Memorie dal sottosuolo

Sia l’autore delle memorie che le «Memorie» stesse sono, ovviamente, immaginari. Nondimeno personaggi come lo scrittore di queste memorie non solo possono, ma addirittura debbono esistere nella nostra società, se si prendono in considerazione le circostanze generali in cui essa è venuta a formarsi. Io volevo portare davanti al pubblico, in modo più evidente del solito, uno dei caratteri del nostro recente passato. Si tratta di un rappresentante della generazione che vive tuttora. In questo brano, intitolato «Il sottosuolo», il personaggio presenta se stesso, le sue idee, e pare voler spiegare i motivi per cui è comparso e doveva comparire nel nostro ambiente. Nel brano successivo vengono già le vere “memorie” di questo personaggio su alcuni avvenimenti della sua vita. Fëdor Dostoevskij

I

Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; be’, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Io, s’intende, non saprei spiegarvi a chi esattamente faccia dispetto in questo caso con la mia cattiveria; so perfettamente che neppure ai medici potrò “farla” non curandomi da loro; so meglio di chiunque altro che con tutto ciò nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è per cattiveria. Il fegato mi fa male, e allora avanti, che faccia ancor più male! È già da molto tempo che vivo così: una ventina d’anni. Ora ne ho quaranta. Prima lavoravo, ma adesso non lavoro. Ero un impiegato cattivo. Ero villano e ne ricavavo piacere. Infatti non prendevo bustarelle, dunque dovevo pur gratificarmi in qualche modo. (Pessima battuta; ma non la cancellerò. L’ho scritta pensando che sarebbe risultata molto arguta; ma ora che mi son reso conto che volevo soltanto pavoneggiarmi in modo disgustoso, apposta non la cancellerò!) Quando alla scrivania a cui lavoravo si avvicinavano dei postulanti per chiedere informazioni, io digrignavo i denti contro di loro e provavo un indicibile godimento, quando mi riusciva di dare un dispiacere a qualcuno. Mi riusciva quasi sempre. Per la maggior parte era gente timida; si sa: postulanti. Ma fra i bellimbusti non potevo sopportare soprattutto un ufficiale. Lui non voleva in nessun modo sottomettersi e faceva un abominevole baccano con la sciabola. Per un anno e mezzo fra me e lui ci fu una guerra per quella sciabola. Finalmente la spuntai. Egli smise di far baccano. Del resto, questo accadeva ancora nella mia giovinezza. Ma lo sapete, signori, in che consisteva il punto fondamentale della mia cattiveria? Proprio lì stava tutto il nocciolo, proprio lì era racchiusa l’infamia peggiore: che in ogni momento, perfino nel momento della rabbia più accesa, vergognosamente riconoscevo dentro di me che non solo non ero un uomo cattivo, ma neppure ero inasprito, che spaventavo soltanto inutilmente i passeri e così mi consolavo. Ho la schiuma alla bocca, ma portatemi un bambolotto, datemi una tazza di tè con un po’ di zucchero, e magari mi calmerò. Anzi, il mio animo s’intenerirà, anche se poi, probabilmente, digrignerò i denti contro me stesso e per la vergogna soffrirò d’insonnia per diversi mesi. Ormai ci ho fatto l’abitudine. Poco fa ho mentito sul mio conto, dicendo che ero un impiegato cattivo. Ho mentito per cattiveria. Facevo solo i capricci, tanto con i postulanti che con l’ufficiale, ma in realtà non ho mai potuto diventare cattivo. In ogni momento riconoscevo in me molti, moltissimi elementi quanto mai in contrasto con ciò. Sapevo che fermentavano in me, questi elementi contrastanti. Sapevo che per tutta la vita avevano fermentato in me e che cercavano di uscire all’esterno, ma io non lasciavo, non lasciavo, apposta non lasciavo che si sprigionassero. Mi torturavano fino a farmi vergognare; mi conducevano fino alle convulsioni e alla fine mi sono venuti in odio, come mi sono venuti in odio! Ora non vi sembra, signori, ch’io mi stia pentendo di qualcosa dinanzi a voi, che vi chieda perdono di qualcosa?... Sono certo che ne avete l’impressione... Ma, del resto, vi assicuro che per me fa lo stesso, se anche ne avete l’impressione... Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco. Sissignori, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo deve ed è moralmente obbligato a essere una creatura essenzialmente priva di carattere; mentre l’uomo di carattere, l’uomo d’azione, dev’essere una creatura essenzialmente limitata. Questa è la mia quarantennale convinzione. Ora ho quarant’anni, e quarant’anni sono tutta una vita; sono la più decrepita vecchiezza. Vivere più di quarant’anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre i quarant’anni? Rispondete sinceramente, onestamente. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni. Lo dirò in faccia a tutti i vecchi, a tutti quei vecchi venerandi, a tutti quei vegliardi profumati e dalle chiome d’argento! Lo dirò in faccia a tutto il mondo! Ho il diritto di dirlo, perché io stesso camperò fino a sessant’anni. Fino a settant’anni, vivrò! Fino a ottant’anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciatemi riprender fiato... Probabilmente pensate, signori, che voglia farvi ridere? Vi siete sbagliati anche in questo. Non sono affatto l’uomo allegro che credete o che forse credete; del resto, se voi, irritati da tutte queste chiacchiere (io già lo sento, che siete irritati), avrete l’idea di domandarmi chi sono, in fin dei conti, allora vi risponderò: sono un assessore di collegio. Lavoravo per avere qualcosa da mangiare (ma unicamente per questo), e quando l’anno scorso un mio lontano parente mi lasciò seimila rubli per testamento, diedi subito le dimissioni e mi sistemai nel mio angolo. Anche prima vivevo in quest’angolo, ma adesso mi ci sono sistemato. La mia stanza è squallida, brutta, ai confini della città. La mia serva è una donna di campagna, vecchia, cattiva per stupidità, e per giunta sempre puzzolente. Mi dicono che il clima pietroburghese mi diventa nocivo e che con i miei scarsi mezzi è troppo costoso vivere a Pietroburgo. Tutto questo lo so, lo so meglio di tutti questi esperti e savissimi consiglieri dall’aria saccente. Ma resterò a Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! Non me ne andrò perché... Uff! Ma è assolutamente indifferente che me ne vada oppure no. E del resto: di che può parlare un uomo perbene con il maggior piacere? Risposta: di sé.
E dunque anch’io parlerò di me.

II

Ora voglio raccontarvi, signori, che desideriate sentirlo oppure no, perché non sono stato capace di diventare neppure un insetto. Vi dirò solennemente che molte volte ho voluto diventare un insetto. Ma neppure questo ho meritato. Vi giuro, signori, che essere troppo coscienti è una malattia, un’autentica, completa malattia. Per la vita quotidiana dell’uomo sarebbe più che sufficiente una comune coscienza umana, cioè una metà, un quarto della dose che tocca in sorte all’uomo evoluto del nostro sventurato diciannovesimo secolo, che abbia, oltre a ciò, la speciale sventura di abitare a Pietroburgo, la città più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre. (Le città possono essere premeditate o non premeditate.) Sarebbe più che sufficiente, per esempio, la coscienza con cui vivono tutti i cosiddetti uomini immediati e d’azione. Scommetto che voi pensate che io scriva tutto ciò per farmi bello, per fare dello spirito sugli uomini d’azione, e inoltre per una spacconata di cattivo gusto faccia baccano con la spada, come il mio ufficiale. Ma, signori, chi mai può vantarsi delle proprie malattie, e oltretutto farsene bello?
Del resto, che dico? Lo fanno tutti; si vantano appunto delle malattie, e io, forse, più di tutti. Non discuteremo; la mia obiezione è assurda. E tuttavia sono fermamente convinto che non solo l’eccesso di coscienza, ma addirittura qualsiasi coscienza è una malattia. Insisto su questo. Ma lasciamo da parte anche ciò per un attimo. Ditemi un po’: perché, come a farlo apposta, in quegli stessi, sì, proprio nei medesimi momenti in cui ero più capace di riconoscere ogni sottigliezza di “tutto ciò che è sublime ed elevato”, come si diceva da noi una volta, mi capitava non già di riconoscere, ma di commettere azioni così indecenti, che... ma sì, insomma, che magari tutti commettono, ma che a me, come a farlo apposta, venivano proprio quando ero più cosciente del fatto che non andavano assolutamente commesse? Quanto più ero cosciente del bene e di tutto quel “sublime ed elevato”, tanto più mi sprofondavo nel mio limo e tanto più ero capace di invischiarmene completamente. Ma l’aspetto principale era che tutto ciò non pareva casuale in me, come se in qualche modo dovesse essere così. Come se fosse la mia condizione più normale, e niente affatto una malattia o una perversione, tanto che alla fine mi passò anche la voglia di lottare contro quella perversione. Sicché finii quasi col credere (o forse ci credetti davvero) che appunto quella fosse magari la mia condizione normale. Ma sulle prime, all’inizio, quanti supplizi sopportai in quella lotta! Non credevo che ciò accadesse anche agli altri, e perciò per tutta la vita l’ho tenuto celato in me come un segreto. Mi vergognavo (anzi, forse mi vergogno anche adesso); arrivavo al punto di sentire un segreto, anormale, vile piaceruzzo nel ritornare talvolta nel mio cantuccio, in qualche obbrobriosa notte pietroburghese, e rendermi conto intensamente che ecco, anche quel giorno avevo di nuovo commesso una bassezza, che quel che era fatto era di nuovo irrimediabile, e intimamente, segretamente rodermi, rodermi per questo coi denti, tormentarmi e struggermi finché l’amarezza si trasformava in una sorta di ignominiosa, dannata dolcezza e alla fine in un ben preciso, autentico piacere! Sì, in piacere, in piacere! Insisto su questo. E ho cominciato a parlarne proprio perché vorrei tanto sapere con certezza: anche gli altri conoscono questi piaceri? Vi spiego: il piacere qui deriva appunto dalla troppo chiara coscienza della propria umiliazione; dal fatto che tu stesso senti di avere toccato il fondo; che è brutto, ma che non può essere altrimenti; che ormai non hai scampo, che non diventerai mai più un altro uomo; che se anche ti restassero ancora tempo e fede per trasformarti in qualcosa di diverso, probabilmente saresti tu a non volerti trasformare; e se poi lo volessi, non faresti comunque nulla, perché forse non c’è nulla, in realtà, in cui valga la pena di trasformarsi. Ma l’argomento principale e definitivo è che tutto ciò accade per le normali e fondamentali leggi della coscienza ipertrofica e per l’inerzia che da quelle leggi direttamente deriva, e di conseguenza qui non solo è impossibile trasformarsi, ma semplicemente non c’è niente da fare. Risulta, per esempio, in conseguenza della coscienza ipertrofica, che hai ragione a dichiararti un vigliacco, come se fosse una consolazione per il vigliacco il percepire lui stesso di essere davvero un vigliacco. Ma basta... Eh, ho scritto un sacco di sciocchezze, ma cosa ho spiegato?.. Come si spiega dunque il piacere? Ma mi spiegherò! Ne verrò a capo, nonostante tutto! Proprio per questo ho preso in mano la penna...
Io, per esempio, ho un terribile amor proprio. Sono sospettoso e permaloso come un gobbo o un nano, ma davvero ho avuto dei momenti in cui, se mi fosse accaduto di ricevere uno schiaffo, forse ne sarei stato perfino contento. Lo dico seriamente: certo avrei saputo trovare anche qui una sorta di piacere; s’intende, il piacere della disperazione, ma proprio nella disperazione sono possibili le più ardenti voluttà, soprattutto quando più intensa è la consapevolezza che la tua situazione è senza via d’uscita. Ma, tornando allo schiaffo, quel che ti schiaccia qui è la coscienza della poltiglia in cui ti hanno ridotto. E soprattutto, per quanto ci arzigogoli sopra, risulta comunque che il primo colpevole di tutto sono sempre io e, ciò che è più increscioso, colpevole senza colpa o, per così dire, secondo le leggi di natura. Colpevole in primo luogo perché sono più intelligente di tutti quelli che mi circondano. (Mi sono sempre considerato più intelligente di tutti quelli che mi circondavano, e talvolta, lo credereste?, me ne vergognavo perfino. Per lo meno, per tutta la vita ho guardato un po’ di sbieco e non ho mai potuto fissare la gente dritto negli occhi.) Infine, colpevole perché se anche in me ci fosse della magnanimità, avrei solo maggior tormento per la consapevolezza di tutta la sua inutilità. Infatti probabilmente non riuscirei a farci nulla, della mia magnanimità: né perdonare, perché l’offensore, forse, mi ha colpito secondo le leggi di natura, e non si può perdonare alle leggi di natura; né dimenticare, perché anche se sono leggi di natura, offendono ugualmente. Infine, se anche volessi essere tutt’altro che magnanimo, anzi volessi vendicarmi dell’offensore, anche allora non riuscirei a vendicarmi di nessuno, perché, probabilmente, non mi deciderei ad agire, anche potendo. Perché non mi deciderei? Sull’argomento voglio dirvi due parole a parte.

III

Infatti, come accade, per esempio, agli uomini che sanno vendicarsi e in generale farsi valere? Appena li sopraffà, poniamo, il sentimento di vendetta, per un certo tempo nel loro essere non resta nient’altro che quel sentimento. Un tale individuo ormai punta dritto allo scopo come un toro infuriato, abbassando le corna, e forse solo un muro riesce a fermarlo. (A proposito: davanti a un muro tali individui, cioè gli uomini immediati e d’azione, si danno sinceramente per vinti. Per loro il muro non è una scusa, come ad esempio per noi, uomini pensanti, e di conseguenza nullafacenti; non un pretesto per fare marcia indietro, pretesto al quale noialtri di solito non crediamo nemmeno, ma di cui ci rallegriamo sempre tanto. No, essi si danno per vinti con tutta sincerità. Il muro ha per loro qualcosa di tranquillizzante, moralmente assolutorio e definitivo, forse perfino qualcosa di mistico... Ma del muro più avanti.) Ebbene, io considero tale uomo immediato un uomo autentico, normale, come voleva vederlo la stessa tenera madre natura, mettendolo amabilmente al mondo. Io quell’uomo lo invidio con rancore bilioso. Egli è stupido, non ne discuto con voi, ma forse l’uomo normale dev’essere appunto stupido, che ne sapete? Forse la cosa è perfino molto bella. E di questo, per così dire, sospetto, sono tanto più convinto in quanto se prendiamo, per esempio, l’antitesi dell’uomo normale, cioè l’uomo ipercosciente, uscito ovviamente non dal grembo della natura, ma da una storta (qui rasentiamo il misticismo, signori, ma io sospetto anche questo), quest’uomo della storta certe volte si sente talmente inferiore alla sua antitesi, che in coscienza, con tutta la sua coscienza ipertrofica, si considera un topo, e non un uomo. Sia pure un topo ipercosciente, ma pur sempre un topo, mentre lì c’è un uomo, e di conseguenza... e così via. E soprattutto è lui, di sua spontanea volontà, che si considera un topo; nessuno glielo chiede; e questo è un punto importante. Osserviamo ora questo topo in azione. Supponiamo, per esempio, che anch’esso sia offeso (ed è quasi sempre offeso) e anch’esso desideri vendicarsi. Di rancore in lui, forse, se ne accumula ancor più che nell’homme de la nature et de la vérité. Il turpe, basso desideriuzzo di render male per male all’offensore gli prude dentro ancor più turpemente che nell’homme de la nature et de la vérité, perché l’homme de la nature et de la vérité, per la sua innata stupidità, considera la propria vendetta né più né meno che giustizia; mentre il topo, per via della coscienza ipertrofica, nega questa giustizia. Arriva finalmente al punto, all’atto stesso della vendetta. Il disgraziato topo, oltre alla porcheria iniziale, ha già fatto in tempo a seminare intorno a sé, sotto forma di interrogativi e di dubbi, un mucchio di altre porcherie; al primo interrogativo ha aggiunto tanti interrogativi irrisolti, che inevitabilmente attorno a lui si raduna una sorta di fatale brodaglia, di fetida melma, costituita dai suoi dubbi e turbamenti, nonché, infine, dagli sputi che gli cadono addosso da parte degli uomini immediati e d’azione, i quali lo circondano solennemente in qualità di giudici e despoti e sghignazzano di gusto di lui. S’intende, non gli resta che fare una mossa di rinuncia con la sua zampetta e poi, con un sorriso di finto disprezzo al quale lui per primo non crede, sgusciare ignominiosamente nel suo buco. Là, nel suo schifoso, fetido sottosuolo, il nostro topo offeso, percosso e deriso si immerge subito in un rancore freddo, velenoso e, soprattutto, eterno. Per quarant’anni di fila ricorderà la sua onta fino agli ultimi, più vergognosi particolari, aggiungendoci ogni volta da parte sua dei particolari ancora più vergognosi, stuzzicandosi malignamente e irritandosi con la sua stessa fantasia. Sarà il primo a vergognarsi della sua fantasia, e tuttavia continuerà a ricordare, a rivangare, inventerà contro di sé un sacco di storie, col pretesto che anche quelle avrebbero potuto succedere, e non perdonerà nulla. Magari comincerà anche a vendicarsi, ma in modo discontinuo, in piccolezze, nascondendo la mano, in incognito, senza credere né al proprio diritto di vendicarsi, né al successo della vendetta, e sapendo in anticipo che per tutti i suoi tentativi di vendicarsi soffrirà cento volte più di chi intende punire, mentre a quello, magari, non farà né caldo né freddo. Sul letto di morte di nuovo ricorderà ogni cosa, con gli interessi accumulatisi in tutto quel tempo e... Ma ecco, proprio in questa fredda, disgustosa mezza disperazione e mezza fede, in questo cosciente seppellirsi vivo per il dolore, nel sottosuolo per quarant’anni, in questa situazione senza via d’uscita, forzatamente costruita e tuttavia in parte sospetta, in tutto questo veleno di desideri frustrati, interiorizzati, in tutta questa febbre di tentennamenti, di decisioni prese per l’eternità e di pentimenti che sopravvengono un attimo dopo - qui si racchiude il succo di quello strano piacere di cui ho parlato. È così sottile, talvolta così sfuggente alla coscienza, che gli uomini appena un po’ limitati o addirittura semplicemente gli uomini dai nervi saldi non ci capiranno assolutamente nulla. “Forse”, aggiungerete da parte vostra, con un largo sorriso, “non capiranno neppure quelli che non hanno mai ricevuto schiaffi”, e in tal modo alluderete garbatamente al fatto che, forse, anch’io in vita mia ho sperimentato uno schiaffo, e perciò ne parlo con cognizione di causa. Scommetto che lo pensate. Ma tranquillizzatevi, signori, non ho mai ricevuto schiaffi, benché mi sia assolutamente indifferente come la pensiate in proposito. Anzi, magari rimpiango piuttosto di aver distribuito pochi schiaffi in vita mia. Ma basta, non una parola di più su questo argomento straordinariamente interessante per voi.
Continuo tranquillamente a parlare delle persone dai nervi saldi, che non comprendono certe raffinatezze del piacere. Questi signori, anche se in determinati casi, per esempio, muggiscono come tori, a squarciagola, e magari ciò, supponiamo, fa loro grandissimo onore, tuttavia, come ho già detto, dinanzi all’impossibilità si rassegnano subito. L’impossibilità, vale a dire un muro di pietra? Quale muro di pietra? Ma è chiaro, le leggi di natura, le deduzioni delle scienze naturali, la matematica. Così se ti dimostrano, ad esempio, che discendi dalla scimmia, è inutile fare smorfie, prendila com’è. Così se ti dimostrano che, in sostanza, una gocciolina del tuo grasso dev’esserti più cara di centomila tuoi simili e che a questo risultato, alla fine, si ridurranno tutte le cosiddette virtù e i doveri e le altre farneticazioni e i pregiudizi, ormai devi accettarlo, non c’è niente da fare, perché due più due è matematica. Provate un po’ a obiettare.
“Ma scusate”, vi grideranno, “non ci si può mica ribellare: è come due più due fa quattro! La natura non vi interpella; a lei non interessano i vostri desideri e se vi piacciano o no le sue leggi. Voi siete obbligati ad accettarla com’è, e ad accettare di conseguenza anche tutti i suoi risultati. Un muro, quindi, è un muro... eccetera, eccetera”. Signore Iddio, ma che me ne importa delle leggi della natura e dell’aritmetica, quando per qualche motivo queste leggi e il due più due fa quattro non mi piacciono? S’intende, non sfonderò quel muro a testate, se veramente non avrò le forze per farlo, ma neppure mi ci rassegnerò solo perché ho davanti un muro di pietra e non mi sono bastate le forze.
Come se un simile muro di pietra potesse veramente tranquillizzare e veramente racchiudesse in sé almeno una qualche parola di pace per il semplice fatto che è come due più due fa quattro. O assurdità delle assurdità! Molto meglio capire tutto, esser coscienti di tutto, di tutte le impossibilità e i muri di pietra, ma non rassegnarsi a nessuna di queste impossibilità e muri di pietra, se vi ripugna rassegnarvi; arrivare attraverso le più inevitabili combinazioni logiche fino alle conclusioni più ripugnanti sull’eterno tema che perfino di questo muro di pietra devi essere in qualche modo colpevole tu, anche se di nuovo è evidente e lampante che colpevole non sei affatto; e in conseguenza di ciò, tacendo e digrignando impotente i denti, voluttuosamente rattrappirti nell’inerzia, fantasticando che, a quanto risulta, non hai neppure con chi arrabbiarti; che non si trova un oggetto, e forse non si troverà mai, che qui c’è una sostituzione, un trucco, una truffa, che qui c’è semplicemente una brodaglia - non si sa perché e per chi, ma nonostante tutte le cose ignote e i trucchi, il dolore c’è pur sempre, e quanto meno se ne sa, tanto più fa soffrire!

