (Giedion, Read, Argan) hanno messo in circolazione per il mondo, una cultura, penso io, che può affinare non soltanto l'intelligenza ma anche la mano dell'uomo, oltre che l'occhio e l'animo. Il mio amico Renzo Nissim, dopo anni di attesa, era riuscito in quei giorni a parlare con Einstein. Quando seppe che anch'io nutrivo questa speranza, "non cavi un ragno dal buco" mi disse. Einstein ha timore delle persone sconosciute, e poi, non vuol perdere tempo, non tanto perché tutti i giorni deve fabbricare equazioni, ma soprattutto per non rimuovere certe consuetudini. Deve passeggiare solo per strade tranquille e lungo i viali fiancheggiati di olmi. Come Kant è un abitudinario. Verso le 10,30 ogni mattina un modesto autobus su cui si legge la scritta "Institute of Advanced Study" rallenta all'angolo di Mercer Street, a Princeton (New Jersey), e si ferma dinnanzi alla casa di legno che porta il numero 112. La sua assistente, Bauria Kaufman, laureata in fisica teoretica all'Università di Columbia, l'aspetta nello studio, che sembra un laboratorio o la cella di un priore, un priore astronomo e matematico. All'una del pomeriggio, Einstein ripone i suoi appunti in una borsa di pelle e, se il tempo è buono, torna a casa a piedi. Nissim mi dice che, dopo colazione e l'abituale siesta, Einstein continua a lavorare e a leggere nella sua vecchia poltrona fino a sera. Dopo cena, ogni tanto, suona al pianoforte qualche brano di Bach o di Beethoven. Lo scienziato vive con la figlia adottiva Margot e con la sua affezionata segretaria e direttrice di casa Helen Dukas che gli è stata vicina negli ultimi 25 anni. In casa parla tedesco. "Non credo" conclude il mio amico "che ti riuscirebbe sapere di più". Poi aggiunge scherzoso: "salvo che tu non abbia in tasca qualche strumento matematico, un nuovo calcolo differenziale assoluto, un nuovo utensile o nuovi simboli". Sono uscite quest'anno da noi, a cura di Alfredo Rizzardi e dell'editore Ugo Guanda, le traduzioni degli undici Canti Pisani, "The Pisan Cantos", scritti da Ezra Pound in un campo di concentramento vicino a Pisa. Vanni Scheiwiller ha pubblicato all'insegna del Pesce d'Oro i canti XIII, XX e XXVII nella traduzione di Mary de Rachewiltz, figlia del poeta. Pound stesso deve avere autorizzato la pubblicazione, in coda al libretto, di questo Appunto biografico che trascriviamo per illuminare i lettori: - Ezra Pound è nato ad Hailey, Idabo, negli Stati Uniti, il 30 ottobre 1885. Studiò presso l'Università di Pennsylvania (laurea in Lingue Romanze) e l'Hamilton College (laurea "ad honorem" nel 1939). Nel 1907 viaggiò la Spagna. Nel 1908 di nuovo in Europa e a Venezia stampò il suo primo libro di poesia: "A lume spento". Poi si stabilì a Londra: amicizia con WB. Yeats, Fort Madox Ford e altri; pubblica il suo primo lavoro critico: "The Spirit of Romance"; capo riconosciuto dell'"Avanguardismo" fonda l'"Imagismo", partecipa in arte al "Vorticismo"; forma e lancia i migliori scrittori della nuova generazione e fa pubblicare Joyce e T. S. Eliot. Nel 1921 si trasferì a Parigi: interesse per la pittura ("fauves"), scultura (amicizia con Brancusi) e soprattutto musica: scrisse un'opera musicale, "François Villon" rappresentata e trasmessa per radio; incoraggia e forma nuovi scrittori, tra i quali: E. Hemingway. Dal 1917, in poesia, si era dedicato alla sua opera principale: i "Cantos", di cui i primi sedici pubblicati a Parigi nel 1925. Dal 1925 al 1945 dimorò a Rapallo. La cultura italiana gli deve, tra l'altro, un'edizione del Cavalcanti, curata sui testi originali, corredata da note e commenti e da versioni in lingua inglese; il ritrovamento di spartiti di Antonio Vivaldi studiati da Bach e conservati all'Accademia di Dresda dove vennero distrutti dagli eventi bellici. I microfilms di tali spartiti fatti eseguire e donati dal Pound all'Accademia Chigiana di Siena ne hanno preservato la conoscenza. Dal 1915 si dedicò a divulgare il pensiero di Confucio, del quale è tenace assertore, attraverso traduzioni dirette dal cinese. Curò un'edizione degli studi del sinologo E. Fenellosa. Durante questo periodo si occupò di questioni politico-sociali concentrando i suoi sforzi contro l'"usurocrazia internazionale" in cui ravvisava l'origine di tutti i malanni degli Stati. Pubblicò su tale argomento varie manografie in lingua italiana. Scoppiata la guerra ed essendo stato ostacolato il suo rimpatrio, si valse della libertà di parola concessagli dalla Radio italiana per continuare a diffondere le sue idee. Va precisato che in questo egli intese essere fedele alla Costituzione Americana che impone al cittadino di opporsi al Governo quando questi tradisca gli interessi del paese. Le sue trasmissioni pertanto furono dirette soprattutto contro la politica usurocratica del Governo di allora degli S. U. che favoriva, in ultima analisi, il comunismo russo nel quale Pound ha sempre ravvisato il maggior pericolo per la cultura e la civiltà occidentale. Mai le sue trasmissioni furon dirette contro la Patria, né incitatrici di defezioni o di sabotaggi. In questo sta la fondamentale differenza tra le conversazioni di un Pound e quelle dei "propagandisti" politici delle varie nazioni belligerantì. Accusato di "tradimento" e di "fascismo", consegnatosi alle truppe americane nell'aprile 1945 veniva trasferito nel Disciplinary Training Center presso Pisa ove subì un barbaro trattamento. (Il Poeta aveva allora sessant'anni). In questo periodo angoscioso compose i "Pisan Cantos" (Premio Bollingen per il 1949). Portato in America non venne processato perché giudicato infermo di mente e quindi ricoverato nel manicomio criminale di Washington alle dipendenze della Polizia Federale. Quivi il poeta attende da nove anni di poter far ritorno in Italia dove solo finirà il suo poema epico, raggiungendo i cento "Cantos" altrimenti - egli afferma - non scriverà mai più versi. -
Washington è a un'ora da New York. Si va in aereo come in un taxi. Avevo saputo il nome del medico curante e il numero del reparto. Mi sarebbe piaciuto dire a Pound (che un lontano giorno aveva lodato le mie prime poesie stampate a Milano dal suo amico Giovanni Scheiwiller) il mio ringraziamento per quel consenso di allora così significativo e la mia ammirazione per la sua poesia che ci era diventata accessibile dopo molti anni, un po' tardi forse per beneficiarne interamente. Avrei ripetuto a memoria i passi che più mi avevano colpito e forse il poeta "infermo di mente" come l'hanno giudicato le autorità responsabili, mi avrebbe dato la sublime risposta di Linneo ebete agli allievi che nei pochissimi intervalli di lucidità gli leggevano le sue pagine: "Chi ha scritto queste cose meravigliose?". Gli amici, che mi avevano prima favorito per concludere l'incontro, mi hanno poi dissuaso. Ci sono rimasto male. Avrei voluto dare a Pound qualche notizia sui 250 alberi di zucchero che attraverso il nipotino Sigfrido egli aveva fatto spedire in Italia nel 1952. Gli esemplari sono stati piantati a Merano, a Val d'Ega, alla Villa Celimontana di Roma e a Zagarolo. Già si pensa a un vasto impianto nella Sila, e si spera che l'albero provvidenziale del Poeta possa costituire per i nostri contadini una insperata fonte di benessere. Ma ero a un'ora da lui e non potevo parlargli, non potevo consolare il Poeta prigioniero come Tasso in Sant'Onofrio. Per ripagarmi della delusione un caro amico mi portò un numero di "Reporter". Era del febbraio di quest'anno. Potevo leggere l'incontro con Pound in manicomio nella relazione di un visitatore più fortunato di me. Seppi che Pound trascorre le ore di libertà in compagnia della moglie che lo visita tutti i giorni nel giardino dell'ospedale. Indossa un vecchio soprabito militare sopra una camicia ruvida e le lunghe mutande coprono la distanza tra i pantaloni rimboccati e le pesanti calze affiosciate sulle pantofole. Malgrado i 68 anni suonati il vecchio Ez rivela gran vigore e ottime condizioni di salute. Potrebbe come Hemingway paragonarsi a un grosso orso. Pound insiste con occhio vendicativo di essere vittima di una banda di traditori. "Quando mi presero in Italia gli americani mi consideravano un selvaggio ed ebbero paura di me. Fui guardato notte e giorno, mi fabbricarono una gabbia con le ali di un aeroplano. I soldati mi guardavano dall'alto". Quando sarà messo in libertà il Poeta non pensa di tornare a Rapallo, ma di andare in Inghilterra dove sono i suoi amici e i suoi allievi più congeniali. A Rapallo un gruppo corale organizzato da lui dà ancora regolarmente dei concerti.