IV

«Ah-ah-ah! Ma di questo passo lei troverà piacere anche in un mal di denti!», esclamerete ridendo.
«E perché no? Anche nel mal di denti c’è un piacere», risponderò. Per un mese intero ho sofferto di mal di denti; so cosa vuol dire. Qui, naturalmente, non ci si rode in silenzio, ma si geme; eppure questi gemiti non sono sinceri, sono gemiti con malizia, e proprio nella malizia è tutto il nocciolo. Proprio in questi gemiti si esprime il piacere del sofferente; se non vi provasse piacere non starebbe neppure a gemere. Questo è un buon esempio, signori, e lo svilupperò. In questi gemiti si esprime, in primo luogo, tutta l’inutilità del vostro dolore, così umiliante per la nostra coscienza; tutta la legittimità della natura, della quale, ovviamente, vi infischiate, ma per la quale comunque soffrite, mentre lei no. Si esprime la consapevolezza che non potete trovare un nemico, ma che il dolore c’è; la consapevolezza che voi, malgrado tutti i Wagenheim possibili e immaginabili, siete completamente schiavi dei vostri denti; che se qualcuno lo vorrà, smetteranno di farvi male, e se non vorrà, vi faran male per altri tre mesi; e che, infine, se continuate a non essere d’accordo, e nonostante tutto protestate, per vostra consolazione non vi resta altro che frustarvi da soli o picchiare dolorosissimi pugni contro quel vostro muro, e decisamente nient’altro. Ebbene, proprio da queste sanguinose offese, da queste beffe, non si sa di chi, nasce infine il piacere, che giunge talvolta fino alla suprema voluttà. Vi prego, signori, di prestare ascolto, una volta o l’altra, ai gemiti di un uomo istruito del diciannovesimo secolo, che soffre di mal di denti, diciamo al secondo o terzo giorno di malattia, quando comincia ormai a gemere non come gemeva il primo giorno, cioè non semplicemente perché gli fanno male i denti; non come un rozzo contadino, ma come geme un uomo toccato dal progresso e dalla civiltà europea, un uomo “che ha rinnegato la terra e i principi popolari”, come ci si esprime adesso. I suoi gemiti diventano brutti, sconci e maligni e continuano per giorni e notti intere. Eppure lo sa anche lui che con i gemiti non risolverà nulla; sa meglio di chiunque che non fa che logorare e irritare inutilmente se stesso e gli altri; sa che perfino il pubblico dinanzi al quale si dà tanto da fare, e tutta la sua famiglia lo ascoltano già con ripugnanza, non gli credono neanche un po’ e capiscono in cuor loro che potrebbe gemere in modo diverso, più semplice, senza gorgheggi e senza contorcimenti, e che fa capricci così solo per cattiveria, per malizia. Ma ecco, proprio in tutte queste consapevolezze e vergogne consiste la voluttà. Come a dire: “Io vi disturbo, vi spezzo il cuore, non lascio dormire nessuno in casa. E allora non dormite, sentite dunque anche voi in ogni momento che ho mal di denti. Ormai per voi non sono un eroe, quale prima volevo apparire, ma semplicemente un uomo un po’ schifoso, un volgare mascalzoncello. Ebbene sì! Sono molto contento che mi abbiate capito, finalmente. Vi disturba ascoltare i miei gemiti vigliacchi? Che vi disturbi pure; adesso vi farò un gorgheggio ancora più brutto...”. Non capite neppure ora, signori? No, si vede che bisogna evolversi profondamente e sviluppare fino in fondo la coscienza, per capire tutte le tortuosità di questa voluttà! Ridete? Felicissimo. I miei scherzi, signori, sono naturalmente di cattivo gusto, ineguali, incoerenti, poco convinti. Ma ciò deriva dal fatto che io stesso non mi rispetto. Può forse un uomo cosciente avere il minimo rispetto di sé?

V

Ma può forse, può forse avere il minimo rispetto di sé un uomo che è riuscito a trovare piacere perfino nel sentimento della propria umiliazione? Non dico così per uno stucchevole pentimento. E in generale trovavo insopportabile dire: «Perdono, paparino, non lo farò più», non perché fossi incapace di dirlo, ma al contrario, forse proprio perché ne ero fin troppo capace; e come, poi? Neanche a farlo apposta, ci incappavo proprio nei casi in cui non avevo nessunissima colpa. E questa era la cosa più disgustosa. Ma ciò non toglie ch’io m’intenerissi nell’animo, mi pentissi, versassi lacrime e, naturalmente, ingannassi me stesso, anche se non fingevo affatto. Era il cuore che giocava sporchi tiri... Qui poi non si potevano neanche incolpare le leggi di natura, benché comunque le leggi di natura mi abbiano offeso continuamente e più di ogni altra cosa per tutta la vita. È disgustoso ricordare tutto ciò, ma anche allora era disgustoso. Infatti capitava che già un minuto dopo mi rendessi conto con rabbia che tutto ciò era menzogna, menzogna, una ripugnante, ipocrita menzogna, cioè tutti quei pentimenti, tutte quelle commozioni, tutte quelle promesse di rinascita. Chiedete perché mi straziavo e torturavo così? Risposta: perché mi annoiavo assai a restar seduto con le mani in mano; e allora mi davo ai contorcimenti. Davvero, è così. Osservatevi meglio, signori, e allora capirete che è così. Mi inventavo da solo delle avventure e mi immaginavo una vita, per vivere almeno in qualche modo. Quante volte mi è capitato - be’, per esempio, di offendermi così, senza un motivo, di proposito; e pur sapendo da me, magari, che mi ero offeso senza motivo, che avevo recitato, mi esasperavo a un punto tale che finivo con l’offendermi sul serio. Chissà come, per tutta la vita sono stato attratto da questi giochini, tanto che alla fine ormai ho perso il controllo su di me. Un’altra volta ho voluto innamorarmi a forza, anzi ben due volte. E soffrivo, signori, ve l’assicuro. In fondo all’anima non riesco a credere di soffrire, si ridesta lo scherno, e tuttavia soffro, e oltretutto in modo vero, autentico; sono geloso, perdo la testa... E tutto per noia, signori, tutto per noia; l’inerzia mi soffocava. Infatti il frutto diretto, legittimo, naturale della coscienza è l’inerzia, cioè un cosciente star con le mani in mano. L’ho già accennato sopra. Ripeto, ripeto con più forza: tutti gli uomini immediati e d’azione sono attivi proprio perché ottusi e limitati. Come lo si può spiegare? Ecco come: per colpa della loro limitatezza scambiano le cause dirette e secondarie per cause prime, in tal modo si convincono più in fretta e facilmente degli altri di aver trovato un fondamento inconfutabile alla propria opera, e così si tranquillizzano; il che è essenziale. Perché per cominciare ad agire bisogna che si sia preventivamente del tutto tranquilli, e che non resti più alcun dubbio. Ma io, per esempio, come posso tranquillizzarmi? Dove sono per me le cause prime a cui appoggiarmi, dove le fondamenta? Dove andrò a prenderle? Mi esercito nella riflessione, e di conseguenza per me ogni causa prima se ne trascina dietro un’altra, ancora precedente, e così via all’infinito. Proprio questa è l’essenza di ogni coscienza e di ogni riflessione. Quindi siamo daccapo alle leggi di natura. Qual è infine il risultato? Ma sempre lo stesso. Ricordate: poco sopra ho parlato della vendetta. (Probabilmente non ci avete riflettuto.) Ho detto: l’uomo si vendica perché vede in questo la giustizia. Dunque, ha trovato la causa prima, ha trovato il fondamento, ovverosia la giustizia. Quindi è tranquillo da tutti i lati, e di conseguenza si vendica tranquillamente ed efficacemente, essendo convinto di fare una cosa onesta e giusta. Mentre io qui di giustizia non ne vedo, e anche di virtù non ce ne trovo alcuna, e di conseguenza, se mi metterò a vendicarmi, sarà forse soltanto per cattiveria. La cattiveria, naturalmente, potrebbe vincere tutto, tutti i miei dubbi e, dunque, potrebbe assai efficacemente fungere da causa prima, proprio perché non è una causa. Ma che farci, se non ho neppure cattiveria (prima avevo cominciato proprio da questo)? Il rancore, in me, di nuovo in conseguenza di quelle maledette leggi della coscienza, è soggetto a decomposizione chimica. Guardi e l’oggetto si volatilizza, le ragioni evaporano, il colpevole non si trova, l’offesa diventa non offesa ma fato, qualcosa come il mal di denti, di cui nessuno è colpevole, e di conseguenza ancora una volta non resta che la solita via d’uscita, cioè picchiare dolorosissimamente contro il muro. E allora lasci perdere, giacché non hai trovato la causa prima. Ma prova un po’ a lasciarti trascinare ciecamente dal tuo sentimento, senza ragionamenti, senza una causa prima, scacciando la coscienza almeno per il momento; odia oppure ama, pur di non stare con le mani in mano. Dopodomani, al più tardi, comincerai a odiarti perché ti sei consapevolmente preso in giro. Risultato: una bolla di sapone e l’inerzia. Oh, signori, forse io mi considero un uomo intelligente solo perché per tutta la vita non ho potuto iniziare né concludere nulla. Sia pure, sia pure, sono un chiacchierone, un chiacchierone innocuo e molesto, come tutti noi. Ma che farci mai, se il destino immediato e unico di qualsiasi persona intelligente è la chiacchiera, cioè un deliberato pestare acqua nel mortaio?

VI

Oh, se non facessi nulla solo per pigrizia! Signore, come mi rispetterei allora. Mi rispetterei proprio perché se non altro sarei in grado di avere in me la pigrizia; in me ci sarebbe almeno una qualità in un certo senso positiva, di cui io stesso sarei convinto. Domanda: chi è? Risposta: un fannullone; sarebbe proprio piacevolissimo sentirlo dire sul mio conto. Significa che sono positivamente definito, significa che di me si può dir qualcosa. “Fannullone!”: ma questo è un titolo e un destino, è una carriera, signori. Non scherzate, è così. Allora sono membro di diritto di un circolo di primissimo ordine, e mi occupo solo di rispettarmi senza interruzione. Ho conosciuto un signore che per tutta la vita fu orgoglioso di essere un intenditore di Lafitte. La considerava una sua dote positiva e non dubitava mai di sé. Morì con la coscienza non solo tranquilla, ma trionfante, e aveva perfettamente ragione. E allora io mi sceglierei questa carriera: sarei un fannullone e un mangione, ma non semplice, bensì, diciamo, sensibile a ogni cosa sublime ed elevata. Che ve ne pare? È un’idea che ho avuto tanto tempo fa. Questo “sublime ed elevato” mi ha proprio schiacciato fortemente la nuca ora che ho quarant’anni; ma questo a quarant’anni, mentre allora - oh, allora sarebbe stato diverso! Allora mi sarei trovato subito un’attività corrispondente, e cioè: bere alla salute di tutto ciò che è sublime ed elevato. Mi sarei attaccato a ogni pretesto per versare prima una lacrima nel mio bicchiere, e poi scolarlo brindando a ogni cosa sublime ed elevata. Allora avrei trasformato in sublime ed elevata ogni cosa al mondo; nella più turpe, innegabile sozzura avrei scovato il sublime e l’elevato. Sarei diventato lacrimoso come una spugna bagnata. Un pittore, per esempio, ha dipinto un quadro orrendo. Subito bevo alla salute del pittore che ha dipinto quel quadro, perché amo tutto ciò che è sublime ed elevato. Un autore ha scritto un articolo mediocre; subito bevo alla salute della mediocrità, perché amo tutto ciò che è “sublime ed elevato”. Per questo pretenderò rispetto, e perseguiterò chi non me ne porterà. Vivo tranquillamente, muoio trionfalmente - ma è una delizia, proprio una delizia! E allora mi sarei messo su una pancia tale, mi sarei fatto un tale triplo mento, un tale naso rosso mi sarei procurato, che chiunque avessi incontrato avrebbe detto, guardandomi: «Questo sì è super! Questo sì è davvero positivo!». E dite quel che volete, è piacevolissimo sentire simili commenti nel nostro secolo negativo, signori.

VII

Ma tutti questi sono sogni dorati. Oh, dite, chi è stato il primo a dichiarare, chi il primo a proclamare che l’uomo commette infamie solo perché non conosce i suoi veri interessi; e che se lo si illuminasse, gli si aprissero gli occhi sui suoi autentici, naturali interessi, subito l’uomo smetterebbe di commettere infamie, subito diventerebbe buono e nobile, perché, essendo illuminato e comprendendo il suo vero tornaconto, lo vedrebbe appunto nel bene, e si sa che nessun uomo può agire consapevolmente contro il proprio tornaconto, perciò di conseguenza, per così dire di necessità, comincerebbe a fare il bene? Oh bambino! Oh puro, innocente fanciullo! Ma quando mai, in primo luogo, è accaduto, in tutti questi millenni, che l’uomo agisse soltanto per il proprio tornaconto? Che fare dei milioni di fatti che testimoniano di come gli uomini consapevolmente, cioè comprendendo benissimo i propri veri interessi, li abbiano lasciati in secondo piano e si siano avventurati su un’altra strada, al rischio, all’azzardo, senza che nulla e nessuno li costringesse, ma proprio come se rifiutassero appunto la strada indicata, e caparbiamente, indipendentemente volessero aprirsene un’altra, difficile, assurda, cercandola quasi al buio. Dunque significa che davvero questa caparbietà e indipendenza li appagavano più di qualsiasi vantaggio... Il vantaggio! Che cos’è il vantaggio? Ma ve la sentireste di definire con tutta esattezza in cosa consista precisamente il vantaggio per l’uomo? E se accadrà che il vantaggio per l’uomo talvolta non solo possa, ma addirittura debba consistere nell’augurarsi in determinati casi il male, e non l’utile? Ma se è così, se solo può darsi questo caso, allora tutta la regola va in fumo. Che ne pensate, può verificarsi un caso simile? Voi ridete; ridete, signori, però rispondete: sono calcolati del tutto esattamente i vantaggi umani? Non ve ne sono di quelli che non solo non rientrano, ma neppure possono rientrare in alcuna classificazione? Voi infatti, signori, per quanto io sappia, avete ricavato tutta la vostra lista dei vantaggi umani dalla media dei dati statistici e delle formule della scienza economica. Infatti i vostri vantaggi sono il benessere, la ricchezza, la libertà, la tranquillità, eccetera, eccetera; cosicché l’uomo che, per esempio, andasse chiaramente e deliberatamente contro tutta questa lista, sarebbe, secondo voi, ma sì, naturalmente anche secondo me, un oscurantista o un pazzo completo, non è così? Ma ecco cos’è stupefacente: perché avviene che tutti questi esperti di statistica, saggi e amanti del genere umano, nel calcolare i vantaggi umani ne tralascino costantemente uno? Non lo prendono nemmeno in considerazione nella forma in cui si dovrebbe, mentre da ciò dipende tutto il calcolo. Non sarebbe un gran problema prenderlo, questo vantaggio, e inserirlo nell’elenco. Ma proprio qui sta la disgrazia, che questo bizzarro vantaggio non entra in nessuna classificazione, non trova posto in nessuna lista. Io, per esempio, ho un amico... Eh, signori! Ma lui è amico anche vostro; e del resto di chi, di chi mai non è amico! Preparandosi all’azione, questo signore vi esporrà subito, ampollosamente e chiaramente, come appunto deve agire secondo le leggi della ragione e della verità. Non basta: con emozione e trasporto vi parlerà dei veri, normali interessi umani; con sarcasmo rimprovererà i miopi sciocchi che non comprendono né il proprio tornaconto, né il vero significato della virtù; ed esattamente un quarto d’ora dopo, senza alcun pretesto improvviso, estraneo, ma proprio per qualcosa di interno, che è più forte di tutti i suoi interessi, suonerà tutt’altra musica, cioè andrà chiaramente contro ciò di cui ha parlato lui stesso: sia contro le leggi della ragione, sia contro il proprio tornaconto, be’, in una parola, contro tutto... Avverto che il mio amico è un personaggio collettivo, e perciò è un po’ difficile incolpare lui solo. Proprio questo è il punto, signori: non esisterà dunque un qualcosa che quasi ogni uomo ha più caro dei suoi più preziosi interessi, oppure (per non venir meno alla logica) non ci sarà un vantaggio supremo (proprio quello tralasciato, di cui abbiamo appena parlato), che è più importante e più vantaggioso di tutti gli altri vantaggi e per il quale l’uomo, se necessario, è pronto ad andare contro tutte le leggi, cioè contro la ragione, l’onore, la tranquillità, il benessere - in una parola, contro tutte quelle cose belle e utili, pur di ottenere quel supremo vantaggio primigenio, che gli è più caro di tutto il resto?
«Be’, pur sempre di vantaggio si tratta», mi interrompete voi. Permettete, signori, ora ci spieghiamo, e poi non si tratta di un calembour, ma del fatto che questo vantaggio è notevole proprio perché distrugge tutte le nostre classificazioni e scombina continuamente tutti i sistemi elaborati dagli amanti del genere umano per la felicità di quest’ultimo. In una parola, ostacola tutto. Ma prima di dare un nome a questo vantaggio, voglio compromettermi di persona e perciò dichiaro arditamente che tutti questi bellissimi sistemi, tutte queste teorie che spiegano all’umanità i suoi veri, normali interessi affinché essa, tendendo necessariamente a raggiungerli, diventi subito buona e nobile, per il momento, secondo la mia opinione, sono semplici sofismi! Sissignori, sofismi! Infatti, affermare anche solo questa teoria del rinnovamento di tutto il genere umano grazie al sistema del suo tornaconto, equivale, secondo me, a... diciamo affermare, per esempio, con Buckle, che per effetto della civiltà l’uomo si ingentilisce, di conseguenza diventa meno sanguinario e meno incline alla guerra. Proprio secondo la logica, infatti, Buckle pare pervenire a questo risultato. Ma l’uomo ha tanta passione per il sistema e la deduzione astratta, che è disposto ad alterare deliberatamente la verità, è disposto a non vedere e non sentire, pur di giustificare la propria logica. Prendo questo esempio proprio perché è un esempio troppo lampante. Ma guardatevi attorno: il sangue scorre a fiumi, e oltretutto in maniera così allegra, come fosse champagne. Eccovi tutto il nostro diciannovesimo secolo, in cui è vissuto anche Buckle. Eccovi Napoleone - sia il grande, sia quello di oggi. Eccovi l’America del Nord - l’eterna Confederazione. Eccovi, infine, il caricaturale Schleswig-Holstein... E che cosa ingentilisce in noi la civiltà? La civiltà elabora nell’uomo solo una multiformità di sensazioni e... decisamente nient’altro. Anzi, attraverso lo sviluppo di questa multiformità l’uomo forse arriverà al punto di trovare piacere nel sangue. Questo infatti gli è già capitato. Avete notato che i sanguinari più raffinati erano quasi sempre dei signori più che civili, di cui certe volte tutti i vari Attila e Sten’ka Razin non valevano le suole delle scarpe; e se non balzano agli occhi violentemente come Attila e Sten’ka Razin, è proprio perché s’incontrano troppo spesso, sono troppo comuni, perfino scontati. O almeno, per effetto della civiltà l’uomo è diventato, se non più sanguinario, certamente sanguinario in modo peggiore, più abietto di prima. Prima vedeva nello spargimento di sangue un atto di giustizia, e con la coscienza tranquilla sterminava chi bisognava; adesso, invece, anche se consideriamo lo spargimento di sangue una nefandezza, tuttavia la pratichiamo, e ancor più di prima. Che cos’è peggio? Decidete voi. Dicono che Cleopatra (perdonate l’esempio tratto dalla storia romana) amasse conficcare spilloni d’oro nel seno delle sue schiave e ricavasse piacere dalle loro grida e contorcimenti. Direte che ciò accadeva in tempi barbarici, relativamente parlando; che anche i nostri sono tempi barbarici, perché anche adesso (sempre relativamente parlando) si conficcano gli spilloni; che anche adesso, pur avendo imparato a vederci talvolta più chiaro che nei tempi barbarici, l’uomo è ancor lungi dall’essersi abituato ad agire così come gli suggeriscono la ragione e le scienze. E tuttavia siete assolutamente convinti che si abituerà senz’altro, quando saranno passate del tutto certe vecchie, cattive abitudini e quando il buon senso e la scienza avranno completamente rieducato e orientato normalmente la natura umana. Siete convinti che allora l’uomo cesserà volontariamente di sbagliare e, per così dire, automaticamente non vorrà disgiungere la sua volontà dai suoi normali interessi. Non basta: allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suo volere, ma da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora, usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure.
Allora - siete sempre voi a parlare - subentreranno nuovi rapporti economici, già belli e pronti e calcolati con la stessa precisione matematica, cosicché in un attimo tutte le possibili domande spariranno, proprio perché riceveranno tutte le possibili risposte. Allora si costruirà il palazzo di cristallo. Allora... Ebbene, in una parola, allora giungerà l’uccello Kagan. Ovviamente non si può affatto garantire (e questo ormai sono io a dirlo) che allora, per esempio, non ci si annoierà da morire (perché che mai resterà da fare, quando tutto sarà calcolato secondo una tabella?), ma in compenso tutto sarà estremamente razionale. Naturalmente, cosa non si inventa per la noia! Perché per la noia si conficcano anche gli spilloni d’oro, ma questo non sarebbe ancor nulla. Il brutto è (sono di nuovo io che parlo) che magari, chi lo sa, degli spilloni allora ci rallegreremo. Infatti l’uomo è stupido, stupido in maniera fenomenale. Cioè, anche se è tutt’altro che stupido, è però talmente ingrato, che a cercarne uno simile non lo si troverebbe. Io, per esempio, non mi stupirò affatto, se a un tratto, di punto in bianco, in mezzo alla futura razionalità universale salterà fuori un qualche gentleman dalla fisionomia poco nobile o, per meglio dire, retrograda e beffarda, punterà le mani sui fianchi e dirà a tutti noi: «Ebbene, signori, che ne direste di dare un calcio e buttare all’aria tutta questa razionalità in un colpo solo, con l’unico scopo di mandare al diavolo tutti questi logaritmi e poter di nuovo vivere secondo la nostra stupida volontà?». E questo non sarebbe ancora niente, ma la cosa offensiva è che troverebbe senz’altro dei seguaci: l’uomo è fatto così. E tutto ciò per un insulsissimo motivo che apparentemente non varrebbe neppure la pena di menzionare: e cioè perché l’uomo, sempre e ovunque, chiunque fosse, ha amato agire così come voleva, e non come gli ordinavano la ragione e il tornaconto; infatti si può volere anche contro il proprio tornaconto, anzi talvolta decisamente si deve (questa è già una mia idea). La propria voglia, arbitraria e libera, il proprio capriccio, anche il più selvaggio, la propria fantasia, eccitata a volte fino alla follia: tutto ciò è proprio quel vantaggio supremo e tralasciato, che sfugge a qualsiasi classificazione e per colpa del quale tutti i sistemi e le teorie vanno costantemente a farsi benedire. E chi l’ha detto a tutti quei saggi che l’uomo ha bisogno di una volontà normale, virtuosa? Come hanno immaginato con tanta sicurezza che l’uomo abbia bisogno per forza di una volontà razionalmente vantaggiosa? L’uomo ha bisogno soltanto di una volontà autonoma, per quanto possa costare questa autonomia e a qualsiasi conseguenza porti. Ma anche la volontà, lo sa il diavolo...

VIII

«Ah-ah-ah! Ma anche la volontà, in sostanza, se volete non esiste!», interrompete voi con una risata. «La scienza ha già fatto in tempo a dissezionare l’uomo a tal punto che ormai ci è noto che la volontà e il cosiddetto libero arbitrio non sono altro che...».
«Aspettate, signori, io stesso volevo cominciare così. Confesso che mi ero perfino spaventato. Poco fa volevo urlare che la volontà lo sa il diavolo da cosa dipende e che questa, forse, è una gran fortuna, ma mi sono ricordato appunto della scienza e... mi sono bloccato. E a quel punto avete attaccato a parlarne voi. Infatti, be’, se realmente si troverà un giorno la formula di tutte le nostre voglie e capricci, cioè da cosa dipendano, per quali leggi esattamente si determinino, come esattamente si diffondano, dove tendano nel tal caso e nell’altro, eccetera, eccetera, cioè la vera formula matematica, allora l’uomo, forse, smetterà subito di volere, anzi smetterà sicuramente. Ma che gusto c’è a volere secondo una tabella? E non basta: subito si trasformerà da uomo in puntina d’organetto o qualcosa del genere; perché cos’è l’uomo senza desideri, senza libertà e senza volontà, se non una puntina nel cilindro di un organetto? Che ne pensate? Calcoliamo le probabilità: può succedere oppure no?».
«Hmm...», ragionate voi, «le nostre volontà sono per la maggior parte errate perché abbiamo un concetto errato dei nostri interessi. A volte vogliamo un’autentica sciocchezza proprio perché in questa sciocchezza vediamo, per la nostra stupidità, la via più facile per raggiungere un qualche presunto vantaggio. Ma quando tutto ciò sarà chiarito, calcolato sulla carta (il che è possibilissimo, essendo disgustoso e assurdo credere in anticipo che l’uomo non conoscerà mai alcune leggi della natura), allora è chiaro che non esisteranno più i cosiddetti desideri. Infatti, se un giorno la volontà se l’intenderà completamente con la ragione, a quel punto noi non vorremo più, bensì ragioneremo, proprio perché non si può, per esempio, conservando la ragione, volere un’assurdità e in tal modo andare scientemente contro la ragione e desiderare ciò che ci nuoce... E dal momento che tutte le volontà e i ragionamenti possono essere effettivamente catalogati, perché un giorno saranno pur scoperte le leggi del nostro cosiddetto libero arbitrio, dunque, scherzi a parte, si potrà davvero compilare una specie di tabella, sicché noi realmente vorremo secondo quella tabella. Infatti, se a me, per esempio, un giorno calcoleranno e dimostreranno che se ho fatto un gestaccio a un tale, è proprio perché non potevo non farlo, e che dovevo mostrargli proprio quel tal dito, allora che cosa resterà di libero in me, soprattutto se sono uno studioso e ho terminato un corso scientifico in qualche università? Perché allora posso calcolare tutta la mia vita in anticipo per i prossimi trent’anni; in una parola, se ciò si organizzerà, a noi non resterà nulla da fare; comunque bisognerà accettarlo. E in generale dobbiamo ripeterci, senza stancarci, che in quel determinato momento e in quelle determinate circostanze la natura non ci interpella affatto; che bisogna accettarla così com’è, e non secondo le nostre fantasie, e che se davvero aspiriamo alla tabella e al calendario, e... ma sì, magari anche alla storta, non c’è nulla da fare, bisogna accettare anche la storta! Altrimenti ci penserà lei ad accettarsi, senza di voi...».
«Sissignore, ma proprio qui per me sta il busillis! Signori, scusatemi se mi sono messo a filosofeggiare; qui ci sono quarant’anni di sottosuolo! Permettete che fantastichi un po’. Vedete, signori: la ragione è una buona cosa, questo è indubbio, ma la ragione è solo ragione e soddisfa soltanto la facoltà raziocinante dell’uomo, mentre la volontà è manifestazione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana, sia con la ragione che con tutti i pruriti. E benché in questa manifestazione la nostra vita si riduca spesso a una porcheriola, tuttavia è vita, e non soltanto l’estrazione di una radice quadrata. Io infatti, per esempio, del tutto naturalmente voglio vivere per soddisfare tutte le mie facoltà vitali, e non per soddisfare soltanto la mia facoltà raziocinante, cioè forse una ventesima parte di tutte le mie facoltà vitali. Che cosa sa la ragione? La ragione sa solo quel che ha fatto in tempo a conoscere (altro, forse, non saprà mai; anche se non è consolante, perché nasconderlo?), mentre la natura umana agisce tutta intera, con tutto ciò che vi è in essa, in modo cosciente e inconscio, e magari mente, ma vive. Io sospetto, signori, che voi mi guardiate con compatimento; mi ripetete che un uomo istruito ed evoluto, quale sarà insomma l’uomo futuro, non può volere scientemente qualcosa di svantaggioso per sé, che questa è matematica. Perfettamente d’accordo, è davvero matematica. Ma ve lo ripeto per la centesima volta, c’è unicamente un caso, uno solo, in cui l’uomo può augurarsi di proposito, consapevolmente, anche qualcosa di dannoso, di stupido, perfino stupidissimo, e cioè per avere il diritto di augurarsi anche ciò che è stupidissimo e non essere vincolato all’obbligo di desiderare soltanto ciò che è intelligente. Infatti questa cosa stupidissima, questo capriccio, signori, in realtà può essere quel che di più vantaggioso c’è per noialtri sulla terra, soprattutto in certi casi. E in particolare può essere più vantaggioso di tutti i vantaggi perfino nel caso in cui vi porti un danno evidente e contraddica alle più sensate deduzioni della nostra ragione in materia di tornaconto, perché in ogni caso ci salvaguarda la cosa più importante e preziosa, cioè la nostra personalità e la nostra individualità. Alcuni, ecco, affermano che questo è davvero il bene più prezioso per l’uomo; la volontà, naturalmente, se lo desidera può anche coincidere con la ragione, soprattutto ove non ne abusiamo, ma ce ne serviamo con moderazione; ciò è utile e talvolta perfino lodevole. Ma molto spesso e, anzi, il più delle volte, la volontà è assolutamente e caparbiamente in disaccordo con la ragione e... e... e lo sapete che anche questo è utile e talvolta perfino molto lodevole? Signori, supponiamo che l’uomo non sia stupido. (In effetti non possiamo dire che lo sia, non fosse che per il solo fatto che, se lui fosse davvero stupido, chi allora sarebbe intelligente?) Ma se anche non è stupido, è tuttavia mostruosamente ingrato! Ingrato in modo fenomenale. Io penso perfino che la miglior definizione dell’uomo sia questa: creatura bipede e ingrata. Ma non è ancora tutto; questo non è ancora il suo principale difetto; il suo principalissimo difetto è la sua costante intemperanza, costante, a cominciare dal diluvio universale fino all’epoca schleswig-holsteiniana degli umani destini. L’intemperanza e, di conseguenza, anche l’irragionevolezza; perché è da tempo noto che l’irragionevolezza non nasce altrimenti che dall’intemperanza. Provate dunque a gettare uno sguardo alla storia dell’umanità; ebbene, che cosa vedrete? Una cosa grandiosa? Ma sì, magari anche grandiosa; basti pensare soltanto al colosso di Rodi, per esempio! Non a caso il signor Anaevskij testimonia che alcuni dicono sia opera di mani umane, mentre altri affermano che sia stato creato dalla natura stessa. Variopinta? Ma sì, magari anche variopinta; basterebbe passare in rassegna le sole alte uniformi militari e civili di tutti i secoli e presso tutti i popoli: che spettacolo! Quanto poi alle uniformi ordinarie, ci si può addirittura rompere la testa; nessuno storico ne verrebbe a capo. Monotona? Be’, magari anche monotona: si combatte e si combatte, si combatte adesso, si combatteva prima e si combatteva dopo: convenite che la cosa è fin troppo monotona. In una parola, tutto si può dire della storia universale, tutto quel che può venire in mente alla più sfrenata immaginazione. Una sola cosa non si può dire: che sia ragionevole. Vi impuntereste sulla prima parola. Anzi, c’è uno scherzo che capita ogni momento: nella vita compaiono costantemente certe persone morali e ragionevoli, certi saggi e amanti del genere umano, che appunto si pongono il fine di comportarsi per tutta la vita nel modo più morale e ragionevole, di illuminare di sé, per così dire, il prossimo, proprio per dimostrargli che al mondo si può effettivamente vivere in modo morale e ragionevole. E allora? Si sa, molti di questi filantropi, presto o tardi, verso la fine della vita si sono traditi, dando origine a qualche episodio, talvolta anche dei più sconvenienti. Ora vi chiedo: che cosa ci si può aspettare dall’uomo, in quanto essere dotato di così strane qualità? Ma ricopritelo di tutti i beni della terra, annegatelo nella felicità fino ai capelli, tanto che sulla superficie della felicità affiorino soltanto le bollicine, come sull’acqua; dategli una prosperità economica tale, che ormai non gli resti altro da fare che dormire, mangiare panpepati e adoperarsi per il perpetuarsi della storia universale - ebbene, anche allora lui, l’uomo, anche allora per pura ingratitudine, per pura beffa, vi farà una carognata. Rischierà perfino i panpepati e apposta desidererà la più distruttiva assurdità, la sciocchezza più antieconomica, unicamente per mescolare a tutta quella razionalità positiva il suo distruttivo elemento fantastico. Desidererà rivendicare proprio i suoi sogni fantastici, la sua più volgare stupidità, unicamente per confermare a se stesso (come se questo fosse così necessario) che gli uomini sono sempre uomini, e non tasti di pianoforte: perché se anche a suonarvi saranno le leggi stesse di natura con le loro mani, quella musica minaccia di venire talmente a noia che, calendario a parte, non si avrà più voglia di nulla. E poi non basta: perfino nel caso in cui egli risultasse effettivamente un tasto di pianoforte, se anche glielo dimostrassero con le scienze naturali e la matematica, neanche allora metterebbe giudizio, ma farebbe qualcosa per puro spirito di contraddizione, unicamente per ingratitudine; appunto per far di testa sua. E nel caso in cui non trovi altri mezzi, inventerà la distruzione e il caos, inventerà svariate sofferenze, e farà comunque di testa sua! Scaglierà una maledizione su tutta la terra, e giacché solo l’uomo può maledire (questo è un suo privilegio, che lo distingue in maniera essenziale dagli altri animali), forse con la sola maledizione raggiungerà il suo scopo, cioè si convincerà realmente di essere un uomo, e non un tasto di pianoforte! Se poi direte che anche questo si può calcolare secondo una tabella, anche il caos, la tenebra e la maledizione, e che già la sola possibilità di un calcolo preventivo fermerà tutto e la ragione avrà il sopravvento - ebbene, l’uomo in questo caso diventerà pazzo apposta per non avere la ragione e far di testa sua! Io ci credo, io ne rispondo, perché tutto l’umano agire mi sembra consistere di fatto soltanto in questo: che l’uomo dimostri incessantemente a se stesso d’essere un uomo e non una puntina! Magari con la propria pelle, ma lo dimostri; magari col trogloditismo, ma lo dimostri. E dopo ciò, come resistere alla tentazione di lodare Iddio, perché tutto questo non c’è ancora e la volontà, per il momento, lo sa il diavolo da cosa dipende...
Voi mi griderete (se solo mi degnerete ancora del vostro grido) che qui nessuno vuol togliermi la libertà, che qui si preoccupano soltanto di far sì che la mia libertà stessa, per sua propria volontà, coincida con i miei normali interessi, con le leggi di natura e con l’aritmetica.
Eh, signori, che libertà sarà mai, quando si arriverà alla tabella e all’aritmetica, quando avrà corso soltanto il due più due quattro? Due più due farà quattro anche senza la mia libertà. Esiste mai una libertà del genere?».