Parenti e paesani

Ero sbarcato da qualche ora quando visitai gli uffici della Finmeccanica al 27 piano della 42 Strada 11 West. Le finestre erano tagliate in mezzo, dall'alto in basso, dal palo dell'Empire, che sovrastava tutti gli altri altissimi edifici. Chiesi subito alla segretaria di guardare gli elenchi telefonici Manhattan, Brooklin, Queens, Bronx, Richmond. Erano volumi di 2000 pagine a 4 colonne fittissime. A Brooklin c'erano sette Sinisgalli. Con un lavoro paziente di tessitrice nel giro di due giorni, chiamando nelle ore più assurde, riuscì a conoscere l'indirizzo e il numero di telefono di zio Vincenzo. Al 48610, 178 Worcester Str. Feci la mia prima discesa nella subway, percorsi sottoterra una decina di chilometri, poi affidai a un taxi l'ultima fase della mia esplorazione. Leggevo qualche insegna davanti alle botteghe, Falotico, Angerami, Nubila, Caropreso, erano nomi nostri, nomi di paesani miei. Erano i montemurresi salsicciari che avevano formato una colonia a Thompson Street, una parte povera del Greenwich Village, il Montparnasse di New York. Il taxi si fermò in una strada fitta di camion davanti a un'immensa rimessa dalla quale sbucava un carico di grandi lastre di legno segato. Un garzone m'indicò una scaletta laterale. Al secondo piano una scritta sull'intonaco "Blassi..." e una freccia mi portarono davanti a una porta di castagno grezzo. Una ragazza da una stanza vicina mi fece segno di spingere. Entrai nello sgabuzzino. A pochi passi, seduto, in maniche di camicia, mi parve che mio padre stesse lì ad aspettarmi. Si asciugava il sudore col grande fazzoletto che passava sulla nuca e sul cranio lucido, come quando tornava la mattina dalla vigna. Piccolo ed energico, zio Vincenzo si alzò per abbracciarmi. Mi aspettava. Due telefonate a triangolo dalla 42 Strada al New Jersey, dal New Jersey ad Algoquin avevano segnalato il mio approdo nel regno dove mio padre tornò due volte, nell'infanzia e nell'età matura, ma senza mai mettere radici. "Ho abitato venti anni a due passi di qua. Nella casa di Thompson Street sono nati anche i miei figli. Tuo padre si fermò nove mesi in casa nostra. Poi ho trovato questo pertuso (buco), quando i miei figli si sposarono tutti e tre. Tu hai la faccia di tua madre, non assomigli a noi. Venni nel 1901 quando nessuno di voi era nato. Tuo padre era stato prima con nostro fratello maggiore che ora compie 84 anni, ma non lo potrai vedere, perché abita a molte miglia da New York. Vedrai tuo cugino che ha sposato mia figlia Caterina. Ho 72 anni, la mattina mi alzo alle cinque, da Plainfield arrivo in ferrovia. Lavoro dalle 8 alle 4 del pomeriggio. Poi torno a casa. Vedrai la nostra casa. Ti verranno a prendere quando vuoi". Mi diede da bere in un barattolo di vetro. Mi teneva le mani sulle ginocchia, stavamo seduti di fronte. Nel cortile interno c'erano le grandi tubazioni che aspiravano aria dalla segheria lì sotto. C'era un fornellino elettrico con una piccola caffettiera napoletana. C'era un bacile con una brocca coperti da un asciugamano. Poi una piccola scrivania con i vecchi libri dei conti. "Ho una clientela affezionata. Un centinaio di piccole ditte che comprano da me i barattoli di colori in polvere. Ho lavorato molto negli anni passati quando erano di moda i fiori e i frutti artificiali sui cappelli e sul petto. Ci si sono messi ora anche i giapponesi e i fiori non sono di moda. C'è qualcuno che mi chiede ancora le polveri. Io stesso porto i barattoli a domicilio. La sera torno a casa un po' prima. Negli anni addietro preparavo il lavoro per trenta operai e finivano sempre tardi. Le mie figlie non vogliono che io torni più in bottega. Tra qualche anno butteranno giù tutte queste casacce. Ma come hai fatto a scoprire questo buco?". Venne mia cugina a prendermi con la sua Buick. Andai il sabato a New Jersey a 40 miglia circa da New York. Conobbi zia Ada e tutta la famiglia, col cane, il gatto, le galline. C'era un bel giardino intorno alla casa linda. E un orto con prezzemolo e basilico, pomodori, granoturco e lattuga. Due bellissimi alberi all'ingresso erano gremiti di gigli bianchi e viola, erano fiori mai visti. Le mele mature cadevano sull'erba del giardino con un tonfo che ogni volta mi faceva voltare sorpreso. Coi parenti di sangue la confidenza viene istintiva. Gli zii, i cugini mi sfidavano a bere e bevvi con loro, vino, liquori, alcool, senza perdere la testa. "Leonardo, tu staresti bene qui. Se ti piace bere e lavorare, lavorare e bere, tu staresti bene in America. In America si fanno le pezze". Il discorso tornava sempre su mio padre, e su mia madre che zio Vincenzo aveva conosciuto da ragazza al nostro paese. Mio padre attivo, mia madre seria e gentile.

Confluenze

Com'è nella sostanza di questa cultura a New York io non ho solo incontrato l'America. Ho visto la casa giapponese in una ricostruzione al Museum of Modern Art, ho visitato il negozio della Olivetti alla Fifth Ave, e, davvero un miracolo, qui, dopo averlo per anni e anni sempre inseguito e perduto, cercato, ricordato, sognato, adorato, il mio Seurat, la mia prediletta Sera di domenica alla Grande Jatte! Valeva proprio la pena ch'io affrontassi questo lungo viaggio. Mi hanno fatto togliere le scarpe e calzare pantofole di carta per camminare sui pavimenti di legno della casa giapponese. Avevo paura di scivolare e andavo avanti molto guardingo. Una casa così ha bisogno di un altissimo grado di civilizzazione, di igiene, di una coscienza sempre viva per essere abitata. Dormire per terra, sedere per terra, mangiare per terra esige virtù e disciplina spirituali e fisiche. Ci vuole una tradizione di millenni. I visitatori erano incantati da quegli ambienti che entravano uno nell'altro e giravano come il sole. C'erano sotto vetro alcuni lavori di filigrana, foglie, ramificazioni di foglie, geometria di foglie, argento, oro, ottone. E poi il ruscello e il giardino coi pesci, i pettirossi. I sassi oblunghi, tondi, a strisce, i sassi cavi e il filo d'acqua perenne col muschio, le felci, i tralci di rose. Questa casa esige teneri corpi, anime gemelle, vegetariani. Questa casa impone il silenzio e la riflessione. La storiella messa in giro dal "New York" ha regalato alla Olivetti milioni di pubblicità. Se la merita. Un negozio come quello di New York e come quello di Roma al Tritone fanno onore a tutti noi. Ci vorrebbero due o tre esempi di questo genere alla Fifth o alla Park Ave (ci sono esposte tutte le automobili del mondo, ci sono le Jaguar e le Mercedes a rappresentare l'Europa. Manca, purtroppo l'Alfa Romeo). La parete di Nivola, un grande bassorilievo di fango secco, è bella di colore e di disegno. Sono stupendi i riflettori sparsi in tutto l'ambiente, sia come materia che come meccanismo. Sembrano bulbi di fiori subacquei coi lunghissimi steli ritorti. Meno interessante la ruota in movimento. Il pavimento di marmo verdiccio è coraggioso e sono senza dubbio una sorpresa i supporti delle macchine che nascono dal pavimento come funghi rovesciati. Sono matematiche superfici, sono coni a profilo iperbolico che facevano da chiusa, se ben ricordo, al mio famoso filmetto, la "Lezione di geometria". Il miracolo del negozio è la grande porta di legno in perfetto bilico sui perni. Deve pesare parecchi quintali. Quelli del "New York" dissero di averla sentita cigolare il giorno dell'inaugurazione, e New York è corsa tutta orecchi per ascoltare lo squittio della porta superba. Un saluto agli architetti Rogers, Peressuti, Belgioioso, e all'ingegnere Adriano Olivetti, qui da Gibilterra mentre l'"Andrea Doria" entra nel Mediterraneo. Del quadro celebre di Seurat non dirò più nulla. La mia attesa di anni non è stata delusa. Al Metropolitan Museum ci sono cose formidabili, Vermeer, Cézanne, Rembrandt, il Greco. Seurat ha trovato la sua piccola nicchia in paradiso. Ha dipinto aiutandosi con la lente di ingradimento? Non importa. Forse i disegni e gli schizzi preparatori sono più belli? Guardando da vicino le pennellate, una accanto all'altra, una sull'altra, viola, azzurre, verdi, come striscioline di stelle filanti, pensavo a Kandinsky, alla dissoluzione, alla dissociazione, che di queste paillettes multicolori avrebbe affrontato Kandinsky all'epoca del Cavaliere azzurro. In Kandinsky c'è l'Oriente bizantino, in Seurat è rimasto fermo l'Occidente geometrico che preferisce le leggi dell'ottica, l'unità della visione, ai miracoli del caleidoscopio.