IX

Signori, io naturalmente scherzo, e so bene che i miei scherzi non fanno ridere, ma non si può volgere tutto in scherzo. Io, forse, scherzo a denti stretti. Signori, dei problemi mi assillano; risolvetemeli. Ecco, voi, per esempio, volete far perdere all’uomo le vecchie abitudini e correggere la sua volontà, in conformità alle esigenze della scienza e del buon senso. Ma come fate a sapere che l’uomo non solo si possa, ma si debba riformare in questo modo? Da cosa deducete che sia così indispensabile per la volontà umana correggersi? Insomma, come fate a sapere che tale correzione porterà davvero un vantaggio all’uomo? E, se vogliamo dir tutto, perché siete così sicuramente convinti che il non andare contro i veri, normali interessi, garantiti dagli argomenti della ragione e dell’aritmetica, sia davvero sempre vantaggioso per l’uomo e sia legge per tutta l’umanità? Perché finora questa è soltanto una vostra supposizione. Ammettiamo che sia una legge della logica, ma può non esserlo affatto dell’umanità. Voi forse pensate, signori, che sia pazzo? Permettete che chiarisca. Sono d’accordo: l’uomo è un animale essenzialmente creatore, destinato a tendere consapevolmente a uno scopo e a esercitare l’arte dell’ingegneria, cioè a costruirsi eternamente e incessantemente una strada, non importa dove conduca. Ma ecco, forse, ogni tanto ha voglia di svicolare via proprio perché è destinato ad aprirsi quella strada, e ancora, forse, perché per quanto stupido in generale sia l’uomo immediato e d’azione, talvolta tuttavia gli viene in mente che quella strada, a quanto pare, conduce sempre non importa dove e che l’essenziale non è dove vada, ma solo che vada e che il bravo bambino, disdegnando l’arte dell’ingegneria, non si abbandoni a un ozio pernicioso, il quale, come è noto, è padre di tutti i vizi. L’uomo ama creare e costruire strade, questo è indubbio. Ma com’è che ama anche appassionatamente la distruzione e il caos? Ecco, ditemelo un po’! Ma su questo argomento voglio dire io stesso due parole a parte. Non sarà che ama tanto la distruzione e il caos (infatti è indubbio che talvolta li ama molto, è un dato di fatto), perché istintivamente teme di raggiungere lo scopo e di completare l’edificio che sta costruendo? Che ne sapete, forse quell’edificio gli piace solo da lontano, ma non da vicino; forse gli piace solo crearlo, ma non viverci, e preferisce assegnarlo aux animaux domestiques, come formiche, montoni e via dicendo. Le formiche, infatti, hanno tutt’altri gusti. Loro hanno un edificio sorprendente di questo stesso genere, indistruttibile in eterno: il formicaio.
Col formicaio le stimabilissime formiche hanno cominciato, e col formicaio probabilmente finiranno, il che fa molto onore alla loro costanza e positività. Ma l’uomo è creatura frivola e disordinata e, forse, come il giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del raggiungimento del fine, e non il fine in sé. E, chissà (non si può garantire), forse tutto il fine a cui tende l’umanità sulla terra consiste solo in questa continuità del processo di raggiungimento, in altre parole nella vita stessa, e non propriamente nel fine, che, s’intende, dev’essere null’altro che il due più due quattro, cioè una formula, perché due più due quattro non è già più la vita, signori, ma l’inizio della morte. Se non altro l’uomo ha sempre avuto una certa paura di questo due più due quattro, e io ne ho paura anche adesso. Supponiamo che l’uomo non faccia altro che ricercare questi due più due quattro, varchi gli oceani, sacrifichi la vita in questa ricerca, ma di raggiungerli, di trovarli veramente, quant’è vero Dio, ha quasi paura. Perché sente che appena li troverà non avrà più nulla da cercare. Gli operai almeno, terminato il lavoro, riceveranno il denaro, andranno all’osteria, poi finiranno alla polizia: eccoli impegnati per una settimana. Mentre l’uomo dove andrà? Se non altro, ogni volta si nota in lui una specie di imbarazzo al momento di raggiungere scopi simili. Gli piace la conquista, ma non altrettanto l’aver conquistato, e questo, s’intende, è terribilmente ridicolo. In una parola, l’uomo è fatto in modo comico; in tutto questo è evidentemente racchiuso un calembour. Ma due più due quattro è comunque una cosa sommamente insopportabile. Due più due quattro: ma secondo me è soltanto impudenza. Due più due quattro ha un’aria strafottente, vi si piazza in mezzo alla strada con le mani sui fianchi e sputa. Sono d’accordo che due più due quattro è una cosa magnifica; ma se si vuol lodare proprio tutto, allora anche due più due cinque è una cosuccia talvolta molto carina.
E perché siete così fermamente, così solennemente convinti che solo ciò che è normale e positivo - in una parola, solo il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Non si sbaglierà la ragione, sui vantaggi? E se l’uomo non amasse solo il benessere? Forse ama esattamente altrettanto la sofferenza? Forse la sofferenza gli è vantaggiosa esattamente quanto il benessere? E l’uomo talvolta ama pazzamente la sofferenza, addirittura con passione, e questo è un fatto. Qui non c’è neanche bisogno di rifarsi alla storia universale; chiedete a voi stessi, se solo siete uomini e avete vissuto almeno un po’. Per quanto poi riguarda la mia opinione personale, amare solo il benessere è perfino sconveniente, in un certo senso. Che sia bene o male, talvolta anche rompere qualcosa è molto piacevole. Io infatti qui non sono propriamente per la sofferenza, e neppure per il benessere. Sono per... per il mio capriccio e perché mi sia garantito, quando occorre. La sofferenza, per esempio, nei vaudevilles non è ammessa, lo so. Nel palazzo di cristallo è addirittura impensabile: la sofferenza è dubbio, è negazione, e che palazzo di cristallo sarebbe mai, se in esso si potesse dubitare? E intanto sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera sofferenza, cioè alla distruzione e al caos. La sofferenza... ma è l’unica origine della coscienza. Anche se all’inizio ho dichiarato che la coscienza, secondo me, è la più grande infelicità per l’uomo, io so che l’uomo la ama e non la baratterebbe con nessuna soddisfazione. La coscienza, per esempio, è infinitamente superiore al due più due. Dopo il due più due, s’intende, non resterà più niente, non solo da fare, ma neppure da conoscere. Tutto ciò che allora si potrà fare è chiudere i propri cinque sensi e immergersi nella contemplazione. Ebbene, con la coscienza invece, anche se si perviene allo stesso risultato, cioè se anche qui non ci sarà nulla da fare, almeno qualche volta ci si può dare qualche frustatina, e questo è pur sempre vivificante. Per quanto retrogrado, è sempre meglio di niente.

X

Voi credete nell’edificio di cristallo eternamente incorruttibile, cioè tale che non gli si possa far la linguaccia di nascosto, né un gestaccio con la mano in tasca. Ebbene, io invece, forse, ho paura di questo edificio proprio perché è di cristallo ed eternamente incorruttibile e perché non gli si potrà far la linguaccia neppure di nascosto.
Ecco, vedete: se invece di un palazzo sarà un pollaio e pioverà, io, forse, m’infilerò nel pollaio per non bagnarmi, eppure non prenderò il pollaio per un palazzo per gratitudine, solo perché mi ha protetto dalla pioggia. Voi ridete, dite perfino che in questo caso un pollaio e una reggia fan lo stesso. Sì, rispondo io, se dovessimo vivere solo per non bagnarci.
Ma che farci, se mi sono messo in testa che non si vive solo per questo e che, se bisogna vivere, allora si deve vivere in una reggia? Questo è il mio volere, questo il mio desiderio. Me lo strapperete via solo quando avrete cambiato i miei desideri. Ebbene, cambiateli, allettatemi con qualcos’altro, datemi un altro ideale. Nel frattempo non prenderò il pollaio per un palazzo. Fosse pur vero che l’edificio di cristallo è un bluff, che secondo le leggi di natura non deve neppure esistere e che l’ho inventato solo a causa della mia stupidità, a causa di certe ataviche, irrazionali abitudini della nostra generazione. Ma che importa a me se non deve esistere? Non fa lo stesso, se esiste nei miei desideri, o per meglio dire esiste finché esistono i miei desideri? Forse ridete di nuovo? Ridete pure; io accetterò qualsiasi derisione e tuttavia non dirò che sono sazio, quando ho fame; tuttavia so che non mi accontenterò di un compromesso, di un infinito zero periodico, solo perché esiste secondo le leggi della natura ed esiste veramente. Non prenderò per il coronamento dei miei desideri un casermone di appartamenti per inquilini poveri, con contratto per mille anni e con il dentista Wagenheim sull’insegna, per ogni evenienza. Annullate i miei desideri, cancellate i miei ideali, mostratemi qualcosa di meglio, e io vi seguirò. Voi, magari, direte che non ne vale neppure la pena; ma in tal caso anch’io posso rispondervi lo stesso. Stiamo ragionando seriamente; e se non volete degnarmi della vostra attenzione, non starò a pregarvi. Io ho il sottosuolo.
Ma finché vivo e desidero, che mi si secchi la mano, se porterò un solo mattoncino a quel casermone! Non badate se poco fa io stesso ho respinto l’edificio di cristallo, unicamente per il motivo che non gli si potrà fare uno sberleffo con la lingua. Non l’ho detto affatto perché mi piaccia tanto tirar fuori la lingua. Io, forse, mi arrabbiavo soltanto perché per ora un edificio al quale si possa non far la linguaccia, fra tutti i vostri edifici, non si trova. Al contrario, me la lascerei perfino mozzare, la lingua, per pura gratitudine, se solo si organizzassero le cose in modo che non mi venisse mai più voglia di mostrarla. Che m’importa se è impossibile organizzarle così e se bisogna accontentarsi degli appartamenti? Perché allora io sono fatto con simili desideri? Possibile che sia fatto soltanto per arrivare alla conclusione che il modo in cui son fatto è tutta una presa in giro? Possibile che lo scopo sia tutto qui? Non ci credo.
E, del resto, sapete una cosa: sono convinto che noialtri del sottosuolo andiamo tenuti a freno. Infatti, benché siamo capaci di starcene in silenzio nel sottosuolo per quarant’anni, se però usciamo alla luce e sbottiamo, allora parliamo, parliamo, parliamo...

XI

In definitiva, signori: meglio non far nulla! Meglio una consapevole inerzia! E così, evviva il sottosuolo! Anche se ho detto che invidio l’uomo normale fino a un rancore bilioso, non vorrei esser nei suoi panni, date le condizioni in cui lo vedo (anche se non smetterò comunque di invidiarlo). No, no, il sottosuolo è in ogni caso più vantaggioso! Lì almeno si può... Diamine! Ma anche adesso sto mentendo! Mento perché lo so come due più due fa quattro, che non è meglio il sottosuolo, ma qualcosa di diverso, completamente diverso, che io bramo, ma che non riuscirò mai a trovare! Al diavolo il sottosuolo!
Anzi, ecco cosa sarebbe meglio, qui: che io credessi almeno a qualcosa di tutto quel che ho scritto ora. Perché vi giuro, signori, che non credo a una, non a una sola parolina di quel che ho scribacchiato ora! Cioè, magari ci credo anche, ma nello stesso tempo, chissà perché, sento e sospetto di mentire come un calzolaio.
«E allora perché ha scritto tutto questo?», mi dite voi.
«Ma ecco, se vi rinchiudessi per una quarantina d’anni senza alcuna occupazione, e venissi da voi quarant’anni dopo, nel sottosuolo, a vedere a che punto siete arrivati? È mai possibile lasciar solo un uomo nell’inattività per quarant’anni?».
«E questo non sarebbe vergognoso, e questo non sarebbe umiliante!», forse mi direte, scuotendo sprezzantemente il capo. «Lei brama la vita e poi risolve le questioni vitali con un garbuglio logico. E come sono irritanti, come sono sfacciate le sue trovate, e nello stesso tempo quanta paura ha lei! Dice sciocchezze e ne è soddisfatto; dice impertinenze, ma ne ha incessantemente paura e ne chiede scusa. Assicura di non aver paura di nulla, e nello stesso tempo cerca il nostro consenso. Assicura di digrignare i denti, e nello stesso tempo fa dello spirito per farci ridere. Sa che le sue battute non sono spiritose, ma è evidentemente molto soddisfatto del loro valore letterario. Forse le è successo davvero di soffrire, ma non ha alcun rispetto per la sua sofferenza. In lei c’è anche della verità, ma non c’è pudore; per la più meschina vanità lei mette in mostra, in piazza la sua verità, la espone all’onta... Lei vuole davvero dire qualcosa, ma per paura nasconde la sua ultima parola, perché non ha il coraggio di esprimerla, ma solo una vile faccia tosta. Si vanta della sua coscienza, ma non fa che tentennare, perché se anche il suo cervello funziona, il suo cuore è ottenebrato dalla perversione, e senza un cuore puro non può esserci una piena, retta coscienza. E quanta molestia in lei, come s’impone, come si atteggia! Menzogna, menzogna e menzogna!».
S’intende, tutte queste parole le ho inventate io adesso. Anche questo viene dal sottosuolo. Là per quarant’anni di fila sono stato a origliare queste vostre parole dalla fessura. Le ho inventate io, anzi solo questo riuscivo a inventare. Non è strano che mi si sia fissato nella memoria e abbia assunto forma letteraria...
Ma possibile, possibile che siate davvero così creduloni da immaginare che pubblicherò tutto questo e per giunta ve lo darò da leggere? Ed ecco un’altra difficoltà per me: perché, in effetti, vi chiamo “signori”, perché mi rivolgo a voi come se mi rivolgessi veramente a dei lettori? Confessioni come quelle che ho intenzione di cominciare a esporre non si pubblicano e non si danno da leggere agli altri. Io perlomeno non ho tanta fermezza in me, né ritengo necessario averla. Ma vedete: mi è venuta in mente una fantasia, e a qualunque costo voglio realizzarla. Ecco di che si tratta.
Nei ricordi di ogni uomo ci sono certe cose che egli non svela a tutti, ma forse soltanto agli amici. Ce ne sono altre che non svelerà neppure agli amici, ma forse solo a se stesso, e comunque in gran segreto. Ma ve ne sono, infine, di quelle che l’uomo ha paura di svelare perfino a se stesso, e ogni uomo perbene accumula parecchie cose del genere. Anzi: quanto più è un uomo perbene, tante più ne ha. Perlomeno, io stesso solo recentemente mi sono deciso a ricordare alcune mie avventure passate, mentre finora le avevo sempre eluse, perfino con una certa inquietudine. Ora invece che non solo le ricordo, ma mi sono perfino deciso a trascriverle, voglio proprio fare questo esperimento: si può essere completamente sinceri almeno con se stessi e non avere paura della verità intera? Osserverò in proposito: Heine afferma che le autobiografie oneste sono quasi impossibili, e che un uomo mentirà sicuramente sul proprio conto. Secondo lui Rousseau, per esempio, si è senz’altro calunniato nella sua confessione, anzi si è calunniato deliberatamente, per vanità. Sono sicuro che Heine ha ragione; capisco benissimo come per pura vanità ci si possa talvolta accusare falsamente di interi delitti, e anzi comprendo benissimo di che genere possa essere quella vanità. Ma Heine giudicava di un uomo che si confessa dinanzi al pubblico. Io invece scrivo soltanto per me e dichiaro una volta per tutte che se anche scrivo come se mi rivolgessi a dei lettori, si tratta solo di un artificio che mi rende più facile scrivere. È una forma, solo una vuota forma, e di lettori non ne avrò mai. L’ho già dichiarato...
Non voglio pormi dei limiti, nella redazione delle mie memorie. Non seguirò un ordine e un sistema. Annoterò quel che mi capiterà di ricordare.
Ecco dunque, per esempio: potrebbero prendermi alla lettera e domandarmi: se davvero non conta sui lettori, perché allora prende accordi con se stesso, e oltretutto sulla carta, stabilendo che non seguirà un ordine e un sistema, che annoterà quel che le capiterà di ricordare, eccetera, eccetera? Perché si spiega? Perché si scusa?
«E facciamola finita», rispondo io.
Qui, del resto, c’è tutta una psicologia. Forse anche il fatto che sono semplicemente un vigliacco. O forse anche che apposta mi immagino di fronte un pubblico, per comportarmi più decentemente mentre scriverò. Le ragioni possono essere mille.
Ma ecco cosa c’è ancora: perché, a qual fine esattamente voglio scrivere? Se non è per un pubblico, allora non si potrebbe ricordare tutto anche così, mentalmente, senza trasporlo sulla carta?
Sissignori; ma sulla carta risulterà in qualche modo più solenne. Nella scrittura c’è un che di impegnativo, un maggior giudizio su se stessi, vi si aggiungerà una forma. Inoltre: forse lo scrivere mi darà davvero sollievo. Oggi, per esempio, mi opprime particolarmente un antico ricordo. Mi è tornato chiaramente alla memoria già alcuni giorni fa e da allora è rimasto con me, come un fastidioso motivo musicale che non vuol lasciarti in pace. Eppure bisogna sbarazzarsene. Di simili ricordi ne ho a centinaia; ma di tanto in tanto dal centinaio se ne stacca uno e mi opprime. Per qualche motivo credo che, se lo annoterò, mi lascerà in pace. E perché non provare?
Infine: mi annoio, e non faccio mai nulla. E l’annotare in effetti è una specie di lavoro. Dicono che il lavoro rende buono e onesto l’uomo. Ecco dunque un’occasione, se non altro.
Ora sta scendendo una neve quasi fradicia, gialla, torbida. Anche ieri scendeva, e così alcuni giorni fa. Mi sembra che proprio la neve fradicia mi abbia fatto ricordare quell’episodio che ora non vuol lasciarmi in pace. E così, che questo sia il racconto a proposito della neve fradicia.