Washington bridge

C'ero passato dì notte sul ponte di Washington una sera che avevamo bevuto in casa di amici. Eravamo in quattro su una Crysler scoperta, vecchia di qualche anno, ancora valida seppure il suo prezzo era appena di 200 dollari. Alla fine di una festa non si ha più voglia di mettersi a letto, e poi volevamo godere il fresco notturno dopo le grandi sudate. C'era con noi una bella ragazza romana che faceva la modella in una casa di abbigliamento dopo la rottura del suo matrimonio di guerra. Ci stringemmo tutti e quattro sul sedile anteriore, così ciascuno di noi ebbe una parte della dolce amica. A me che stavo accanto al finestrino toccò tutto un braccio e il fianco destro. Atrraversammo il parco velocissimi, che a quell'ora la polizia non protegge più nessuno dagli agguati dei portoricani, che pare siano oggi il terrore della Up-Town. Infilammo alcune strade di Harlem e dopo una lunga serie di sterzate che ci condussero quasi in cielo, ci trovammo davanti alla robusta forcella del primo pilastro di sostegno dei cavi. Pagammo il nostro pedaggio, 50 cents, e a testa supina percorremmo lentamente i millecentosedici metri della campata centrale guardando in alto la collana di lumi che disegnavano in cielo due perfette curve catenarie, le curve studiate da Pascal, dai fratelli Bernoulli e da Galilei. Ma non mi diedi conto quella notte, occupato come dovevo essere a proteggere dalla brezza la spalla nuda della nostra compagna, non mi diedi conto del disegno, e potrei dire della radiografia di quell'opera maestosa. Alla vigilia del ritorno, quando avevo già chiuso le mie valigie mi venne lo scrupolo di non aver guardato bene, nel mio gergo segreto dovrei dire "di non aver mangiato", il Washington Bridge. Ci tornai da solo affidandomi a un autobus che dall'albergo mi ci condusse in un'ora. Suonava mezzogiorno quando infilai la passerella laterale sinistra del ponte riservata quel giorno ai pedoni. Seppi così dalla sentinella, il signor Michael Terilli, che quel giorno faceva la guardia al ponte, che nel 1953 erano passati sulle nove piste più di venticinque milioni di veicoli e che l'altezza del ciglio stradale sul livello d'acqua dell'Hudson è di circa 85 metri. A me che guardavo l'acqua sottostante e il bacino del fiume e le ripe larghissime pareva di stare sospeso su un abisso molto più profondo. Era difficile con tutto il coraggio e la certezza che i calcoli dei carpentieri, degli ingegneri, dei siderurgici, dei tecnologi, dovevano quadrate per forza, era difficile lassù, prendere un aria indifferente. La sentinella mi stringeva il braccio tutte le volte che io portavo la testa fuori del parapetto. Le automobili e i camion correvano veloci sulla pista centrale al nostro lato, e ad ogni passaggio io sentivo che quell'immane reticolo di acciaio tremava come trema la tela del ragno quando pesca una mosca. Dissi alla sentinella che anche le navi scricchiolano perennemente durante la rotta e che qualche volta, specie nel dormiveglia, si può avere l'impressione che il soffitto ci caschi addosso o che sprofondi il pavimento, ma è proprio un nostro puerile errore, perché i ponti e le navi come le canne al vento non resisterebbero se fossero inflessibili. La sentinella, con la sua scarsa conoscenza della lingua paterna, dovette credermi un pusillanime che si perde in chiacchiere invece di guardare in alto e in basso, tra le connessure delle travate, e ammirare, e esaltarsi. La mia acrobatica esplorazione non dovette durare che qualche minuto, a me sembrò di camminare lassù per un tempo lunghissimo perché non riuscii neppure un istante a perdere la coscienza, a distrarmi. Avevo fumato un paio di sigarette, ecco tutto. Quando tornammo verso il pilastro la guardia mi mostrò una lapide all'imbocco dell'arco centrale. C'era scritto in lettere di ferro che la costruzione del ponte tra New York e il New Jersey era stata autorizzata nel 1925, che l'opera era già avviata nel 1927 e che l'apertura al traffico era avvenuta nel 1931. Scrissi su un foglietto anche il nome dell'ingegnere capo, Chief Engineer O. H. Ammann, e mi appuntai il nome delle nove società di costruzioni che avevano collaborato all'impresa. I due cavi di sostegno di tutta l'opera scomparivano nel sottosuolo. Sapevo che lo schema costruttivo del ponte era semplice e antichissimo e che esistono soluzioni del genere vecchie di migliaia di anni sui vecchi fiumi della Cina e dell'India. Solo che al posto delle canne e delle funi, dei salici e dei giunchi qui operava l'acciaio. Dentro quei due tubi verniciati d'argento c'erano migliaia di capelli d'acciaio controllati uno per uno. Guardai un cavo da vicino, forse non bastavano due uomini ad abbracciarlo. Il ponte, per metà, era sospeso a quella fune.

Ricapitolazione

Rileggo queste note affrettate. C'è soltanto una pallida idea di quello che ho visto in dieci giorni. Del restoio so per esperienza che soltanto la memoria opererà con gli anni una scelta delle mie impressioni, quelle vive e quelle morte. Ma la mia mente è troppo pigra o troppo scrupolosa, agisce abbastanza bene, ma con molta lentezza. Anch'io oltre il bilancio degli acquisti definitivi dovrei tentare un inventano delle sollecitazioni ricevute magari allo stato nascente. Germi che con gli anni sapranno dare qualche frutto maturo. Mi ero messo in uno stato di ricezione quasi vergine, in condizione di buon ascolto, disposto alla simpatia. Un mondo come quello che ho visto è davvero un mondo nuovo, eppure per una buona parte delle imprese sentivo di poterne condividere le responsabilità. Gli americani mangiano male, gli americani vestono male, gli americani non sanno fare all'amore. Ho sentito ripetere tante spiritosaggini del genere. Io ho incontrato in giro gente forte, dall'autista che si fa battere in faccia il ventilatore senza tema di artriti o di polmoniti, alla dattilografa che nella "cafeteria" ingoia almeno due litri di liquido ghiacciato mentre consuma il suo lunch. Sì, ho visto anche un uomo su una panchina che leggeva il giornale e si teneva sulle ginocchia le sue scarpe e i piedi al vento. A una stazione aerea un signore che aveva certamente molta fretta di partire s'era addormentato e russava seduto su uno scranno. La fatica è pesante, il ritmo del lavoro è serrato. Eppure Ferdinando Chiola nel suo terrazzino a Long Island ha il tempo di coltivare il suo basilico e di fumare in pace davanti al laghetto di Flushing. Ho visto anche due gatti in America, uno in casa della ragazza romana a South Central Park, l'altro nel giardino dei miei zii. Ho guardato le stelle dall'alto dell'Empire State Building. Stelle e gatti, le une sempre elementi, gli altri sempre pazzi a rincorrere farfalle intorno ai lumi, stelle e gatti avvicinano nel nostro cuore i paesi più distanti. Ora nel mezzo del Mediterraneo, alle porte di casa, sdraiato sul letto, in cabina, mi pare di vedere dal basso e dall'alto il cielo troppo lontano e gli uomini troppo piccoli. Prospettive inusitate per i nostri occhi, prospettive leonardesche. Mi vengono incontro certi disegni geologici di Leonardo e gli sfondi delle sue pitture. E mi tornano familiari i nomi dei cicloni che hanno sconvolto questa terra e questi mari durante il mio vagabondaggio, Carolina, Dolly, Edna, Florence... Se cercassi facili simboli, e uno svolazzo per concludere farei l'elogio del "sistema" attraverso due "ricordi" che mi sono portato via all'ultima ora: "AMI-open-all", la tenaglia di lega gialla che apre tutto, bellissima di sagoma come una struttura astratta, e un disco di carta ingualcibile, "Hey ther", cantato da Rose Mary Clooney, dentro i cui versi dolci e banali, pronunciati a voce bassa o gridati con caparbia, una ragazza scopre nella luce degli occhi, nel pallore degli orecchi, nella leggerezza dei capelli che c'è qualcosa di irriconoscibile nella sua immagine allo specchio, sì, come Saffo e come Emily Dickinson, anch'essa è forse irrimediabilmente innamorata.

Una città è nata in mezzo agli alberi

A Lignano Pineta, tra Venezia e Trieste, un architetto moderno ristabilisce l'antico accordo tra natura e geometria.

Una freddissima notte di maggio, il corpo imbottito di giornali, in un treno lento e semivuoto mi sono spinto da Milano a Trieste. L'architetto Marcello D'Olivo aveva disegnato una città. Aveva fretta di guardare le sue carte e correre sui luoghi dove già le prime squadre di operai, nel folto della giovane pineta, scavavano trincee, piantavano pali, macinavano calcestruzzo, dopo che felicemente era stato coperto di bitume il primo nastro stradale. Due anni prima era stato a trovare il mio amico a Udine, sua città natale. Avevamo trascorso insieme una sera sulle colline di Buia, insieme ai suoi muratori, Ursella padre e figli, le figlie del capomastro friulano e i nostri familiari e i loro amici. Avevamo mangiato e bevuto e gli adulti alla fine avevano cantato. Con la collaborazione affettuosa di quegli artigiani fuoriclasse, di quegli inarrivabili operai, D'Olivo aveva già costruito a Opicina il più bell'edificio italiano, la più geniale architettura di questo dopoguerra: il Refettorio per i fanciulli di Don Shirza. E si apprestava già a preparare il progetto per le altre fabbriche del villaggio, la Tipografia e la Chiesa.
Fu proprio quella sera a Buia, prima di cena, che io vidi nel cortile i primi esperimenti in cemento precompresso, il primo fungo, il primo albero matematico. E D'Olivo mi confessò che non avrebbe potuto mai, senza la comprensione e la capacità del vecchio Ursella e dei suoi figli e dei suoi operai, non avrebbe potuto mai dar vita ai suoi numeri e ai suoi segni, perché il lavoro sulla carta conta assai poco nell'arte di edificare. Non avrebbe potuto certo imporre ad altri costruttori il rispetto dei suoi angoli, dei suoi spigoli, delle sue losanghe, delle sue piramidi, delle sue superfici oblique. L'architetto aveva trovato un interprete paziente ed entusiasta nel venerabile muratore, e insieme avevano già costruito le opere audaci di cui avevo avuto 1'onore di scrivere per primo, quello stesso anno, quando appena le palanche delle nuove casseforme erano state rimosse e le superfici nette e il contorno tagliente del cemento era venuto a nudo. Poi, a lavoro avanzato, tutto il mondo (e l'altro ieri il New York Times) hanno esaltato l'architettura del Villaggio come "architettura del futuro". Sono tornato con D'Olivo sul colle di Opicina, l'altra mattina, e ho visto oltre il Refettorio, ormai compiuto e in servizio, lo scheletro del grande quadrifoglio della Tipografia che ho presentato nell' ultimo numero di questa rivista. Siamo andati con 1'amico a guardare dal basso uno di questi fiori matematici, ci siamo spostati sotto l'ombrello, pesante circa una ventina di tonnellate, sospeso a quello stelo, vibrante, sottile, eppure resistentissimo alla bora che lassù scoperchia le case, ho visto le due serie di tre borchie che stringono i fasci di 42 fili d'acciaio ciascuna, alla tensione di due tonnellate per ogni filo. Quel misto di matematica, di meccanica, di scultura, quella forma legata alla terra e all'aria con l'energia di un albero, quella forma con radice e con muscoli, quella forma vivente a me dava le vertigini. Perché pensavo che 1'anima è qualcosa di simile a quella tensione, a quel1'attenzione, e basta il vento a suscitarla proprio come alla nostra anima basta un sospiro, e basta il peso della neve (o degli anni) ad affaticarla.
Ma dovevo vedere nascere una città e non potevo indugiare troppo tra quei pilastri come i pellegrini romantici sotto l'architrave del Partenone. In una domenica di pioggia e di vento, dentro un capitolo di romanzo di Svevo o di Hemingway, noi corremmo verso Monfalcone, verso Aquileia, verso Latisana e imboccammo, subito dopo, la strada che ci portava dentro la nostra piccola giungla, la Pineta di Lignano, dove un gruppo di pionieri aveva affidato a Marcello D'Olivo il compito di studiare il tracciato di una città per le vacanze, tra il fiume poco lontano ­ il Tagliamento ­ gli alberi e il mare. Una città tra le piccole dune di sabbia d'oro. Il verme di Mobius non si accorge di passare da una all'altra parte del nastro famoso, che per un'astuzia del geometra è diventato di una sola faccia; anch' io ero già entrato nel trapezio sacro e non mi accorgevo di percorrerlo, quasi fosse bendato. Mi pareva di giocare a moscacieca dentro il bosco perché non vedevo mai la strada. L'architetto infatti, a imitazione di un suo leggendario antenato, aveva rifiutato la linea dritta, per costruire il suo labirinto, e per offrire agli occhi, in ogni tratto dell'itinerario, un punto di fuga sempre diverso. Avevo visto nel suo studio delle grandi mappe che abbiamo dovuto svolgere sul pavimento per poterle guardare. In una c'erano segnati tanti piccoli cerchietti, anche poco più grandi di un puntino, gli alberi individuati sul terreno. "Non ne abbiamo dimenticato nessuno" mi ha detto, "e spero proprio di salvarli tutti". Perché egli ha già tracciato il piano di massima, con la sistemazione di circa un migliaio di appezzamenti a una media di mille metri quadrati per lotto. "Ognuno potrà diventare proprietario di una cinquantina di alberi, e avrà l'obbligo di non occupare col fabbricato che una giusta aliquota del terreno". Le case studiate da D' Olivo per questa città orizzontale non hanno nessuna somiglianza con le case di città. Niente sovrastrutture, niente intonaco, solo il letto per dormire la notte al coperto e stare all' ombra nella controra (ma con un ricambio d' aria continuo), qualche parete, o quinta, qualche pezzo di pavimento, o pista, e il minimo necessario. Insomma, una tenda, un ombrellone in cemento e in legno, un ricovero non una casa. "Chi viene qui dentro deve sentire il gusto di camminare tutto il giorno a piedi nudi, coi calcagni bagnati o asciutti, deve potersi sedere per terra, deve attingere il più possibile alla inesauribile fonte di vigore che scaturisce perennemente dal mare, dalla sabbia e dalle foglie". Lungo la spina dorsale della Grande Via, come provvisoriamente viene indicata sui progetti, sono stati costruiti i primi negozi, i primi ritrovi, le prime sale per la comunità dei villeggianti. La città sarà composta di nuclei diversi, ma saranno tutti autonomi e tutti tra loro complementari. Non ci sarà bisogno di filo spinato o di muri con cocci di vetro per difendere la propria libertà o la propria solitudine. Basteranno gli alberi, gli arbusti, e i crinali delle dune.
"Non sembra una città terrena, sembra piuttosto una città sulla luna", ho detto al mio amico. "Flammarion spiega che gli abitanti della luna sono molto più leggeri di noi. Io credo che gli abitanti della Pineta proveranno davvero questa sensazione. Quando usciranno dall'acqua continueranno a sentirsi meno densi e un poco immortali, interplanetari, vedrai".
Non volevo spingere agli estremi i paradossi del mio amico, che mi aveva già abbastanza sconcertato con il giuoco dei chioschi satelliti disegnati su una carta intorno a un sole: era il progetto di un albergo con i servizi centrali, e i vani distribuiti intorno, dentro il bosco. "Come lo chiamerai? Ti ci vorrebbe un poeta del Settecento a dare i nomi a questi tuoi sogni". Del resto una curiosa aria di giardino per illuminati o per illuministi spirava intorno a quelle idee. Si capisce che c'entrava anche Rousseau e c'entravano i grandi viaggiatori che scoprirono 1'Oriente. In un lontano miraggio si intravedeva una umanità che avrebbe preferito vivere per terra, vivere molto più in basso dell'altezza di una sedia o di un divano. Una umanità che cercava un antidoto all'intelligenza, stufa di stare in piedi, di stare all'erta, una umanità orizzontale. E del resto D'Olivo non nascondeva le sue predilezioni. Bastava guardare tra le cime dei pini le linee dei suoi tetti e scoprire proprio il profilo di una pagoda. Gli ricordai che l'estate scorsa ero andato apposta a Palermo per visitare la Casina cinese costruita per la favorita del viceré. Parlammo degli orizzonti così cari a Baudelaire, dì paesi calmi e voluttuosi. Stavamo coi piedi premuti su una breve striscia di terra che nel giro di qualche anno sarebbe diventata almeno per una estate, lunga o corta, un luogo di pace se non proprio di delizie. Venezia era a un braccio da noi e l'altro braccio indicava il Regno della saggezza seduta, del dormiveglia, dell'estasi, del farniente.