XII

II • A PROPOSITO DELLA NEVE FRADICIA
Quando dalle tenebre dell’errore
Con parole d’ardente persuasione
Io trassi la tua anima caduta
E piena di profonda sofferenza,
Torcendoti le mani, tu esecrasti
Il vizio che ti aveva raggirata;
E quando, castigando col ricordo
La coscienza di labile memoria,
Tu raccontavi a me tutta la storia
Di quanto era accaduto nel passato,
E poi, nascosto il viso fra le mani,
Sopraffatta da orrore e da vergogna,
Indignata, sconvolta, tu piangesti...
Eccetera, eccetera.

Da una poesia di N.A. Nekrasov

A quel tempo avevo solo ventiquattro anni. La mia vita era già allora tetra, disordinata e solitaria fino alla selvatichezza. Non frequentavo nessuno ed evitavo perfino di parlare, e mi rintanavo sempre più nel mio cantuccio. Al lavoro, nella cancelleria, cercavo perfino di non badare a nessuno, e non solo mi accorgevo benissimo che i miei colleghi mi consideravano un originale, ma avevo sempre l’impressione che mi guardassero con un certo disgusto. Mi accadeva di pensare: perché a nessuno, tranne che a me, sembra d’esser guardato con disgusto? Uno dei nostri impiegati di cancelleria aveva un viso ripugnante e butteratissimo, addirittura quasi banditesco. Io credo che, con una faccia così indecente, non avrei avuto neanche il coraggio di alzare gli occhi su qualcuno. Un altro aveva un’uniforme così consunta che vicino a lui si sentiva già cattivo odore. Eppure nessuno di quei signori si sentiva imbarazzato - né per l’abito, né per la faccia, e tantomeno per qualche considerazione morale. Né l’uno né l’altro s’immaginavano d’esser guardati con disgusto; e se anche l’avessero immaginato, se ne sarebbero infischiati, purché non fossero stati i superiori a giudicare. Ora mi è perfettamente chiaro che anch’io, essendo illimitatamente vanitoso, e quindi anche esigente verso me stesso, mi guardavo spessissimo con un furibondo malcontento che giungeva fino al disgusto, e perciò, mentalmente, attribuivo a chiunque quel mio sguardo. Io, per esempio, odiavo la mia faccia, la trovavo ripugnante, e sospettavo perfino che avesse un’espressione vile, e perciò ogni volta, presentandomi al lavoro, cercavo tormentosamente di assumere un’aria il più possibile indipendente, perché non mi sospettassero di viltà, e di esprimere col viso quanta più nobiltà potevo. “Che il viso sia pure brutto”, pensavo, “ma in compenso che sia nobile, espressivo e, soprattutto, estremamente intelligente”. Ma sapevo anche, con una certezza che mi martirizzava, che la mia faccia non avrebbe mai potuto esprimere tutte quelle perfezioni. Ma la cosa più terribile è che la trovavo positivamente insulsa. Mentre mi sarei del tutto accontentato dell’intelligenza. Al punto che avrei addirittura acconsentito all’espressione vile, purché nel contempo avessero trovato il mio viso terribilmente intelligente.
S’intende che odiavo tutti gli impiegati della nostra cancelleria, dal primo all’ultimo, e li disprezzavo tutti, ma nello stesso tempo in qualche modo li temevo. Capitava che a un tratto li giudicassi perfino superiori a me. La cosa mi succedeva di colpo, allora: ora li odiavo, ora li giudicavo superiori a me. Un uomo evoluto e perbene non può essere vanitoso senza essere illimitatamente esigente verso se stesso e senza disprezzarsi in certi momenti fino all’odio. Ma, sia che li disprezzassi, sia che li giudicassi superiori a me, dinanzi a quasi tutti quelli che incontravo abbassavo gli occhi. Facevo perfino degli esperimenti: avrei sostenuto almeno lo sguardo del tale su di me? E sempre lo abbassavo per primo. Ciò mi tormentava fino a mandarmi in bestia. Inoltre avevo un morboso timore di essere ridicolo e perciò ero servilmente conformista in tutto ciò che riguardava l’esteriorità; con amore seguivo il binario comune e con tutta l’anima aborrivo qualsiasi eccentricità. Ma come potevo resistere? Ero morbosamente evoluto, come appunto dev’essere evoluto l’uomo del nostro tempo. Mentre tutti loro erano ottusi e simili l’uno all’altro come pecore in un gregge. Forse a me solo, in tutta la cancelleria, sembrava costantemente di essere un codardo e uno schiavo; mi sembrava proprio perché ero evoluto. Ma non solo mi sembrava, bensì era davvero così nella realtà: ero un codardo e uno schiavo. Lo dico senza alcun imbarazzo. Ogni uomo perbene del nostro tempo è e dev’essere un codardo e uno schiavo. Questa è la sua condizione normale. Ne sono profondamente convinto. È fatto così e costituzionalmente destinato a questo. E non solo nella nostra epoca, per chissà quali circostanze casuali, ma in generale in tutte le epoche l’uomo perbene dev’essere un codardo e uno schiavo. È una legge di natura per tutte le persone perbene sulla terra. Se poi a qualcuno di loro capiterà di fare il gradasso in qualcosa, che non si consoli per questo e non si monti la testa: comunque davanti al resto se la farà sotto. È l’unica ed eterna via d’uscita. Fanno i gradassi solo gli asini e i loro bastardi, e anche quelli solo fino a quel famoso muro. Ma a loro non val neppure la pena di prestare attenzione, perché non significano esattamente nulla.
Allora mi tormentava anche un’altra circostanza: appunto il fatto che nessuno somigliasse a me e io non somigliassi a nessuno. “Io sono uno, mentre loro sono tutti”, pensavo e... restavo sovrappensiero.
Dal che si vede che ero ancora proprio un ragazzino.
Accadevano anche casi contrari. A volte, infatti, quanto mi diventava ripugnante andare in ufficio: al punto che molte volte tornavo dal lavoro malato. Ma un bel giorno, del tutto inaspettatamente, sopraggiungeva una fase di scetticismo e indifferenza (in me tutto era a fasi), e allora io stesso ridevo della mia intolleranza e schifiltosità, io stesso mi rimproveravo di romanticismo. Ora non volevo parlare con nessuno, e ora arrivavo al punto che non solo attaccavo discorso, ma addirittura progettavo di instaurare rapporti amichevoli con loro. Tutta la schifiltosità d’un tratto spariva nel nulla. Chi lo sa, forse in me non c’era mai stata, ed era fasulla, presa dai libri? Non ho ancora saputo risolvere questo problema. Una volta anzi feci proprio amicizia con loro, presi a frequentare le loro case, a giocare a préférence, a bere vodka, a ragionare di promozioni... Ma qui permettetemi una digressione.
Da noi russi, generalmente parlando, non ci sono mai stati quegli sciocchi romantici siderei, tedeschi e soprattutto francesi, che rimangono imperterriti, anche se la terra dovesse spaccarsi sotto i loro piedi, anche se tutta la Francia dovesse perire sulle barricate; macché, loro restano sempre uguali, non cambieranno neppure per rispetto alla decenza, e canteranno sempre le loro canzoni sideree, per così dire, fino alla tomba, perché sono degli imbecilli. Da noi, invece, in terra russa, non ci sono imbecilli, la cosa è risaputa; proprio per questo ci distinguiamo dalle altre nazioni straniere. Di conseguenza, da noi anche le nature sideree non allignano allo stato puro. Soltanto i nostri pubblicisti e critici “positivi” di un tempo, dando la caccia ai Kostanzoglo e agli zietti Pètr Ivanovic e scambiandoli stupidamente per il nostro ideale, hanno inventato tante fole sui nostri romantici, credendoli altrettanto siderei che in Germania o in Francia. Al contrario, le doti del nostro romantico sono completamente e diametralmente opposte al tipo sideral-europeo, e nessun meschino metro europeo vi si adatta. (Permettetemi dunque di usare questa parola “romantico”: una paroletta antica, rispettabile, benemerita e nota a tutti.) Le doti del nostro romantico sono capire tutto, vedere tutto e vedere spesso di gran lunga più chiaramente di quanto vedano le nostre menti più positive; non sottomettersi a nulla e a nessuno, ma nello stesso tempo non disdegnare nulla; aggirare ogni ostacolo, cedere a tutto, agire diplomaticamente con tutti; non perdere mai di vista il fine utile, pratico (certi appartamentini statali, pensioncine, stellette sulla giacca): tener d’occhio questo fine attraverso tutti gli entusiasmi e i volumetti di liriche e nello stesso tempo custodire incrollabilmente in sé fino alla tomba “ciò che è sublime ed elevato” e, fra parentesi, custodire con cura anche se stessi, proprio nella bambagia, come gioiellini, non fosse che per il bene, poniamo, di quello stesso “sublime ed elevato”. Uomo di larghe vedute il nostro romantico, e primissimo farabutto fra tutti i nostri farabutti, ve l’assicuro... perfino per personale esperienza. S’intende, tutto ciò se il romantico è intelligente. Cioè, ma che dico! Il romantico è sempre intelligente, volevo solo osservare che anche se da noi ci sono stati dei romantici sciocchi, questo non conta, per il semplice fatto che ancor nel pieno delle forze si tramutavano definitivamente in tedeschi e, per custodire più agevolmente il loro gioiellino, si trasferivano da qualche parte laggiù, a Weimar o nella Foresta Nera. Io, per esempio, disprezzavo sinceramente la mia attività di servizio e non ci sputavo sopra solo per necessità, perché quello era il mio posto e in cambio ricevevo del denaro. Come risultato tuttavia, notate bene, non ci sputavo comunque sopra. Il nostro romantico piuttosto impazzirà (il che, del resto, accade assai di rado), ma non ci sputerà sopra, se non ha in vista un’altra carriera, e non lo cacceranno mai a calci, ma al massimo lo porteranno in manicomio nelle vesti del “re di Spagna”, e solo a patto che impazzisca proprio molto. Ma da noi impazziscono solo i tisicuzzi e i biondini. Mentre incalcolabile è il numero dei romantici che raggiungono poi dei gradi di rilievo. O mirabile poliedricità! E quale capacità di provare le sensazioni più contraddittorie! Già allora me ne sentivo confortato, e anche adesso sono dello stesso parere. Proprio per questo da noi ci sono tante “vaste nature”, che anche nell’estrema caduta non smarriscono mai il loro ideale; e anche se non muoveranno un dito per quell’ideale, anche se sono banditi e ladri matricolati, tuttavia rispettano fino alle lacrime il loro primitivo ideale e nell’animo loro sono straordinariamente onesti. Sissignori, solo da noi il più matricolato mascalzone può essere completamente e perfino nobilmente onesto nell’animo, senza per questo cessare affatto di essere un mascalzone. Ripeto, molto spesso dai nostri romantici saltan fuori dei furfanti così smaliziati (uso la parola “furfante” in modo affettuoso), essi rivelano a un tratto un tale fiuto per la realtà e un tale senso pratico, che il pubblico e i superiori sbalorditi non sanno far altro che schioccare la lingua, allibiti.
Poliedricità davvero impressionante, e Dio sa come si orienterà e svilupperà nelle circostanze future e che cosa ci riserverà per l’avvenire! E il materiale non è affatto malvagio! Non lo dico per patriottismo ridicolo o per campanilismo. Del resto, sono sicuro che pensate di nuovo ch’io stia scherzando. E chissà, forse è vero il contrario, cioè siete sicuri che io la pensi sul serio così. Comunque, signori, nell’uno e nell’altro caso considererò un onore e un particolare piacere per me la vostra opinione. E perdonatemi la digressione.
Ovviamente non resistevo all’amicizia con i miei compagni, e ben presto mi staccavo da loro e, a causa della mia inesperienza ancora giovanile, smettevo perfino di salutarli, come se volessi rompere definitivamente. Del resto la cosa mi accadde una sola volta in tutto. In generale sono sempre stato solo.
A casa, in primo luogo, prevalentemente leggevo. Avevo voglia di soffocare con le sensazioni esterne tutto quel che ribolliva incessantemente dentro di me. E la lettura era l’unica, fra le sensazioni esterne, che mi fosse accessibile. La lettura, naturalmente, aiutava molto: emozionava, deliziava e tormentava. Ma a volte annoiava terribilmente. Avevo comunque voglia di muovermi, e a un tratto mi immergevo in una fosca, sotterranea, turpe - non depravazione, ma depravazioncella. Le passioncelle in me erano acute, cocenti per la mia eterna, morbosa eccitabilità. Avevo accessi isterici, con lacrime e convulsioni. Oltre alla lettura, non avevo risorse - cioè, nel mio ambiente circostante non c’era nulla ch’io potessi rispettare e da cui mi sentissi attratto. Mi rodeva, oltretutto, l’angoscia; mi prendeva un’ansia isterica di contraddizioni, di contrasti, e così mi davo al libertinaggio. Ma non è certo per giustificarmi che ora ho scritto tutte queste cose... Anzi, macché! Ho mentito! Volevo appunto giustificarmi. Questa piccola osservazione, signori, la faccio per me. Non voglio mentire. Ho dato la mia parola.
Il mio libertinaggio era solitario, notturno, nascosto, timoroso, laido, pieno di una vergogna che non mi abbandonava nei momenti più degradanti e che anzi in quei momenti arrivava fino alla maledizione. Già allora portavo nell’anima il sottosuolo. Avevo una tremenda paura di essere veduto, incontrato, riconosciuto in un modo o nell’altro. E frequentavo vari luoghi assai malfamati.
Una volta, passando di notte davanti a una bettola, dalla finestra illuminata vidi dei signori che si picchiavano con le stecche intorno a un biliardo, finché scaraventarono uno di loro da una finestra. In un’altra occasione mi sarei sentito molto disgustato; ma allora, d’un tratto, ebbi un momento tale, che all’improvviso invidiai quell’individuo scaraventato giù, e lo invidiai tanto che entrai perfino nella bettola, nella sala da biliardo. “Magari anch’io farò a botte”, mi dicevo, “e scaraventeranno anche me dalla finestra”.
Non ero ubriaco, ma che volete farci: a tal punto d’isteria può rodere l’angoscia! Ma la cosa finì in nulla. Risultò che non ero neppure capace di saltare dalla finestra, e me ne andai senza aver fatto a botte.
Fin dal primo passo mi sistemò un ufficiale.
Io stavo lì vicino al biliardo e per ignoranza impedivo il passaggio, e quello doveva passare; mi prese per le spalle e in silenzio, senza avvertirmi e senza spiegarsi, mi trasportò dal punto in cui stavo in un altro, e poi passò come se non mi avesse neppure notato. Avrei perdonato perfino le percosse, ma non potevo proprio perdonare che mi avesse spostato e così irrevocabilmente ignorato.
Lo sa il diavolo che cosa avrei dato allora per una vera lite, più giusta, più decente, più, per così dire, letteraria! Ero stato trattato come una mosca. Quell’ufficiale era quasi un metro e novanta di statura; mentre io sono un uomo piccoletto ed esilino. La lite, del resto, dipendeva da me: bastava protestare un po’ e, naturalmente, mi avrebbero scaraventato giù dalla finestra. Ma ci ripensai e preferii... svignarmela stizzosamente.
Uscii dall’osteria confuso e agitato, andai dritto a casa e il giorno dopo ripresi il mio modesto libertinaggio in modo ancor più timido, abbrutito e triste di prima, quasi con la lacrimuccia all’occhio - e tuttavia lo ripresi. Non pensate, del resto, che abbia avuto paura dell’ufficiale per vigliaccheria: non sono mai stato un vigliacco nell’animo, anche se sono sempre stato pauroso di fatto, ma - aspettate a ridere, c’è una spiegazione; io ho una spiegazione per tutto, state pur certi.
Oh, se quell’ufficiale fosse stato di quelli che accettano di battersi in duello! Macché, era proprio uno di quei signori (ahimè! da tempo scomparsi) che preferivano agire con le stecche da biliardo oppure, come il tenente Pirogov di Gogol’, attraverso le autorità. A duello invece non si battevano, e in ogni caso avrebbero ritenuto sconveniente battersi con noi civili, razza inferiore, e in generale ritenevano il duello qualcosa di inconcepibile, roba da liberi pensatori, da francesi, ma da parte loro offendevano spesso e volentieri, soprattutto nel caso del metro e novanta di statura.
Lì non ebbi paura per vigliaccheria, ma per la mia sconfinata vanità. Mi spaventai non del metro e novanta di statura e non del fatto che me le avrebbero date di santa ragione e scaraventato dalla finestra; di coraggio fisico, davvero, ne avrei avuto abbastanza; ma non mi bastava il coraggio morale. Mi spaventai del fatto che tutti i presenti, a cominciare dall’insolente segnapunti fino all’ultimo impiegatuccio irrancidito e brufoloso che faceva il leccapiedi lì intorno, con un colletto bisunto, non avrebbero capito e mi avrebbero schernito, quando avessi protestato e cominciato a parlar loro in linguaggio letterario. Perché del punto d’onore, cioè non dell’onore, ma proprio del punto d’onore (point d’honneur), ancor oggi da noi non si può parlare altrimenti che in linguaggio letterario. Nel linguaggio comune il “punto d’onore” non viene menzionato. Ero perfettamente convinto (ecco il fiuto per la realtà, nonostante tutto il romanticismo!) che tutti costoro si sarebbero semplicemente sbellicati dalle risa, mentre l’ufficiale non mi avrebbe malmenato semplicemente, cioè senza offesa, ma mi avrebbe senz’altro colpito col ginocchio, spingendomi così tutt’attorno al biliardo, e solo allora forse si sarebbe impietosito e mi avrebbe scaraventato dalla finestra. È chiaro che questa squallida storia per me non poteva finire semplicemente così. In seguito incontrai spesso quell’ufficiale per strada e l’osservai bene. Non so però se lui mi riconoscesse. Probabilmente no; lo deduco da alcuni indizi. Ma io, io lo guardavo con rabbia e odio, e andò avanti così per... diversi anni! Anzi, la mia rabbia si rafforzava e cresceva con gli anni. All’inizio, zitto zitto, cominciai a raccogliere informazioni su quell’ufficiale. Non era facile, perché non conoscevo nessuno. Ma una volta qualcuno lo chiamò per cognome per strada, mentre io lo seguivo da lontano, come se fossi legato a lui, e fu così che venni a sapere come si chiamava. Un’altra volta lo seguii fino al suo appartamento e per dieci copeche seppi dal portinaio dove abitava, a che piano, se da solo o con qualcun altro, ecc., insomma tutto quel che si può sapere da un portinaio. Una mattina, benché non facessi mai della letteratura, a un tratto mi venne l’idea di descrivere quell’ufficiale in un racconto di denuncia, in forma caricaturale. Scrissi il racconto con voluttà. Lo smascherai, lo calunniai addirittura; all’inizio camuffai il cognome in modo tale che si poteva subito riconoscere, ma poi, dopo matura riflessione, lo cambiai e inviai il racconto a «Oteèestvennye zapiski». Ma a quel tempo non usava ancora la letteratura di denuncia, e il mio racconto non fu pubblicato. Me ne stizzii molto. Talvolta la rabbia mi soffocava semplicemente. Finalmente mi decisi a sfidare il mio nemico a duello. Composi per lui una stupenda, elegante lettera, supplicandolo di scusarsi con me; e in caso di rifiuto alludevo piuttosto fermamente al duello. La lettera era scritta in modo tale che, se l’ufficiale avesse avuto la minima idea di “ciò che è sublime ed elevato”, sarebbe senz’altro corso da me per gettarmi le braccia al collo e offrirmi la sua amicizia. E come sarebbe stato bello! Che vita avremmo cominciato! Che vita! Lui mi avrebbe difeso con la sua prestanza; io l’avrei nobilitato con la mia cultura, be’, e con... le mie idee, e quante cose sarebbero potute accadere! Figuratevi che erano già passati due anni da quando mi aveva offeso, e la mia sfida era uno stridentissimo anacronismo, nonostante tutta l’abilità della mia lettera, che spiegava e dissimulava l’anacronismo. Ma grazie a Dio (benedico tuttora l’Onnipotente con le lacrime agli occhi) non inviai la mia lettera. Mi vengono i brividi al pensiero di cosa sarebbe potuto seguire, se l’avessi inviata. E a un tratto... e a un tratto mi vendicai nel più semplice, nel più geniale dei modi! A un tratto mi venne un’idea luminosissima. Talvolta nei giorni di festa camminavo sul Nevskij dopo le tre e passeggiavo sul lato soleggiato. Cioè, non vi passeggiavo affatto, ma subivo innumerevoli tormenti, umiliazioni e travasi di bile; ma si vede che proprio di questo avevo bisogno. Sgusciavo come un’anguilla, nel modo più brutto, fra i passanti, cedendo continuamente il passo ora a un generale, ora a un ufficiale della guardia a cavallo o degli ussari, ora a una signora; in quei momenti provavo spasimi dolorosi al cuore e vampe di calore alla schiena alla sola idea della miseria del mio vestito, della miseria e volgarità della mia figuretta sgattaiolante. Era un supplizio d’inferno, un’incessante, insopportabile umiliazione al pensiero, divenuto sensazione incessante e immediata, di essere una mosca in confronto a tutto quel bel mondo, una schifosa, oscena mosca - più intelligente di tutti, più evoluta di tutti, più nobile di tutti, la cosa è sottintesa - ma una mosca che incessantemente cedeva il passo a tutti, da tutti umiliata e da tutti offesa. Perché mi sottoponevo a quel supplizio, perché andavo sul Nevskij? Non lo so. Ma mi sentivo semplicemente attirato là appena se ne presentava l’occasione.
Già allora cominciavo a provare accessi di quei piaceri di cui ho parlato nel primo capitolo. Ma dopo la storia con l’ufficiale cominciai a sentirmi attirato ancor più fortemente sul Nevskij: proprio lì lo incontravo più spesso, proprio lì lo ammiravo. Anche lui ci andava, soprattutto nei giorni di festa. Sebbene anche lui si scansasse dinanzi ai generali e agli alti funzionari, e anche lui serpeggiasse come un’anguilla fra loro, quelli come noialtri, o anche più su di noialtri, semplicemente li schiacciava; gli andava dritto contro, come se davanti a lui ci fosse uno spazio vuoto, e non c’era verso che cedesse il passo. Io m’inebriavo della mia rabbia, guardandolo, e... stizzosamente mi scansavo ogni volta dinanzi a lui. Mi tormentava che perfino per strada non potessi in alcun modo stargli alla pari. “Perché ti scansi sempre per primo?”, mi tormentavo da solo, in preda a una furia isterica, svegliandomi talvolta dopo le due di notte. “Perché proprio tu, e non lui? Nessuna legge lo prescrive, non sta mica scritto da nessuna parte! Che sia alla pari, come avviene di solito quando si incontrano delle persone educate: metà cederà lui, e metà tu, e passerete rispettandovi l’un l’altro”. Ma non succedeva così, e nonostante tutto mi scansavo io, e lui non si accorgeva neppure che gli cedevo il passo. Ed ecco, a un tratto fui illuminato da un’idea sorprendente. “E se una volta lo incontrassi”, pensai, “e... non mi facessi da parte? Non mi facessi da parte di proposito, anche a costo di dargli uno spintone: eh, che ne dite?”. Quest’idea ardita a poco a poco s’impossessò di me al punto da non darmi più pace. Ne fantasticavo incessantemente, esasperatamente, andavo più spesso sul Nevskij apposta per immaginarmi con ancor maggiore chiarezza come avrei agito al momento buono. Ero in estasi. La mia intenzione mi sembrava sempre più verosimile e realizzabile. “S’intende, non proprio dargli uno spintone”, pensavo, rabbonendomi già in anticipo per la gioia, “ma semplicemente non farsi da parte, scontrarsi con lui non in modo da far molto male, ma così, spalla contro spalla, esattamente quel tanto che delimitano le convenienze; cosicché io lo urti nella stessa misura in cui lui urterà me”. Finalmente mi decisi del tutto. Ma i preparativi richiesero moltissimo tempo. Per prima cosa, al momento di agire bisognava avere un aspetto più che decoroso e quindi bisognava occuparsi del vestito. “In ogni caso, se dovesse nascerne una scenata pubblica (e il pubblico lì è superflu: ci va la contessa, ci va il principe D., ci va tutto il mondo letterario), bisogna essere ben vestiti; la cosa fa impressione e in un certo senso ci porrà sullo stesso piano agli occhi dell’alta società”. A questo scopo mi feci pagare lo stipendio in anticipo e comprai dei guanti neri e un discreto cappello da Èurkin. I guanti neri mi sembravano più seri e più di buon gusto di quelli color limone che avevo adocchiato in un primo tempo. “Un colore troppo vistoso, come se la persona volesse mettersi troppo in mostra”, e così non presi quelli giallo limone. Avevo preparato da un pezzo una bella camicia con i gemelli bianchi d’osso; ma mi fece perder molto tempo il cappotto. Di per sé il mio cappotto era tutt’altro che malvagio, scaldava; ma era imbottito d’ovatta, e il bavero era di procione, il che rappresentava già il massimo del gusto plebeo. Bisognava sostituire il bavero a tutti i costi e farsene uno di castorino, tipo quello degli ufficiali. Perciò cominciai a girare per il Gostinyj Dvor e dopo alcuni tentativi presi di mira un castorino tedesco di poco prezzo. Quei castorini tedeschi, benché si logorino prestissimo e assumano un aspetto miserrimo, all’inizio, però, appena acquistati, hanno un’aria più che decorosa; e a me serviva per una volta soltanto. Chiesi il prezzo: era comunque caro. Dopo ponderata riflessione mi decisi a vendere il mio bavero di procione. Quanto alla somma mancante, e assai notevole per me, risolsi di chiederla in prestito ad Anton Antonyc Setoèkin, il mio capufficio, uomo dimesso, ma serio e positivo, che non prestava denaro a nessuno, ma al quale un tempo, all’epoca della mia assunzione, ero stato particolarmente raccomandato dal personaggio ragguardevole che mi aveva trovato il posto. Soffrivo orribilmente. Mi pareva mostruoso e vergognoso chieder denaro in prestito ad Anton Antonyc. Non dormii perfino per due o tre notti, e in generale allora dormivo poco, ero in preda a una febbre; il mio cuore si arrestava torbidamente oppure di colpo cominciava a saltare, saltare, saltare!.. Anton Antonovic sulle prime si stupì, poi corrugò la fronte, poi rifletté e tuttavia mi diede il prestito, facendosi firmare una ricevuta in cui l’autorizzavo a prelevare dal mio stipendio la somma prestata, di lì a due settimane. In tal modo, tutto era finalmente pronto; il bel castorino si insediò al posto dell’obbrobrioso procione, e io cominciai a poco a poco a mettermi all’opera. Infatti, non ci si poteva decidere di primo acchito, a casaccio; bisognava rifinire la cosa sapientemente, appunto a poco a poco. Ma confesso che dopo ripetuti tentativi cominciai perfino a disperare: non c’era modo di scontrarsi, punto e basta! Per quanto mi preparassi, per quanto rinnovassi il mio proposito, proprio quando pareva che, ecco, ci saremmo scontrati, a un tratto mi rendevo conto che di nuovo gli avevo ceduto la strada e lui era passato, senza accorgersi di me. Recitavo perfino delle preghiere, avvicinandomi a lui, perché Dio mi desse la forza. Una volta ero proprio fermamente deciso, ma finì che gli capitai soltanto fra i piedi, perché all’ultimissimo momento, a una distanza di forse dieci centimetri, mi mancò il coraggio. Egli mi passò sopra imperterrito, e io, come una pallina, rimbalzai di lato. Quella notte stetti di nuovo male, ebbi la febbre e delirai. E a un tratto tutto si concluse come meglio non si poteva. La notte prima avevo definitivamente stabilito di non mettere in atto il mio rovinoso proposito e di lasciar perdere tutto, e a questo scopo uscii per l’ultima volta sul Nevskij, solo così, per vedere come avrei lasciato perdere tutto ciò. A un tratto, a tre passi dal mio nemico, inaspettatamente mi decisi, socchiusi gli occhi e - ci scontrammo in pieno, spalla contro spalla! Non cedetti di un pollice e passai oltre assolutamente sul suo stesso piano! Egli non si voltò neppure e fece finta di non essersene accorto; ma fece solo finta, ne sono convinto. Ne sono tuttora convinto! È chiaro che io ne feci maggiormente le spese; lui era più forte, ma non era questo il punto. Il punto era che avevo raggiunto lo scopo, avevo confermato la mia dignità, non avevo ceduto di un passo e mi ero posto pubblicamente al suo stesso livello sociale. Tornai a casa completamente vendicato di tutto. Ero in estasi. Trionfavo e cantavo arie italiane. S’intende, non starò a descrivervi quel che mi accadde di lì a tre giorni; se avete letto il mio primo capitolo “Il sottosuolo”, potete indovinarlo da voi. L’ufficiale fu poi trasferito chissà dove; sono ormai quattordici anni che non lo vedo. Che fa adesso, il mio tesoruccio? Chi opprime con le sue angherie?

XIII

Ma si esauriva la fase della mia depravazioncella, e cominciavo a sentirmi terribilmente nauseato. Sopraggiungeva il pentimento, e io lo scacciavo: mi nauseava troppo. A poco a poco, però, mi ci abituavo. Mi abituavo a tutto: cioè, non è che mi abituassi, ma in un certo senso acconsentivo volontariamente a sopportare. Ma avevo una via d’uscita, che II accomodava tutto, ed era rifugiarmi in “tutto ciò che è sublime ed elevato”, ossia, naturalmente, nei sogni. Sognavo esasperatamente, sognavo anche per tre mesi di fila, rintanato nel mio angolo, e credetemi, in quei momenti non somigliavo affatto a quel signore che, trepidando nel suo cuore di gallina, si cuciva un castorino tedesco al bavero del cappotto. Di colpo diventavo un eroe. Allora il mio tenente alto uno e novanta non l’avrei ammesso in casa mia neppure se fosse venuto a farmi visita. Allora non riuscivo neppure a immaginarmelo. Quali fossero i miei sogni e come potessi accontentarmene, ora è difficile dirlo, ma allora me ne accontentavo. Del resto, anche adesso in parte me ne accontento. Sogni particolarmente dolci e intensi mi venivano dopo il libertinaggio, venivano con il pentimento e le lacrime, con le maledizioni e gli entusiasmi. C’erano attimi di così perfetta ebbrezza, di tale felicità, che dentro di me non si destava il minimo scherno, quanto è vero Dio. C’era la fede, la speranza, la carità. Proprio così, allora credevo ciecamente che per qualche miracolo, per una qualsiasi circostanza esterna di colpo tutto si sarebbe spalancato, allargato; a un tratto mi sarebbe apparso l’orizzonte di un’attività degna, umanitaria, meravigliosa e, soprattutto, bella e pronta (quale esattamente, non l’ho mai saputo, ma l’essenziale era che fosse bella e pronta), ed ecco, a un tratto mi sarei presentato al mondo, a cavallo di un bianco destriero e incoronato di alloro. Non potevo neppure concepire un ruolo di second’ordine e proprio per questo nella realtà interpretavo assai tranquillamente l’ultimo. O eroe, o fango, non c’era via di mezzo. Fu proprio questo a rovinarmi, perché nel fango mi consolavo dicendomi che in un altro momento avrei potuto essere un eroe, e l’eroe mi nascondeva il fango: come a dire che per l’uomo comune era vergognoso infangarsi, ma l’eroe era troppo elevato per insozzarsi del tutto, di conseguenza ci si poteva anche infangare. È notevole che questi accessi di “tutto ciò che è sublime ed elevato” mi coglievano anche durante la depravazioncella, e proprio quando avevo toccato il fondo, arrivavano così, a singole vampatine, come per farsi ricordare, ma comunque non estirpavano il vizio con la loro comparsa; al contrario, lo ravvivavano quasi per contrasto e si limitavano giusto a quel tanto che ci voleva per una buona salsa. Qui la salsa era composta di contraddizione e sofferenza, di tormentosa analisi interiore, e tutti questi tormenti e tormentucci conferivano un gusto piccante, perfino un senso alla mia depravazioncella - in una parola, assolvevano perfettamente il compito di una buona salsa. In tutto ciò non mancava neppure una certa profondità. E avrei forse potuto accettare una depravazionuccia semplice, volgare, immediata, da scrivano, e sopportare su di me tutto quel fango! Che cosa avrebbe potuto affascinarmi allora in esso e attirarmi in strada di notte? No, avevo una nobile scappatoia per tutto...
Ma quanto amore, Signore Iddio, quanto amore provavo talvolta in quei miei sogni, in quel “rifugiarmi in tutto ciò che è sublime ed elevato”: anche se era amore fantastico, anche se in realtà non si applicava mai a nulla di umano, eppure era tanto, quell’amore, che poi, di fatto, non si sentiva neppure il bisogno di applicarlo: a quel punto sarebbe stato un lusso eccessivo. Tutto, del resto, si concludeva felicemente con un pigro e inebriante passaggio all’arte, cioè alle meravigliose forme dell’esistenza, belle e pronte, rubate a man bassa a poeti e romanzieri e adattate a tutti i possibili servizi ed esigenze. Io, per esempio, trionfo su tutti; tutti, naturalmente, sono annientati e costretti a riconoscere di buon grado ogni mia perfezione, e io li perdono tutti. Io m’innamoro, essendo un famoso poeta e ciambellano; ricevo incalcolabili milioni e subito li sacrifico per il genere umano e nello stesso momento confesso dinanzi a tutto il popolo le mie infamie, che, s’intende, non sono semplicemente infamie, ma racchiudono in sé moltissimo di “sublime ed elevato”, qualcosa alla Manfred. Tutti piangono e mi baciano (altrimenti che razza di cretini sarebbero), e io vado scalzo e affamato a predicare le nuove idee e sconfiggo i reazionari ad Austerlitz. Quindi suona una marcia, si proclama un’amnistia, il papa acconsente a partire da Roma per il Brasile; poi ecco un ballo per l’Italia intera a villa Borghese, che si trova sulla riva del lago di Como, giacché per l’occasione il lago di Como si trasferisce apposta a Roma; quindi una scena fra i cespugli, ecc. ecc. - come se non lo sapeste! Direte che è volgare e vile mettere in piazza tutto ciò adesso, dopo tutte le ebbrezze e le lacrime che io stesso ho confessato. E perché poi vile? Possibile pensiate che mi vergogni di tutto ciò e che tutto ciò fosse più stupido di un momento qualsiasi della vostra vita, signori? E inoltre, credetemi, qualche mia storia era imbastita niente male... Mica tutto si svolgeva sul lago di Como. E, del resto, avete ragione; davvero, è volgare e vile. E più vile di tutto è che ora abbia cominciato a giustificarmi dinanzi a voi. E ancor più vile che adesso faccia questa osservazione. Ma basta, insomma, altrimenti non si finisce mai: ogni cosa sarà più vile dell’altra...
Ma per più di tre mesi di fila non ero proprio in grado di sognare, e allora cominciavo a sentire l’invincibile esigenza di tuffarmi nella società. Tuffarmi nella società per me significava andare a trovare il mio capufficio, Anton Antonyc Setoèkin. È stato l’unico conoscente costante in tutta la mia vita, e anzi ora mi stupisco di questa circostanza. Ma da lui andavo quasi soltanto quando subentrava questa fase, e i miei sogni raggiungevano tale felicità che sentivo il bisogno assoluto e improrogabile di abbracciare il prossimo e tutta l’umanità; e perciò dovevo avere a disposizione almeno un uomo in carne ed ossa. Da Anton Antonyc, del resto, bisognava presentarsi di martedì (il suo giorno), di conseguenza si doveva sempre far coincidere l’esigenza di abbracciare tutta l’umanità col martedì. Questo Anton Antonyc era alloggiato ai Cinque cantoni, al terzo piano e in quattro stanzette basse, una più piccola dell’altra, che avevano un’aria quanto mai economica e giallina. C’erano con lui due figlie e una loro zietta, che versava il tè. Le figlie avevano una tredici e l’altra quattordici anni, entrambe avevano il naso all’insù e mi imbarazzavano terribilmente perché continuavano a bisbigliare fra loro e a ridacchiare. Il padrone di casa di solito sedeva nello studio, su un divano di pelle davanti al tavolo, insieme a qualche ospite canuto, un funzionario del nostro o anche di un altro dicastero. Non vi ho mai visto più di due o tre ospiti, e sempre gli stessi. Discutevano della tassa di Stato sugli alcolici, delle gare d’appalto al Senato, dello stipendio, di promozioni, di sua eccellenza, del modo di piacergli e così via. Io avevo la pazienza di star seduto accanto a quella gente come uno scemo anche per quattro ore di seguito, ad ascoltarli, senza osare né saper intavolare alcuna conversazione con loro. Diventavo ottuso, diverse volte cominciavo a sudare, mi sentivo sull’orlo di una paralisi; ma era una cosa buona e utile. Rincasato, accantonavo per qualche tempo il mio desiderio di abbracciare tutta l’umanità.
Avevo, del resto, anche un altro conoscente o quasi, Simonov, mio ex compagno di scuola. Di compagni di scuola ne avevo anche molti a Pietroburgo, ma non li frequentavo e avevo perfino smesso di salutarli per strada. Forse mi ero trasferito a lavorare in un altro dicastero proprio per non stare insieme a loro e troncare di netto con tutta la mia odiosa infanzia. Maledetta quella scuola, e quegli orrendi anni di galera! Insomma, dai compagni mi ero separato subito, non appena avevo riacquistato la libertà. Ne restavano due o tre che salutavo ancora, incontrandoli. Fra questi era Simonov, che a scuola da noi non si distingueva in nulla, era equilibrato e tranquillo, ma nel quale io avevo scorto una certa indipendenza di carattere e perfino dell’onestà. E non penso che fosse neanche molto limitato. Con lui avevo avuto un tempo dei momenti piuttosto luminosi, ma non erano durati a lungo e a un tratto si erano come persi nella nebbia. A lui questi ricordi pesavano visibilmente, e credo che avesse sempre paura che io ricadessi nel tono di prima. Sospettavo di risultargli molto odioso, eppure andavo da lui, non essendone del tutto certo.
E così una volta, un giovedì, non resistendo alla mia solitudine e sapendo che di giovedì la porta di Anton Antonyè era chiusa, mi ricordai di Simonov. Salendo da lui al terzo piano, pensavo appunto che a quel signore davo fastidio e che facevo male ad andare. Ma siccome finiva sempre che simili considerazioni, neanche a farlo apposta, mi spronavano ancor più a cacciarmi in una posizione ambigua, entrai. Era passato quasi un anno dall’ultima volta che avevo visto Simonov.

XIV

Trovai da lui altri due miei compagni di scuola. A quanto pareva, stavano discutendo di una questione importante. Nessuno di loro prestò quasi alcuna attenzione al mio arrivo, il che era perfino strano, dato che non li vedevo ormai da anni. Evidentemente mi consideravano qualcosa come la più comune delle mosche. Non mi trattavano così neppure a scuola, sebbene tutti là mi odiassero. Naturalmente capivo che ora dovevano disprezzarmi per l’insuccesso della mia carriera di servizio e perché mi ero lasciato parecchio andare, ero vestito male, eccetera, il che ai loro occhi costituiva un’insegna della mia inettitudine e del mio scarso valore. E tuttavia non mi aspettavo tanto disprezzo. Simonov si stupì perfino del mio arrivo. Anche prima si era sempre come stupito del mio arrivo. Tutto ciò mi lasciò sconcertato; mi sedetti con una certa angoscia e mi misi ad ascoltare di cosa discutevano.
Era in corso una discussione seria e perfino accalorata su un pranzo d’addio che quei signori volevano organizzare l’indomani stesso, in comune, per il loro compagno Zverkov, che prestava servizio come ufficiale e partiva per un governatorato lontano. Monsieur Zverkov era sempre stato anche mio compagno di scuola. Avevo cominciato a odiarlo particolarmente dalle classi superiori. Nelle prime classi era soltanto un ragazzino carino, vivace, benvoluto da tutti. Io, del resto, lo odiavo anche nelle prime classi, e proprio perché era un ragazzino carino e vivace. A scuola andava costantemente male, e sempre peggio col passar del tempo; però aveva concluso felicemente gli studi, perché godeva di protezioni. Nell’ultimo anno di scuola aveva ricevuto un’eredità, duecento anime, e siccome noi compagni eravamo quasi tutti poveri, si era messo a fare lo spaccone con noi. Era una persona volgare al massimo grado, e tuttavia un bravo ragazzo, anche quando faceva lo spaccone. Da noi, intanto, nonostante le forme esteriori dell’onore e del sussiego, fantastiche e altisonanti, tutti, tranne pochissimi, cercavano addirittura di entrare nelle grazie di Zverkov, quanto più egli si millantava. E non facevano i leccapiedi per un qualche interesse, ma semplicemente perché lui era un uomo favorito dai doni della natura. Inoltre, da noi era una specie di consuetudine considerare Zverkov uno specialista in fatto di spigliatezza e buone maniere. Quest’ultima cosa mi mandava particolarmente in bestia. Odiavo il suono brusco, così sicuro di sé, della sua voce, il modo in cui venerava le proprie spiritosaggini, che gli riuscivano tremendamente stupide, anche se non frenava certo la lingua; odiavo il suo viso bello, ma un po’ stupido (col quale, del resto, avrei volentieri scambiato il mio intelligente) e quei modi disinvolti, tipici degli ufficiali degli anni quaranta. Odiavo che raccontasse dei suoi futuri successi con le donne (non si decideva a cominciare con loro, non avendo ancora le spalline da ufficiale, che quindi aspettava con impazienza) e di come si sarebbe battuto a duello a ogni piè sospinto. Ricordo che una volta, taciturno com’ero, a un tratto attaccai lite con Zverkov perché, ragionando nel tempo libero con i compagni delle sue future imprese di seduttore e scatenandosi alla fine come un giovane cucciolo al sole, a un certo punto aveva dichiarato che non si sarebbe lasciato scappare neppure una ragazza del suo villaggio, che quello era il suo droit de seigneur e che, se i contadini avessero osato protestare, li avrebbe frustati tutti e avrebbe raddoppiato il canone a tutte quante quelle canaglie barbute. I nostri tangheri applaudivano, ma io attaccai lite, e non certo per compassione delle ragazze e dei loro padri, ma semplicemente perché applaudivano così a un simile verme. Allora ebbi la meglio, ma Zverkov, benché fosse stupido, era allegro e audace, e perciò se la cavò con una battuta, e così abilmente che io, in verità, non trionfai del tutto: il riso restò dalla sua parte. In seguito ebbe ancora diverse volte la meglio su di me, ma senza risentimento, così, scherzando, di passaggio, ridendo. Io, risentito e sdegnoso, non gli rispondevo. Dopo la licenza fece un passo verso di me; io non mi opposi molto, perché ne ero lusingato; ma ben presto e naturalmente ci separammo. Poi sentii dei suoi successi di tenente di caserma, di come faceva baldoria. Poi cominciarono a girare altre voci: su come faceva carriera nell’esercito. Per strada non mi salutava più, e io sospettavo che temesse di compromettersi salutando un personaggio insignificante come me. Lo vidi anche una volta a teatro, in terza galleria, già con le cordelline. Faceva la corte con mille moine alle figlie di un vecchissimo generale. In tre anni si era molto lasciato andare, anche se era sempre piuttosto bello e agile; si era come gonfiato, aveva cominciato a ingrassare; si vedeva che entro i trent’anni sarebbe imbolsito del tutto. E dunque per questo stesso Zverkov, che finalmente partiva, volevano dare un pranzo i nostri compagni. L’avevano frequentato costantemente per tutti quei tre anni, anche se in fondo non si consideravano suoi pari, ne sono certo.