Le mie stagioni milanesi

REDUCE da Padova dove ero andato per le prove scritte di Scienza delle Costruzioni e di Impianti elettrici (il mio primo passaggio sul Po) capitai a Milano la prima volta e mi feci portare in viale Romagna dove da qualche anno abitava mia zia. Era il novembre del 1933, se ricordo bene. Avevo addosso un impermeabile, retaggio degli ultimi anni di università. M'era servito anche da ufficiale: bastava che appuntassi sul bavero due stellette minute. E il bavero, infatti, era tutto punzecchiato come i polpastrelli di Madame Bovary. Ricordo, ma non c'entra niente con questa storia, la sera in cui una ragazza che frequentava la mia pensione in piazza Indipendenza, vicino alla nostra caserma, volle mettersi il mio impermeabile, il mio berretto, la mia sciabola, gli stivati, gli speroni, e uscire sulla strada per farsi salutare dai nostri artiglieri in libera uscita. A Padova e a Milano quel triste indumento si rivelò non soltanto precario, ma veramente povero. E la mia padrona di casa a Lambrate dovette simpatizzare con il cupo ingegnere mussulmano che veniva ad affrontare la nebbia così disarmato. Chi ha letto qualche mio libro conosce queste cose in un'altra chiave. Qui debbo toccare ragioni e non immagini, qui devo parlare della mia educazione al lavoro più che delle mie effimere conquiste di stile.
Prima di arrivare al noviziato, prima di giostrare con gli orari e i doveri, io ebbi un lungo periodo di disoccupazione. Ma il mio temperamento riuscì a salvarmi anche dai compromessi che, per stanchezza e per inedia, avrei potuto forse accettare quando ero davvero stufo di non far niente. "A me pare che ti non fai na got " mi disse la vecchietta di piazza Tricolore quando si accorse che mi svegliavo tardi, uscivo per mangiare, tornavo nella camera il pomeriggio per dormire. Ho raccontato tante volte agli amici che quella vecchietta spostava perfino le sfere dell'orologio per pigliarmi in castagna e proibirmi di metter piede nella stanza prima delle ore pomeridiane, l'ora in cui la mia camera al quarto piano, sul viale Biancamaria, poteva dirsi rassettata. Carmine Stella, il fratello di mia zia, mi aveva promesso un posto presso la Ditta Laros, fabbricante di piccoli motori per fuoribordo. Anche al Politecnico l'ingegner Montoro mi aveva fatto intravvedere la possibilità di un'occupazione nell'impianto di raggi X dell'Istituto di Metallurgia. Avevo lavorato con lui a Roma qualche mese e sapevo leggere negli spettri di Debye, nei microcieli di Laue.
Rasentavo le fabbriche verso il mezzogiorno, quando mi ero appena alzato dal letto, sentivo il fischio delle sirene come una frustata, guardavo le file degli operai che inforcavano le biciclette, e quelli che andavano all'osteria, e i muratori che consumavano sui margini del prato i loro cartocci. Avevo pietà di me. Ma non ero infelice, i miei compagni erano l'Amore e la Poesia. Mi consideravo fortunato? Non ricordo. Vivevo come un sonnambulo. Mio padre mi faceva mandare dalla Colombia una cinquantina di dollari al mese dai suoi cognati. Mi venivano spediti da una Ditta di Monza con cui erano associati. Il buon Tosetti, procuratore di quella Ditta, mi portò anche a Biella in automobile. Per poco non mi congelai. Egli se ne accorse, come se ne accorse Carmine Stella che andava lassù a ordinare grosse partite di pettinati per i suoi fratelli negozianti a Bogotà. Mi regalarono due tagli di abito e Carmine Stella mi portò dal suo sarto e ordinò per me un bellissimo pastrano su misura. Mia zia mi fece trovare un paio di guanti sotto l'albero di Natale. Le mie cugine mi diedero scarpe e cravatte.
Anche la mia speranza di trasferirmi a Biella in una fabbrica di tessuti svanì molto presto. Intanto io arrotavo i denti attorno agli ossi di manzo che mi affannavo a spolpare in una mensa a prezzo fisso, in piazzale Oberdan, vicino all'Ufficio delle corse. Anche l'ingegnere Picker mi aveva promesso di farmi lavorare nella sua azienda. Mi rimisi a studiare elettromeccanica. Credo che egli fabbricasse contatori e progettasse installazioni elettriche per le case e le officine. Aveva lo studio in via Tadini, all'ombra di quegli alberi indimenticabili che confinano con i giardini della bellissima ripa malfamata. Risposi anche a una offerta di lavoro che la mia padrona di casa aveva letto sul giornale. Ebbi la fortuna di essere chiamato, e una mattina di pioggia raggiunsi via Borghetto cinque minuti prima delle otto. Mi diedero da leggere un mucchio di stampati sulle applicazioni di una lega antifrizione. Poi mi capitò di dover rispondere a una telefonata dalla Germania. Non potevo cavarmela. Mi dissero che il lavoro richiedeva una perfetta conoscenza della lingua. Tirai avanti fino alle cinque del pomeriggio. Me ne tornai a casa risollevato, dopo quella tragica esperienza. La signora Mileo era afflitta della mia sorte. Ma ero innamorato, avevo la mia bella tigre che divorava da Motta babà con la crema. E poteva accadere intorno a me il finimondo, non me ne sarei accorto. Riprendemmo quelle sere a giocare a scopa e a interrogare il mio incerto destino.
L'estate venne da Bogotà un cognato di mia zia, Vincenzo Buraglia, con due bei bambini che parlavano lo spagnolo degli angeli e mi chiamavano " il capitano ". Vincenzo Buraglia era un meccanico provetto, pieno di genio e di bontà. Mi trattava perfino con rispetto, per via della mia laurea. Ma si accorse subito che io non sarei stato capace di avvitare un bullone o di mettere a posto la punta di un trapano. Sapevo tanto di matematiche, ma capivo pochissimo di macchine. Le mie mani erano rimaste stupide. Ero ammiratissimo della sagacia di Vincenzo, gli invidiavo le nocche robuste e capaci, le orecchie attente a qualunque irregolarità nel funzionamento dei cilindri. Vincenzo distingueva i buoni vini e i cattivi lubrificanti. A Milano aveva portato un suo brevetto, un nuovo tipo di carburatore a farfalla che avrebbe dovuto costruire per la Zanchi-Angeloni. Si cominciarono a far le prove nel Laboratorio di Macchine del Politecnico sotto il controllo dell'ingegner Spelluzzi. Facemmo anche molti viaggi sulle autostrade. La farfallina d'alluminio ogni tanto perdeva qualche ala e il carburatore rimaneva soffocato. Vincenzo Buraglia pensava d'inserirmi nella società che si sarebbe certamente costituita per fabbricare il suo apparecchio. Sognava licenze da vendere in tutto il mondo, fabbriche da impiantare in tutti i Paesi. Avevamo fatto insieme molti viaggi, sperperato molto danaro. Ritornarono l'autunno in Sud America. Io mi decisi ad anticipare perfino una caparra a un filibustiere che abitava accanto a noi, in via Teodosio, e che mi aveva promesso lavoro in un'industria di materiali per l'edilizia.
Era trascorso più di un anno. Un giorno il poeta Alfonso Gatto mi indicò un avviso su una colonna del " Corriere ". " Può darsi che t'interessi ", mi disse. Lo lessi: cercavano un ingegnere-giornalista per il Servizio Propaganda di una Società. Andai in via Macedonio Melloni a presentare le mie carte. Dopo qualche mese mi richiamarono e mi dissero di organizzare lezioni e conferenze sull'arredamento e l'architettura moderna. Mi riempii la borsa di campioni di linoleum. Intanto ero stato negli stabilimenti a Narni, in Umbria, per seguire la fabbricazione dei rotoli. Ebbi l'occasione di viaggiare di provincia in provincia. Passai ore bellissime a Pavia, a Mantova, a Cremona, ore che non dimenticherò mai. Stavo fuori per cinque o sei giorni, qualche volta per due settimane. Tornavo nella mia stanzetta di via Rugabella la sera di sabato. Presi gusto al lavoro. Il lavoro mi restituiva il piacere di starmene qualche volta a scrivere e a sognare, il piacere di vivere che avevo quasi perduto. Scossi la mia accidia, mi svegliai. Arrivavo ai treni con solo qualche minuto d'anticipo. Io ho quasi perduto la memoria ma queste minuzie che ho racimolato di colpo devono aver avuto allora riflessi assai dolenti. Non ho fatto sforzi per allineare i ricordi della mia preistoria milanese.
Un pomeriggio di estate del 1936 mi presentai all'ingegnere Adriano Olivetti che mi aveva chiamato, per un colloquio, nel suo ufficio di via Clerici. Gli portavo il mio " Quaderno di Geometria " in un estratto della rivista " Campo Grafico "; l'avevo scritto l'inverno prima a Montemnurro, quand'ero quasi deciso a non tornare mai più in città. Occupava appena tre fogli di scrittura minutissima che presero corpo a Milano, per la gentilezza del mio caro amico Tommaso Bozza, allora addetto alla Biblioteca di Brera, in circa una ventina di pagine dattiloscritte. Non avevo altre referenze da dare; sì, qualche poesia della prima stagione che Ungaretti aveva citate, ancora inedite, in un articolo che aveva scritto per la " Gazzetta " di Amicucci. I versi "trascendentali" (l'aggettivo è di Gianfranco Contini) e i miei primi assaggi di matematica bastarono all'ingegnere Adriano per propormi la direzione del suo Ufficio Tecnico di Pubblicità. Designazione a quei tempi ambitissima per l'alta tradizione che in pochi anni ­ attraverso l'opera di Xanti Shawinsky, di Costantino Nivola (entrambi in Nord America oggi) e il fanatismo dell'indimenticabile Zweteremich ­ quello studio era riuscito a imporre in Italia e fuori. Il mio curriculum di appena un anno presso la Società del Linoleum mi era servito a qualcosa; sull'esempio di un uomo integro e astutissimo, un celibe vegetariano e poliglotta, il signor Lesti (poi passato alla Direzione Commerciale della Saffa) avevo imparato qualche regola, qualche segreto di quella che era allora considerata la strategia pubblicitaria. Il signor Lesti non dava, seguendo l'esempio degli americani, grande importanza alla forma del messaggio; egli pensava che un buon servizio doveva funzionare in strettissimo accordo con i venditori. Il cliente non aveva la fisionomia che noi gli abbiamo dato, egli non lo sopravvalutava, non lo aggrediva. Lo raggirava, lo circuiva, non lo prendeva di petto. Ma pochi meglio di lui saprebbero ancor oggi valutare l'efficacia e il prezzo di un intervento pubblicitario. Quanto si può pagare la copertina di tutti gli elenchi dei telefoni? Quale può essere la convenienza di un manifesto diffuso in tutto il Paese? E qual è la dimensione giusta di un annuncio da pubblicare sui giornali? Conviene tenere fisso l'annuncio o svolgere una serie di argomentazioni? Qual è il ritmo migliore per un prodotto di largo consumo e per uno strumento di lavoro? Erano problemi di cui il signor Lesti possedeva sempre la soluzione giusta, problemi che ancor oggi si presentano insidiosi e imbarazzanti. Quand'io andai alla Olivetti conoscevo dunque un po' di questa aritmetica, di questa ars divinatoria. Ma chiesi un impegno superiore al mio mestiere. Più che affidare i risultati alla tattica, al calcolo statistico, io puntai con molta temerarietà sulla simpatia, sulla seduzione di un linguaggio nuovo, sulla messa a fuoco di una serie di immagini un poco enigmatiche, chiamando il lettore, l'utente, a partecipare a una specie di symposium dell'intelligenza, a una parade, a un certame. Con la collaborazione di un gruppo di allievi della Scuola di Monza (Pintori, Guzzi, Algarotti) riuscimmo a fabbricare in pochi anni una tale congerie di monadi, di matrici, di cellule, di molecole grafiche, plastiche e pittoriche, da surclassare tutto il lavoro del genere che si faceva in Italia.
Noi affermammo che una pagina stampata, una vetrina, un fotomontaggio costituivano delle testimonianze nientaffatto trascurabili della nostra civiltà, della nostra cultura. La fabbrica di Ivrea lavorava con una tolleranza che non doveva superare il millesimo di millimetro; come potevamo noialtri dimostrarci sciatti o approssimativi? Credo di aver io stesso facilitato allora i primi incontri tra l'ingegnere Adriano Olivetti e Marcello Nizzoli, nello studio di via Rossini, dove Nizzoli lavorava da almeno vent'anni. E fin da allora ebbi modo di discutere con loro i primi simulacri in gesso e in legno di quella che dopo qualche anno divenne la "Lexikon", la macchina per scrivere più bella del mondo. Da uno stanzone che occupavamo sul cortile ci trasferimmo al primo piano su via Clerici, e ricordo ogni sera il passaggio in bicicletta, sempre alla stessa ora, dell'uomo-cane, il latrato che era per noi come il suono dell'Angelus. Quel nostro mestiere non dispiaceva neppure ai nostri amici. In via Clerici capitarono Vincenzo Cardarelli ed Elio Vittorini, Quasimodo e Gatto, Sandro Penna e Vittorio Sereni. Capitarono pittori, scultori, architetti. Persico era morto qualche anno prima e noi ci consideravamo tutti suoi discepoli, perché fu lui, fu il suo esempio, i suoi discorsi, i suoi incoraggiamenti a farci considerare allo stesso livello la dignità del lavoro e la responsabilità dell'arte. Ci sentivamo sempre confortati e ammoniti dalla sua cara ombra.
Le nostre audacie, i nostri entusiasmi, il mio fanatismo di allora non si giustificherebbero, non si capirebbero se non ci fosse sullo sfondo una città come Milano, il credito che i milanesi sanno dare alle operazioni che un poco li sollevano dalla vita e dal senso comune. Io stesso non avrei mai preso sul serio certi problemi se mi fossi immiserito su un piccolo Olimpo, se anch'io, sull'esempio dei miei amici letterati, mi fossi impietrito nel mezzobusto con l'illusione di entrare così di soppiatto nella storia. Milano ci diede il coraggio di alimentare continuamente la nostra disposizione a comunicare col prossimo, anche a costo di cambiare il physique du rôle, col vantaggio di passare, come Seurat, per un personaggio qualunque, un borghese, più che per un intellettuale stravagante, cinico, scettico e, tutto sommato, noioso.
Quel mio lavoro durò ininterrotto fino al principio della guerra. Nel nostro atelier ci fu una fioritura incessante di immagini, di schemi, di apparati. Come ho detto altrove, il dèmone dell'analogia ci suggeriva ogni giorno uno spunto. I miei ragazzi erano di un'abilità portentosa, realizzavano in un batter d'occhio qualunque fantasia, gli accostamenti più inattesi di oggetti, di forme, di colore, di caratteri. Le vetrine che allestimmo nel negozio in Galleria, per un paio d'anni ogni quindici giorni, erano seguite dal pubblico come una vicenda cittadina, una gara, un exploit. Corrado Alvaro scrisse allora una corrispondenza per " La Stampa " di Torino in cui sottolineava il significato di questa partecipazione collettiva alle prove di un gusto senza compromessi, senza retorica, senza piaggeria. Finalmente " la merce " guadagnava la sua dignità di " oggetto ", il frutto del lavoro di una grande officina veniva portato in mostra col rispetto e la venerazione che impone un'opera d'arte. Il nostro journalisme architectural si teneva al corrente di tutte le conquiste vive della tecnica e della espressione. Guido Modiano definì su " Domus " la stretta parentela tra architettura e grafismo in un bellissimo pezzo, dedicato ai nostri involucri rigati. Una vecchia copertina della " Domenica del Corriere " era accostata a una scultura di Fancello o di Fontana o di Broggini. Una superficie matematica pigliava risalto e significato al confronto di una tastiera ingigantita. Elio Vittorini, invitato a scrivere una prefazione alla raccolta di alcune nostre pagine di pubblicità, puntò diritto allo scopo quando definì il nostro lavoro come un contributo al riscatto dalla retorica e dal dogmatismo. Furono davvero i miei anni belli, gli anni di via Clerici, di via Rugabella, di via Velasca, di Bottonuto. Furono, è incredibile, anche le stagioni più feconde per la nostra poesia. Perché proprio in quegli anni partirono da Milano i nostri libretti di versi. E Milano, credo, non aveva avuto mai un peso così decisivo nella storia della nostra cultura. Chi legge oggi gli epigrammi a San Babila, a Porta Nuova, a Via Velasca, alle eglantine, alle pervinche, forse stenta a riconoscere la città della nostra giovinezza.
La mia seconda stagione milanese porta il peso e la responsabilità dei quarant'anni (i capelli grigi e l'emicrania, piazza Duse e via Zuretti, le trattorie di Giuntoli e di Pepori), i colori giallo e rosso della Pirelli. Dentro questi anni bisogna far entrare il trambusto di piazzale Loreto e gli odori della Bicocca. Bisogna far entrare le Alpi che qualche volta, nei giorni limpidi, io riuscivo a scoprire dalla finestra dell'ottavo piano del Palazzone. Poi la monotona e bellissima storia del marciapiede di via Vittor Pisani, dalla porta dell'Albergo Doria fino in fondo, dove, dall'altezza di un gradino appena (il gradino di un marciapiede) si scende nel piazzale della Stazione. Si scende sul piazzale con un salto di appena diciotto centimetri, che è stato sempre per me, nuotatore impossibile, un vero e proprio t tuffo a testa in giù, dal trampolino (del letto, dei libri, della solitudine) fin sotto il livello della giornata di lavoro. La storia del marciapiede di via Vittor Pisani, questo incredibile tappeto d'asfalto, più prestigioso di un tappeto orientale, più ricco di un sottobosco, più enigmatico del fondo del mare, la racconterò un'altra volta. So che una sera ho rivelato a Riccardo Manzi la mia scoperta e siamo stati insieme due ore, a testa bassa, a ripercorrere su e giù, a leggere rallentati duecento metri di film. È un film da fare, un film di duecento metri (una misura assurda!) che forse nessuno intenderà: un film sulle crepe, sulle incrinature, sui solchi, sulle lacerazioni, sulle cicatrici, sui cunicoli, sui simboli, infine, che pioggia e nebbia e gelo hanno tracciato nel bitume. E poi, eppoi c'è il trolley del tram numero 7.
Se sfoglio i miei appunti di allora, autunno-inverno 1948, trovo curiose indicazioni, trovo i segni delle prime punture, il grafico della linea di penetrazione del mondo della gomma nel inondo dei miei pensieri. Trovo scritto, per esempio, che le vie del sonno sono serpentine, e c'è vicino a questa nota uno scarabocchio che potrebbe essere anche un ritratto della tortiglia, del cord, oppure l'ideogramma di un battistrada. Appresso trovo divertimenti di questo genere: " I surrealisti devono aver cercato parole elastiche; Moore ha scoperto una scultura pneumatica; Dalì ha fabbricato orologi di caucciù ". E in altra pagina, trascritta l'ultima terzina di un famoso sonetto di Rimbaud: " Où, rimant au milieu des ombres fantastiques. Comme des lyres, je tirais les élastiques Des mes souliers blessés, un pied contre mon coeur! ".
È chiaro, si tratta di schermaglie, di difese superflue, di raggiri premonitori: il regno del flessibile sceglieva le vie più tortuose per farsi strada nel mio cervello.
Poi ci furono le impressioni in fabbrica. " I fili, i canapi, le trecce, i cavi dentro cui trascorreranno i fremiti delle acque, i sobbalzi delle piogge e delle nevi. I fili di rame che svuotano i laghi, ecc. ". Il 29 novembre 1948 feci la seconda visita ai cavi (i cavi m'intrigavano non c'è dubbio). " L'operazione più intrinseca che si compie entro queste immense navate, questi altissimi padiglioni, consiste nel proteggere il rame dal contatto diretto con la terra. È strano come tutti i traslochi delle cose più delicate e lubriche, sangue, semenza, clorofilla, linfa, energia, vis, suono, si compiano meglio all'oscuro, sottoterra. L'isolamento dei cavi deve evitare le dispersioni di corrente, deve tamponare qualunque eventuale e possibile emorragia. E gli operai addetti alle macchine fasciatrici hanno anche nella figura qualcosa che ricorda gl'infermieri e gli aiuti delle sale operatorie. C'è ancora di più: il sistema di bendaggio (gomma, carta, miscela, olio) ricorda molto da vicino i processi di mummificazione. Con la differenza che davvero entro questa basilica si opera una difesa dell'anima., perché l'elettricità è tutta anima e niente corpo. Il midollo di questi possenti pitoni (lunghi anche mille metri e grossi fino a centocinquanta millimetri) è quasi sempre triplice, ternario, perché in effetti, l'energia è trigemina. È un triangolo. Una trinità ".
Vedete, ero già posseduto. Ero perduto.
Fu in quella stessa epoca che visitai alla Bicocca il prof. Allavena e conobbi il dott. Oberto, e mi documentai sulle macromolecole, sulla memoria della gomma (l'isteresi elastica è memoria!) e sull'influenza che il nerofumo (in polvere millesimale) e lo zolfo (il fiato di Satana) esercitano sull'assetto delle catene molecolari.
Così dopo un rapido noviziato, tra alchimia e tecnologia, presi il mio posto tra produzione e distribuzione, tra operai e clienti. Ebbi poco tempo per sottilizzare sulla vendita e sul vantaggio. Mi buttai nella mischia, mi attaccai ai telefoni. Ogni gesto doveva da allora diventare pubblico, manifestarsi, chiamare, soccorrere, spingere, urtare, sedurre. Fu allora, novembre 1948, che intorno a noi, Luraghi, Tofanelli e io, cominciammo a radunare gli amici e a coinvolgerli nelle nostre stesse responsabilità.
Devo dire di più. Luraghi accarezzava da tempo il progetto di una Rivista Aziendale e per questa iniziativa aveva ottenuto il consenso del dott. Alberto Pirelli e l'adesione degli altri direttori. Credo che ne parlasse a Tofanelli fin dall'estate del 1948. E a quel tempo, infatti, risalgono le prime " avances " che Tofanelli mi rivolse per convincermi a tornare a Milano, sulla breccia. E in verità, ripreso a Milano il mio lavoro accanto a Luraghi, trovai dopo qualche giorno già pronti un progetto che " in nuce " o in bozzolo, o in germe, conteneva l'idea della Rivista. Lo so che " dal germe di un'idea può nascere Apollo oppure un mostro ": devo dire che per il calco già pronto non fu difficile scegliere il materiale meglio rispondente, meglio aderente al disegno di quella forma.
Fu discusso a lungo il titolo, fu vinta anche la nobile riservatezza del dottor Piero e del dottor Alberto: ci si convinse tutti che quel nome, meglio di qualsiasi sigla astratta e di qualunque proposito presuntuoso, poteva accogliere in Italia e all'Estero una massa imponente di amici guadagnati in settanta anni. Rimando il lettore alle precise parole introduttive che comparvero nel primo numero, a pag. 8, con la firma di Alberto Pirelli.
Che cosa distinse subito, fin dai primi numeri, la Rivista Pirelli dalle altre pubblicazioni analoghe? C'erano sulla piazza ottimi esempi: " Ferrania ", " Edilizia Moderna ", la " Rivista del Vetro ", varie riviste farmaceutiche. C'erano stati, ma tanto remoti, i venti numeri e più di " Tecnica ed Organizzazione ", stampati a Ivrea dalla Olivetti. Devo dire che lo stacco da quel genere di divulgazione fu netto. Perché i due piatti della bilancia, tecnica e cultura, problemi e suggestioni, inchieste e letteratura, concretezza e divagazione, furono tenuti sempre in equilibrio. E i nomi di Ungaretti, di Montale, di Quasimodo, di Baldini, di Vergani, di Carrieri, di Calzini, di Bernari, di Valsecchi, di Dorfles, di Linati, di Barisoni, di Biasion, di Manzi, di Munari, li troviamo fin dai primi numeri affiancati a Canestrini, Ambrosini, Verrati, Cesura, Nutrizio, Minoletti, Dicorato, Bonicelli, Gennarini, Laurenzi, Sorrentino, Patellani, Suppini. Convincere letterati e giornalisti (e tra i più illustri) a scoprire i segreti della tecnica, della scienza, del progresso (lo sport trova tifosi più disponibili in ogni categoria) è stato un vanto della Rivista. Che bandì con successo anche due concorsi, il primo per tre racconti sportivi, il secondo per dieci cronache sportive.
Pubblicammo in quattro anni tutti articoli di prima mano, tutti scritti inediti. Provocammo incontri tra scienziati e giornalisti, tra tecnici e poeti. Senza tema di commettere eresie mandammo i reporters negli studi, nelle aule, nei laboratori a sorprendere con lampi di magnesio personaggi tanto illustri quanto riluttanti, come Severi. Amaldi, Marcello, De Marchi, Gabrielli, Nervi, Colonnetti, Ponti, Fauser, Padre Gemelli, Smeraldi.
Se si pensa che soltanto in questi ultimi anni il giornalismo italiano ha guadagnato " in funzione " quanto ha perduto " in rappresentazione ", se si considera che è tanto difficile da noi torcere il collo alla retorica e che si può essere tacciati di improntitudine se si chiede uno scritto su tema obbligato, perché il bau bau dell'ispirazione, non è del tutto sotterrato, si comprende meglio il significato di un lavoro che, bene o male, era una prova di sottomissione, non certo di orgoglio.
All'intelligenza italiana non si sollecitarono sviolinate ed exploits, ma piuttosto constatazioni, sopraluoghi, rendiconti. Tanto meglio se qualcuno riusciva ad accendersi di fronte a una tesi, a un incontro imprevisto, a uno spettacolo, a un dispositivo. Devo confessare sinceramente che il tempo dei Francesco Redi e degli Algarotti, per non dire dei Galilei e dei Cattaneo è davvero lontano. La nostra cultura è quasi tutta impastata di storia e di oratoria. È impastata per fortuna anche di poesia. E io credo nell'acume, nella curiorità, nell'entusiasmo dei poeti: credo nella loro capacità di sorprendersi, di riflettere, di approfondire.
Vorrei dire, di straforo, che una delle mie ambizioni fu proprio questa: provocare, stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo commemorativo, un referto e non un inno, un commento non una predica. Io sono sicuro che se i nostri scienziati e i nostri tecnici considerassero l'esercizio della scrittura alla stregua di un'operazione dignitosa, (una vera e propria lima del pensiero) qual è sempre stata per Leonardo o per Cartesio, per Leon Battista Alberti o per Maxwell, per Linneo o per Einstein, e se viceversa i letterati e i filosofi e i critici, come hanno fatto del resto Goethe e Valery, Hegel e Bergson, Giedion e Dewey, accogliessero, con rinnovata simpatia, le ipotesi e i risultati del calcolo e dell'esperienza, una concordia nuova potrebbe sorgere tra le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo, non voglio dire un nuovo mito. È molto probabile che questo genere di letteratura " a comando ", questo giornalismo tecnico prenda il sopravvento sulle pagine scritte in libertà, sulla prosa gratuita, sulla scrittura disinteressata. Abbiamo letto in questi ultimi giorni una " memoria " che accompagnava la relazione di un bilancio di una grande società finanziaria belga: un saggio sull'utilizzazione delle materie prime che poteva portare una firma celebre, ed era invece soltanto una plaquette anonima. Io aspetto il gran giorno in cui il Regno dell'Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall'intel1igenza. Quest'estate ho aperto qualche libro dei nostri illuministi, l'abate Galiani, Filangieri, Verri. Mi veniva da confrontare la nitidezza dei loro pensieri e delle loro parole alle sbavature, alla schiuma, alla sciattezza di tanti articoli di fondo dei nostri giornaloni. Ho cercato sempre di stimolare nei collaboratori la ricerca di un'espressione meditata: ma c'è ancora molto cammino da percorrere per guadagnare precisione e leggerezza.