Dei due ospiti di Simonov uno era Ferfièkin, un russo di origine tedesca, basso di statura, con una faccia da scimmia, uno sciocco che prendeva sempre in giro tutti, mio acerrimo nemico fin dalle prime classi: vile, sfrontato, un fanfaronello che si dava le arie della più delicata suscettibilità pur essendo, s’intende, un fifone nell’anima. Era di quegli ammiratori di Zverkov che giocavano con lui per interesse e spesso gli chiedevano denaro in prestito. L’altro ospite di Simonov, Trudoljubov, era un personaggio insignificante, un militare di alta statura, con una fisionomia fredda, un ragazzo piuttosto onesto, ma che si inchinava davanti a qualsiasi successo ed era capace di discutere soltanto di promozioni. Era non so che lontano parente di Zverkov, e questo, per quanto sia stupido dirlo, gli conferiva una certa importanza in mezzo a noi. Mi aveva sempre considerato una nullità; comunque mi trattava, se non proprio cortesemente, almeno in modo passabile.
«Be’, mettendo sette rubli a testa», prese a dire Trudoljubov, «siamo in tre, fan ventun carte: si può pranzar bene. Zverkov, naturalmente, non paga».
«È ovvio, visto che siamo noi a invitarlo», decise Simonov.
«Pensate davvero», s’intromise Ferfièkin con arroganza e calore, come uno sfrontato lacchè che si vanta delle onorificenze del generale suo padrone, «pensate davvero che Zverkov lascerà pagare noi soli? Lo accetterà per delicatezza, ma in compenso offrirà una mezza dozzina da parte sua».
«Su, che ce ne facciamo in quattro di mezza dozzina?», osservò Trudoljubov, che aveva prestato attenzione soltanto alla mezza dozzina.
«Allora in tre, con Zverkov quattro, ventun rubli, all’Hótel de Paris domani alle cinque», concluse definitivamente Simonov, che avevano eletto organizzatore.
«Come sarebbe a dire ventuno?», dissi io con una certa agitazione, in tono addirittura offeso. «Se calcoliamo anche me, fanno non ventuno, ma ventotto rubli».
Mi era parso che la mia proposta improvvisa e così inattesa sarebbe suonata perfino molto bella, e che essi ne sarebbero stati subito conquistati e mi avrebbero guardato con rispetto.
«Perché, forse vuole anche lei?», osservò scontento Simonov, evitando in qualche modo di guardarmi. Mi conosceva a memoria.
Mi mandò in bestia che mi conoscesse a memoria.
«E perché no? Fino a prova contraria sono un compagno anch’io e, lo confesso, mi offende perfino che abbiate fatto tutto senza di me», ricominciai a gorgogliare.
«E dove dovevamo cercarla?», s’intromise sgarbatamente Ferfièkin.
«Lei non è mai andato d’accordo con Zverkov», aggiunse Trudoljubov accigliandosi. Ma io ormai mi ero appigliato e non demordevo.
«Mi sembra che nessuno abbia il diritto di giudicare di questo», ribattei con un tremito nella voce, come fosse successo Dio sa cosa. «Forse adesso voglio proprio perché prima non ci andavo d’accordo».
«Be’, chi la capisce... certe elevatezze...», sogghignò Trudoljubov.
«La metteremo in lista», decise, rivolgendosi a me, Simonov, «domani alle cinque all’Hotel de Paris; non si sbagli».
«I soldi!», cominciò Ferfièkin sottovoce, indicandomi a Simonov con un cenno del capo, ma si bloccò, perché perfino Simonov si era confuso.
«Basta», disse Trudoljubov alzandosi. «Visto che ne ha tanta voglia, che venga pure».
«Ma siamo un gruppetto di amici», si arrabbiò Ferfièkin, prendendo anche lui il cappello. «Non è una riunione ufficiale. Può darsi che noi non la vogliamo affatto...».
Se ne andarono; Ferfièkin, uscendo, non mi salutò neppure, Trudoljubov mi fece appena un cenno col capo, senza guardarmi. Simonov, col quale restai a quattr’occhi, era in preda a una stizzosa perplessità e mi guardò stranamente. Non si sedeva né mi invitava a farlo.
«Hmm... sì... allora a domani. E il denaro lo versa adesso? Lo dico per saperlo di sicuro», borbottò imbarazzato.
Avvampai, ma avvampando ricordai che da tempo immemorabile dovevo a Simonov quindici rubli, cosa di cui, del resto, non mi ero mai dimenticato, e però non li avevo mai restituiti.
«Convenga lei stesso, Simonov, che non potevo sapere, entrando qui... e mi secca molto di aver dimenticato...»
«Va bene, va bene, fa lo stesso. Pagherà domani durante il pranzo. Lo dicevo solo per sapere... La prego...».
Si bloccò e cominciò a passeggiare per la stanza con ancor maggior dispetto. Camminando, cominciò a poggiare sui tacchi e quindi a battere più forte i piedi.
«Non la starò trattenendo?», domandai dopo un silenzio di due minuti.
«Oh, no!», si riscosse a un tratto. «Cioè, a dir la verità, sì. Vede, devo ancora passare... Qui vicino...», aggiunse con una voce di scusa e vergognandosi un po’.
«Ah, Dio mio! Ma perché non lo dice!», esclamai afferrando il berretto, con un’aria del resto sorprendentemente disinvolta, venutami Dio sa da dove.
«Ma non è lontano... A due passi da qui...», ripeteva Simonov, accompagnandomi fino all’anticamera con un’aria indaffarata che non gli si addiceva affatto. «Dunque domani alle cinque esatte!», mi gridò sulla scala: tanto era contento che me ne andassi. Io invece ero furioso.
«Cosa mi è saltato in mente, cosa mi è saltato in mente di cacciarmi in questa storia!», digrignavo i denti, camminando a gran passi per la via. «E per un mascalzone simile, per quel porcellino di Zverkov! È chiaro che non bisogna andarci; è chiaro che me ne infischio: sono forse obbligato, eh? Domani stesso informerò Simonov per posta...».
Ma mi infuriavo proprio perché sapevo per certo che sarei andato; che ci sarei andato apposta; e quanto più indelicato, quanto più sconveniente sarebbe stato, tanto più mi sarei affrettato ad andarci.
C’era perfino un impedimento sostanziale: ero senza soldi. Avevo nove rubli in tutto. Ma sette di questi bisognava versarli l’indomani stesso come stipendio mensile ad Apollon, il mio servitore, che viveva da me per sette rubli, vitto escluso.
Non darglieli era impossibile, dato il carattere di Apollon. Ma di questa canaglia, di questa mia peste parlerò in seguito, quando sarà il momento.
E nonostante tutto sapevo bene che non glieli avrei dati, e sarei andato a ogni costo.
Quella notte feci i sogni più orrendi. Non c’è da meravigliarsi: per tutta la sera ero stato oppresso dai ricordi degli anni di galera della mia vita scolastica, e non potevo liberarmene. Mi avevano cacciato in quella scuola dei miei lontani parenti, dai quali dipendevo e dei quali da allora non ho più avuto notizia - mi ci cacciarono già avvilito dai loro rimproveri, un orfano già meditabondo, taciturno, che si guardava intorno con aria selvatica. I compagni mi accolsero con cattive e impietose canzonature perché non somigliavo a nessuno di loro. Ma io non potevo sopportare le canzonature; non potevo familiarizzarmi con la stessa facilità con cui gli altri familiarizzavano tra loro. Presi subito a detestarli e mi asserragliai in un orgoglio pavido, mortificato e smisurato. La loro villania mi indignava. Essi ridevano cinicamente della mia faccia, della mia figura goffa; e intanto che facce stupide avevano loro stessi! Nella nostra scuola le espressioni dei visi chissà come istupidivano e degeneravano in modo particolare. Quanti bambini bellissimi arrivavano da noi. Pochi anni dopo faceva perfino ribrezzo guardarli. Già a sedici anni li osservavo con cupo stupore; già allora mi meravigliava la piccineria del loro modo di pensare, la stupidità delle loro occupazioni, dei loro giochi e discorsi. Non capivano cose così importanti, non si interessavano di argomenti così suggestivi e avvincenti, che senza volerlo cominciai a considerarli inferiori a me. Non vi ero spinto dalla vanità offesa e, per carità, non saltatemi fuori con obiezioni trite e ritrite, venute ormai alla nausea: “che io sognavo soltanto, mentre loro capivano già la vita reale”. Macché, non capivano niente, nessuna vita reale, e, vi giuro, proprio questo mi indignava maggiormente in loro. Al contrario, interpretavano con madornale stupidità la realtà più evidente, che feriva gli occhi, e già allora erano abituati a inchinarsi soltanto al successo. Di tutto ciò che era giusto, ma umiliato e calpestato, essi ridevano crudelmente e ignominiosamente. Consideravano intelligenza il grado; a sedici anni già ragionavano di posticini caldi. Naturalmente molto qui derivava dalla stupidità e dal cattivo esempio che avevano costantemente circondato la loro infanzia e adolescenza. Erano viziosi fino alla mostruosità. S’intende, anche qui c’era più che altro esteriorità, ostentato cinismo; s’intende, la giovinezza e una certa freschezza trapelavano anche in loro perfino attraverso il vizio; ma in essi anche la freschezza era poco attraente e si manifestava in una certa cialtroneria. Io li odiavo terribilmente, benché, forse, fossi anche peggiore di loro. Essi mi ripagavano di ugual moneta e non nascondevano la loro repulsione per me. Ma io ormai non desideravo il loro amore; al contrario, bramavo costantemente la loro umiliazione. Proprio per evitare le loro canzonature, mi impegnai moltissimo nello studio e mi guadagnai un posto fra i primissimi. La cosa incuté loro rispetto. Inoltre, tutti cominciarono a poco a poco a capire che ormai leggevo dei libri che loro non potevano leggere, e capivo delle cose (che non rientravano nel programma del nostro corso specifico) di cui loro non avevano neppure sentito parlare. Consideravano la cosa con rozzo sarcasmo, ma moralmente si sottomettevano, tanto più che perfino gli insegnanti si erano accorti di me a questo riguardo. Le canzonature cessarono, ma rimase l’antipatia, e si stabilirono dei rapporti freddi, tesi. Verso la fine fui io a non resistere: con gli anni si sviluppava in me un bisogno di contatti umani, di amicizie. Provai ad avvicinarmi ad alcuni; ma questo avvicinamento risultava sempre innaturale e finiva con l’esaurirsi da sé. Una volta ebbi, non so come, anche un amico. Ma ero già un despota nell’animo; volevo avere il dominio incontrastato della sua anima; volevo inculcargli il disprezzo per l’ambiente circostante; pretesi da lui un’altezzosa e definitiva rottura con quell’ambiente. Lo spaventai con la mia amicizia appassionata; lo portavo fino alle lacrime, alle convulsioni; era un’anima ingenua e capace di donarsi; ma quando mi si fu donato tutto, io subito presi a odiarlo e lo respinsi da me: come se ne avessi avuto bisogno solo per riportare una vittoria su di lui, solo per sottometterlo. Ma non potevo vincere tutti; anche il mio amico non somigliava a nessuno di loro e rappresentava una rarissima eccezione. La prima cosa che feci appena uscito dalla scuola fu lasciare l’impiego speciale a cui ero destinato, per spezzare tutti i fili, maledire il passato e ricoprirlo di polvere... E lo sa il diavolo perché dopo ciò mi ero trascinato da quel Simonov!...
La mattina presto mi alzai in fretta dal letto, balzai su agitato, come se tutto dovesse cominciare a compiersi da un momento all’altro. Ma credevo che sarebbe sopravvenuta, e assolutamente quel giorno stesso, una svolta radicale nella mia vita. Forse perché non vi ero abituato, ma per tutta la vita mi è sempre parso che qualsiasi avvenimento esteriore, anche il più insignificante, avrebbe segnato una svolta radicale nella mia vita. Del resto, mi recai in ufficio come al solito, ma filai a casa due ore prima, per prepararmi. L’essenziale, pensavo, era non arrivare per primo, altrimenti avrebbero pensato che non stavo in me dalla contentezza. Ma di quelle cose essenziali ce n’erano migliaia, e tutte mi agitavano fino a privarmi delle forze. Con le mie stesse mani mi lucidai ancora una volta gli stivali; per nulla al mondo Apollon avrebbe acconsentito a lucidarli due volte al giorno, trovandolo contrario al buon ordine. Così li lucidai io, rubando le spazzole dall’anticamera, perché egli non se ne accorgesse e non prendesse poi a disprezzarmi. Quindi esaminai minuziosamente il mio vestito e constatai che tutto era vecchio, liso, consunto. Ero proprio diventato troppo sciatto. Magari l’uniforme di servizio era anche in ordine, ma non potevo certo andare a pranzo in uniforme. E soprattutto sui pantaloni, proprio sul ginocchio, c’era un’enorme macchia gialla. Presentivo che già soltanto quella macchia mi avrebbe tolto nove decimi della mia dignità. Sapevo anche che era molto meschino pensare così. “Ma non è questo il momento per le elucubrazioni; ora arriva la realtà, pensavo e mi scoraggiavo. E nello stesso tempo, già allora, sapevo benissimo che stavo mostruosamente esagerando tutti quei fatti; ma che potevo farci: ormai non potevo dominarmi, e tremavo per la febbre. Con disperazione mi immaginavo con che sufficienza e freddezza mi avrebbe accolto quel “mascalzone” di Zverkov; con che ottuso, invincibile disprezzo mi avrebbe guardato quel testone di Trudoljubov; che risolini osceni e insolenti mi avrebbe indirizzato quel verme di Ferfièkin, per compiacere Zverkov; con che chiarezza Simonov avrebbe capito tutto fra sé e come mi avrebbe disprezzato per la bassezza della mia vanità e pusillanimità e, soprattutto, come tutto ciò sarebbe stato misero, poco letterario, banale. Naturalmente era meglio non andarci affatto. Ma proprio questa era la cosa più inattuabile: quando cominciavo a sentirmi attratto, ormai mi ci buttavo tutto, a capofitto. Altrimenti poi mi sarei preso in giro per tutta la vita: “E allora, hai avuto paura, paura della realtà, hai avuto paura!”. Al contrario, volevo appassionatamente dimostrare a tutte quelle “mezze cartucce” che non ero affatto quel vigliacco che io stesso m’immaginavo. Non basta: nell’estremo parossismo della mia febbre codarda sognavo di avere il sopravvento, di conquistarli, affascinarli, costringerli ad amarmi - non foss’altro che “per gli elevati pensieri e l’indubbia arguzia”. Avrebbero abbandonato Zverkov, egli sarebbe rimasto seduto in disparte, a tacere e vergognarsi, e io lo avrei schiacciato. Poi, magari, mi sarei riconciliato con lui e avrei bevuto al nostro tu; ma quel che più mi esasperava e indisponeva era che già allora sapevo, sapevo pienamente e sicuramente che in realtà non avevo bisogno di nulla di tutto ciò, che in realtà non desideravo affatto schiacciarli, soggiogarli, attrarli, e che per un simile risultato, se solo lo avessi raggiunto, io stesso, per primo, non avrei dato un soldo. Oh, come pregavo Iddio perché passasse al più presto quella giornata! In preda a un’inesprimibile angoscia andavo alla finestra, aprivo lo spiraglio e scrutavo la torbida foschia della neve fradicia che cadeva fitta...
Finalmente la mia misera pendola batté sfrigolando le cinque. Afferrai il cappello e, cercando di non guardare Apollon, che fin dal mattino aspettava che gli pagassi lo stipendio, ma per orgoglio non voleva parlarne per primo, gli scivolai davanti, infilai la porta e su una carrozza di lusso, che noleggiai apposta con l’ultimo mezzo rublo, arrivai come un signore all’hotel de Paris.