Un'ala battezzata

"È un'emozione sempre nuova anche per noi - diceva l'ingegner Carassai guardando il promontorio di Gaeta -un'emozione che per cinque minuti, non più, ti tiene col cuore in gola". Avevo sentito le stesse parole a Genova, alla Spezia, a Trieste dall'ingegner Rosini, dall'ingegner Dujardin, dall'ingegner Crovetti poco prima che le madrine lanciassero la bottiglia di champagne contro la chiglia d'acciaio delle navi pronte per il varo. "È un'emozione sempre nuova per noi, il pubblico guarda la cerimonia, noi ricapitoliamo in un attimo tutti i nostri calcoli e i nostri affanni". L'ingegner Carassai ha fabbricato diecine di modelli, di prototipi, migliaia di apparecchi. "È un gemito, dura pochi minuti". Noi andavamo da Roma a Napoli per l'emozione di quel gemito. "Il lagno di un gatto" disse un viaggiatore in ascolto. "Piuttosto il sibilo di una tarma" disse Carassai. "Del resto ­ aggiunsi io ­ anche gli astronomi che andarono a vedere l'eclisse totale del Sole, per controllare le teorie di Einstein, non ebbero che due secondi di tempo. Possiamo contentarci".
Arrivammo a Pomigliano nel primo pomeriggio. Gli eucalipti erano sparsi tra i capannoni. Erano già polverosi. Anche l'erba era arsa ai margini dei viali di asfalto. Lontano i piccoli velivoli bianchi della Scuola di addestramento di Capodichino sotto una tettoia aperta parevano piccioni scesi a terra a beccare gli acini di grano. Ci introdussero sotto una lunga campata sorretta da pochi pilastri, luminosissima. La percorremmo tutta, sino in fondo, rammaricandoci di non poterci fermare qua e là a guardare le ossa colorate e gli involucri leggeri dei pezzi che sulle incastellature erano in via di approntamento. C'era un simulacro intero, spellato quasi tutto. Ma era già completo di motore e di armamento. Nella piccola carlinga c'era pronta la poltroncina per il pilota. Il muso era aperto a circolo, un breve intestino larghissimo partiva dalla bocca e arrivava a poppa, appena interrotto dalla grande ruota a palette. Quegli scheletri oblunghi o piatti sembravano fabbricati con gli stecchini o coi fili tanto erano gracili a prima vista. Pensate a un guscio d'uovo o alle nervature di una foglia, pensate agli ombrelli. E cercavo dentro di me altre similitudini, perfino una calza gonfia d'aria, una nassa. Pure gli involucri erano esili, elastici, ma fortissimi. Bastava guardarli un po' più da vicino, guardarli in sezione, guardarli dentro, dopo averli lisciati col palmo della mano che non riusciva a trovare la minima gibbosità, né un pelo, né un acino di polvere. E si capiva che quel materiale, lastre minime e puntelli, era ben dosato. C'era una ricerca nella distribuzione delle nervature, negli innesti, nelle costole, nelle ribattiture, che poteva far pensare tanto a un lavoro di sartoria, sartoria nel taglio e nella cucitura perfetta delle sagome, quanto al lavoro di un carpentiere e di un architetto. La virtù di quei manufatti derivava, sì, da una attitudine intrinseca alla materia, al metallo, alla lega di alluminio, di silicio, o di magnesio, ma soprattutto dal disegno della forma. Ricordavo le cupole di Füller fabbricate col cartone; mi veniva in mente che è più facile torcere un filo che spezzarlo. Pensavo al giuoco dei reciproci rapporti tra forze e forma, all'idea dell'arco, all'idea del traliccio e alle lunghe analisi che l'intelligenza aveva operato nella discriminazione dei tormenti, tensione, trazione, taglio. Il costruire con ardimento (grattacieli non piramidi, sommergibili non zattere, reattori non aquiloni) comporta la conoscenza di questa sintassi. Le colonne e gli architravi sono crollati nel tempo, sono rimasti in piedi gli archi millenari.
Andammo fino in fondo alla navata lasciando i pezzi sui trespoli, i pezzi di un colossale insetto disseccato. L'ala giaceva già da qualche minuto sotto il supplizio quando noi arrivammo all'ora giusta, alle 2,30 del pomeriggio. Aveva già subito gli interrogatori di 1°, 2°, 3° e 4° grado. Il Genio Aeronautico chiede una prova fino al dodicesimo grado. Fuori metafora: esige che le prove siano fatte fino al coefficiente 12 (dodici), che l'ala cioè venga tirata da una forza, sapientemente distribuita sulle varie sezioni, dalla punta all'attacco, di 12 volte il peso dell'apparecchio, circa 36.000 (trentaseimila) chili, ripartiti su una superficie di 1473 decimetri quadrati.
"Un tempo queste prove si facevano con carichi di sabbia, lingotti di piombo, barre. Bisognava costruire delle pile meticolose sempre più alte, una specie di castello di carte". Ora con il soccorso dell'idraulica la manovra è facile e rapida. Basta regolare lo sforzo primario con un manometro e la macchina pensa a distribuire attraverso un giuoco bilanciato di leve e controleve, lo sforzo sulle due mezze ali, dalle punte all'incastro. Sembrava un catafalco quell'ordigno, poteva far pensare a Kafka o a un mastodontico torchio: una costruzione apparentemente sproporzionata agli spessori della delicatissima ala che veniva gradualmente tirata fino alla rottura. C'era indubbiamente un'aria da grosso intervento chirurgico. Chi operava silenziosissima era la macchina coi suoi tiranti e via via, invisibilmente, la punta dell'ala si alzava di due centimetri per ogni strappo progressivo. Noi non ci saremmo accorti di nulla. Ma c'erano le batterie di strumenti che segnalavano tutto. Per ogni coefficiente fornivano due serie di indicazioni: la freccia elastica in corrispondenza delle sezioni caratteristiche e la sollecitazione interna del metallo su certi punti dell'ala. Si riempivano tabelle di cifre che alla fine sarebbero servite a stendere il protocollo ufficiale della prova. Intorno alla macchina di tortura c'erano tanti gruppi di persone pensose. Squadre di periti e di operai. C'erano i due colonnelli del Genio aeronautico Schepisi e Zattoni, lo stato maggiore al completo dell' Aerfer con l'ingegner Carassai e l'ingegner Stefanutti, progettista del Sagittario.
Il direttore delle prove continuava a gridare i numeri dei coefficienti. "Coefficiente sei": altri giri di manopole, altro carico, altre frecce, altri indici sempre crescenti. L'estremità dell' ala si alzava, la fatica del materiale era già visibile in certe zone della superficie che il colonnello Schepisi andava segnando con la punta del lapis. Un cerchietto sull' involucro dove compariva una ruga o un gonfiore o una ammaccatura.
Sotto la morsa l' la non dava segni di debolezza. Come in un anfiteatro, o in una corrida, a me dilettante gli esperti consigliavano di guardare una zona molto ristretta dell'involucro da dove il gemito sarebbe uscito. Mi mostravano una piccola gobba, ma con l'aria di dire "se lei è fortunato assisterà da vicino alla morte del toro". Loro erano tranquilli. Al coefficiente 12 (dodici) il cric non ci fu, non ci fu al 13, e neppure al 14, al 15.
"Sospendiamo la prova" dissero i colonnelli Schepisi e Zattoni all'ingegner Carassai e all' ingegner Stefanutti. Non c'era più bisogno di proseguire. Erano soddisfatti. L'ala del Sagittario era battezzata. Si chiacchierò, si bevve, si strinsero le mani. La punta dell'ala s'era spostata di circa 30 centimetri dalla sua posizione di riposo. Sull'ala era stata esercitata una tensione ripartita di circa 450 quintali e soltanto un chiodo era partito. Carassai battè la mano sulla spalla dell' operaio che aveva diretto la squadra degli specialisti, i quali materialmente avevano costruito quella prima ala. Il manometro cominciò a scendere, i lacci si sciolsero via via, la macchina si rilassò.

Nuove tappe del precompresso

Il libro di Riccardo Morandi (*) ha giù fatto in pochi mesi il giro del mondo. È arrivato in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Svezia, dove i clans dei cultori del precompresso sono roccaforti inespugnabili, quasi segrete sette. Del resto l'ars aedificatoria, da Eupalino a Villard de Honnecourt, dai comacini ai costruttori di ponti sospesi, comporta la conoscenza di riti, di formule, di macchinette, tramandate di bottega in bottega, di équipe in équipe, di ecclesia in ecclesia, come un magico protocollo. Ci sono invenzioni, dispositivi, diagrammi di lavorazione, schemi compositivi: c'è un metodo alla base di ogni ricerca e di ogni operazione. Il coup de foudre può benissimo arrivare di scatto dove la ragione stenta a fare i suoi piccoli salti. Le strade che portano alla verità sono tutte tortuose. Una illuminazione improvvisa può abbreviare il tragitto, può rendere possibile quello che la regola e il buon senso avevano relegato tra le eccezioni, le aberrazioni. Anche la teoria della coazione, limpidissima dopo gli scandagli di Volterra e di Colonnetti, dopo le applicazioni su scala industriale di Freyssinet, del nostro Morandi e di altri, non è più un segreto di sacrestia. Rimane sempre un segreto di esecuzione. C'è sempre l'incognita della migliore soluzione da scegiliere tra le tante probabili. Riportiamo questa chiara pagina introduttiva dall'antologia di Morandi:
"Durante il lungo periodo di ricerca di questi ultimi venti anni, molti di noi pensarono di utilizzare il concetto degli stati di coazione allo scopo di sfruttare meglio il calcestruzzo ed alleggerire quindi sempre di più le proprie strutture. Nacque la precompressione, questa grande conquista che sta trasformando l'arte del costruire ed il cui stile ancora in formazione promette già il fiorire di una nuova architettura... Ricordiamo che nel lontano 1935, quando iniziammo in Italia le prime prove intese a mettere in coazione una trave di calcestruzzo, eravamo giunti a concepire l'idea leggendo casualmente un articolo sulla tecnica del vetro temperato, reso resistente alle trazioni mediante la possibilità di creare in esso uno stato di coazione. Sognammo che si potesse costringere una struttura di calcestruzzo, mediante una forza preapplicata, a comportarsi come un solido omogeneo delle stesse caratteristiche, a questo riguardo, del legno e del ferro. Il sogno è divenuto realtà, per merito principalmente di Freyssinet, che per primo ha saputo eliminare pazientemente la notevole congerie di difficoltà pratiche che si frapponevano alla realizzazione del metodo. A bbiamo quindi a disposizione questa formidabile tecnica di cui è necessario però attentamente vagliare gli aspetti più delicati. Per ora è una tecnica complessa che obbliga a piegare i nostri operai alla cura di tanti minimi particolari e ad una precisione finora assolutamente sconosciuta nel campo delle costruzioni civili. La precompressione richiede che le forze applicate siano rigorosamente dosate ed abbiano carattere stabile per tutta la vita della struttura ".
Oggi Morandi si muove spedito e sicuro da Roma a Città del Capo, dalla Sardegna a Caracas, dalla Riviera a Ragusa. Si muove senza la sicumera dell'antico Pontifex, il costruttore, il progettista, l'ideatore di ponti. Porta appresso i grandi fogli cianografati dove sono le sezioni, le piante, i particolari costruttivi delle sue opere. Dove arriva, dà un rapido colpo d'occhio all'andamento dei lavori, raccoglie le relazioni dei vari responsabili del cantiere. " Nell'eseguire nulla è trascurabile " diceva Eupalino. Va con gli assistenti a scoprire una magagna, a rendersi conto de visu dei preparativi di un'operazione. Si devono prendere decisioni immediate. Sì raduna un piccolo consiglio di esperti; l'ingegnere Morandi ascolta tutti e decide. In due o tre ore di sopraluoghi, anche quando fa da guida ai suoi amici curiosi, Morandi trova modo, tastando, ascoltando, guardando qua e là, di risolvere dieci, quindici " grane ", come dice lui. " Un progetto, anche il più minuzioso e preordinato, nasconde sempre una infinità di incognite ". Queste incognite sono naturalmente la parte più affascinante per un esperto. L'arte e la tecnica, come del resto la bellezza e la grazia, sono caratterizzate da queste infinite " messe a punto ", che sono un poco le varianti dei filologi, piccoli sfasamenti, impercettibili scarti che di una cifra morta fanno un numero vivo.
Il precompresso, nei calcoli cosmici in cui si trova irretita qualunque esistenza, e quindi anche la mia, dev'essere legato a un tempo incerto, un cielo grigio, a una temperatura da lumache. L'architettura classica e neoclassico sta bene al sole, è nata dalla luce e dall'ombra separate da linee nette.
Mi sono messo in viaggio due volte per andare a cedere questi nuovi ordigni murari e meccanici, un giorno a Trieste, l'altro ieri a Castellaccio in Ciociaria, a due passi da Colleferro, che è la capitale dei B.P.D., i Bomprini Parodi Delfino. Due viaggi sotto un cielo tempestoso. Il precompresso non nasce facile, non nasce sulla carta. Esiste, come una costrizione, una regola che l'uomo impone alla natura. il precompresso è, in certo senso, contro natura, è un'autentica vittoria dell'intelligenza. Un assistente, il geometra Murchio mi pare, raccontava alla mensa nella baracca che quando furono smontate le impalcature e le casse forme (dentro cui erano state prima fissate le trecce d'acciaio ad altissima resistenza, colato il calcestruzzo e quindi, dopo una ventina di giorni, tesi i cavi con una forza di 10 000 Kg per centimetro quadrato), ci fu un momento molto emozionante nel cantiere, come al varo di una nave o al sollevamento dell'obelisco in piazza San Pietro. Alcuni andarono su un poggio poco distante a godersi lo spettacolo di questa linea dritta orizzontale, della lunghezza di 70 metri sollevata nel paesaggio e che tagliava l'orizzonte come la lama di un rasoio. Morandi ci spiegò, schizzando sull'intonaco di una parete, il meccanismo della coazione e ci fa lo schema di questo stupendo telaio iperstatico, uno dei più audaci dei mondo, con due luci continue di 35 m ciascuna, che apre nel salone di lavorazione dell'edificio, destinato alla fabbricazione delle fibre tessili, immense aule ininterrotte, superbi parallelepipedi d'aria, mai visti (pensavo ai lastroni di ghiaccio che all'alba vengono scaricati nelle latterie). Poi ci porta a guardare da vicino le complicate viscere della trave e le testate dove gli spaghi di acciaio sono stati tirati a tre a tre e poi bloccati con uno spinotto.
Ho visto pure il bellissimo hangar per il deposito della lana, 50 m di lunghezza, 22 m di altezza, 20 m di luce, coperto di una serie di conoidi rigati. È un magazzino che ha la solennità di una basilica. E del resto qui intorno, tra le distese ondulate dei campi, le colline dolci, si beve un'aria e una luce, ora che è spiovuto, che richiama la quiete dei luoghi scelti dagli antichi per i loto templi. Ma che altra musica qui, tra poco! Si sentirà il sibilo, il fruscìo, il fermento di una materia senza requie. LA materia che più assomiglia all'insetto al grande bruco fervoroso.

* Strutture di calcestruzzo armato e di calcestruzzo precompresso, Libreria Dedalo Edit., Roma 1954.