XV

Fin dalla vigilia sapevo che sarei arrivato per primo. Ma ormai non si trattava di precedenze.
Non solo non c’era nessuno di loro, ma faticai perfino a trovare la nostra saletta. La tavola non era ancora apparecchiata del tutto. Che significava dunque? Dopo molte domande riuscii finalmente a sapere dai camerieri che il pranzo era ordinato per le sei, e non per le cinque. Me lo confermarono al buffet. Mi vergognai perfino di chiedere. Erano solo le cinque e venticinque. Se avevano cambiato l’ora, in ogni caso avrebbero dovuto avvisarmi, c’era apposta il servizio postale; e non espormi “all’onta” sia davanti a me stesso che... be’, anche davanti ai camerieri. Mi sedetti; un cameriere cominciò ad apparecchiare; in sua presenza mi sentii ancor più stizzito. Per le sei, oltre alle lampade accese, nella sala furono portate delle candele. Il cameriere però non aveva pensato di portarle subito, quando ero arrivato io. Nella stanza accanto pranzavano in silenzio, a tavoli diversi, due clienti cupi, dall’aria arrabbiata. In una delle sale lontane c’era molto chiasso; gridavano addirittura; si udivano le risate di un’intera compagnia di persone; si sentivano degli sgradevoli strilli in francese: tutto era un pranzo con signore. In una parola, tutto era molto nauseante. Raramente avevo passato un momento peggiore, cosicché quando, alle sei in punto, loro comparvero tutti insieme, sulle prime me ne rallegrai come se fossero dei liberatori e per poco non dimenticai che ero tenuto ad avere un’aria offesa.
Zverkov entrò davanti a tutti, come un capo riconosciuto. Sia lui che gli altri ridevano; ma, vedendomi, Zverkov si diede un contegno, si avvicinò senza fretta, piegandosi un po’ sulla vita quasi con civetteria, e mi diede la mano, affettuosamente ma non troppo, con una cortesia un po’ cauta, quasi da generale, come se dandomi la mano si proteggesse da qualcosa. Io invece mi ero immaginato che appena entrato sarebbe esploso nella sua risata di un tempo, sottile e a gridolini, e fin dalle prime parole sarebbero cominciati i suoi scherzi e le sue battute insulse. Io mi ci ero preparato fin dalla sera prima, ma non mi ero certo immaginato una benevolenza così sufficiente, così superiore. Dunque ormai si riteneva così incommensurabilmente superiore a me sotto tutti i punti di vista? Se avesse voluto soltanto offendermi con quella boria da generale, sarebbe stato ancor niente, pensavo; me ne sarei infischiato, in un modo o nell’altro. Ma se invece davvero, senza alcun desiderio di offendere, nella sua zucca di montone si fosse seriamente insinuata l’ideuzza di essere incommensurabilmente superiore a me e di non potermi guardare altrimenti che con aria di protezione? A quella sola supposizione mi sentivo soffocare.
«Ho appreso con meraviglia il suo desiderio di essere dei nostri», cominciò, con pronuncia biascicante e un poco blesa, e strascicando le parole come non aveva mai fatto prima. «Chissà come, non ci siamo mai più incontrati. Lei ci evita. Fa male. Non siamo così spaventosi come le sembra. Ebbene, in ogni caso sono lieto di rin-no-va-re...».
E si girò con noncuranza per posare il cappello sul davanzale.
«È molto che aspetta?», domandò Trudoljubov.
«Sono arrivato alle cinque in punto, come mi era stato fissato ieri», risposi ad alta voce e con un’irritazione che prometteva uno scoppio imminente.
«Ma non gli hai fatto sapere che avevamo cambiato l’ora?», Trudoljubov si rivolse a Simonov.
«No. Me ne sono dimenticato», rispose questi, ma senza alcun rammarico, e, senza neppure scusarsi con me, andò a ordinare gli antipasti.
«Dunque è qui già da un’ora, oh, poverino!», esclamò sarcastico Zverkov, dato che, secondo i suoi concetti, la cosa doveva essere davvero terribilmente ridicola. Dopo di lui, con la sua vocetta vile, squillante come quella di un cagnolino, scoppiò a ridere quel farabutto di Ferfièkin. Anche a lui la mia posizione era sembrata assai ridicola e imbarazzante.
«Non c’è niente da ridere!», gridai a Ferfièkin, irritandomi sempre di più. «La colpa è degli altri, non mia. Non si son presi la briga di informarmi. È... è... è... semplicemente assurdo».
«Non solo è assurdo, ma anche qualcos’altro», brontolò Trudoljubov, prendendo ingenuamente le mie difese. «Lei è fin troppo tenero. Una scortesia bella e buona. Naturalmente, non voluta. E come ha potuto Simonov... hmm!».
«Se questo tiro l’avessero giocato a me», osservò Ferfièkin, «io...».
«Ma poteva ordinare che le portassero qualcosa», interruppe Zverkov, «o semplicemente farsi servire il pranzo senza aspettarci».
«Convenga che avrei potuto farlo senza chiedere il permesso a nessuno», troncai io. «Se ho aspettato, è perché...».
«Sediamoci, signori», gridò Simonov, rientrando, «è tutto pronto; rispondo io dello champagne, è ghiacciato alla perfezione... Ma io non sapevo il suo indirizzo, dove potevo rintracciarla?», mi si rivolse a un tratto, ma di nuovo senza guardarmi. Evidentemente aveva qualcosa contro di me. Si vede che dopo la giornata di ieri ci aveva ripensato.
Tutti si sedettero; mi sedetti anch’io. Il tavolo era rotondo. Alla mia sinistra capitò Trudoljubov, alla destra Simonov. Zverkov si sedette di fronte; Ferfièkin accanto, fra lui e Trudoljubov.
«Mi di-i-ica, lei... lavora in un dipartimento?», Zverkov continuava a occuparsi di me. Vedendomi imbarazzato, si era seriamente immaginato di dovermi vezzeggiare e, per così dire, rincuorare. “Cos’è, vuole che gli lanci una bottiglia?”, pensai fuori di me. Disabituato com’ero, mi irritavo con rapidità innaturale.
«Nella cancelleria di...», risposi a scatti, guardando il piatto.
«E... le conviene? Mi di-ica, che cosa l’ha indo-otto a lasciare il posto di prima?»
«Mi ha indo-o-o-tto il fatto che mi è venuta voglia di lasciare il posto di prima», risposi strascicando il triplo, ormai quasi incapace di dominarmi. Ferfièkin trattenne un risolino. Simonov mi guardò ironicamente; Trudoljubov smise di masticare e prese a osservarmi con curiosità.
Zverkov trasalì, ma fece finta di niente.
«Ebb-e-ene, e com’è il suo trattamento?»
«Quale trattamento?»
«Cioè lo s-stipendio?»
«Ma cos’è, un esame?».
Del resto, dichiarai subito quanto ricevevo di stipendio. Ero terribilmente arrossito.
«Modesto», osservò con sussiego Zverkov.
«E già, c’è poco da pranzare al caffè-ristorante!», aggiunse insolente Ferfièkin.
«Secondo me è addirittura misero», osservò seriamente Trudoljubov.
«E com’è dimagrito, com’è cambiato... da allora...», aggiunse Zverkov, ormai non senza veleno, con una sorta di sfrontata pietà, osservando me e il mio vestito.
«Ma basta metterlo in imbarazzo», esclamò Ferfièkin con un risolino.
«Egregio signore, sappia che io non mi imbarazzo», sbottai alla fine, «mi sente? Io pranzo qui, “al caffè-ristorante”, con i miei soldi, con i miei, e non con quelli altrui, noti bene, monsieur Ferfièkin».
«Co-ome! E chi sarebbe che qui non pranza con i suoi soldi? Mi pare che lei...», mi aggredì Ferfièkin, arrossendo come un gambero e guardandomi negli occhi inviperito.
«Già», risposi io, sentendo di essermi spinto troppo in là, «suppongo che sia meglio impegnarci in una conversazione più intelligente».
«A quanto pare lei ha intenzione di sfoggiare la sua intelligenza?»
«Non si preoccupi, qui sarebbe del tutto superfluo».
«Ma perché, signor mio, si è messo a starnazzare così? Eh? Non sarà che le ha dato di volta il cervello, nel suo dipartimento da burla?»
«Basta, signori, basta!», si mise a gridare imperiosamente Zverkov.
«Quanto è stupido tutto ciò!», borbottò Simonov.
«Davvero, è stupido, ci siamo riuniti in amichevole compagnia per augurare buon viaggio a un caro amico, e lei pensa a regolare dei conti», prese a dire Trudoljubov, rivolgendosi sgarbatamente a me solo. «Ieri lei si è invitato da solo, dunque non turbi l’armonia generale...».
«Basta, basta», gridava Zverkov. «Smettetela, signori, così non va. Ecco, piuttosto vi racconterò come ho rischiato di sposarmi due giorni fa...».
E qui cominciò una buffonata su come quel signore aveva rischiato di sposarsi due giorni prima. Del matrimonio, del resto, non si diceva una sola parola, ma nel racconto balenavano continuamente generali, colonnelli e perfino gentiluomini di camera, e Zverkov fra loro era poco meno che il capo. Cominciarono le risate di approvazione; Ferfièkin lanciava addirittura dei gridolini.
Tutti mi lasciarono perdere, e io sedevo lì, schiacciato e annientato.
“Signore, è forse questa la società per me?”, pensavo. “E che figura da scemo ho fatto davanti a loro! Comunque, ho concesso troppo a Ferfièkin. Gli imbecilli pensano di avermi fatto un onore, dandomi un posto alla loro tavola, e non capiscono che invece sono io, io a far loro un onore, e non loro a me! ‘Dimagrito! Il vestito!’ Oh, dannati pantaloni! Zverkov aveva notato già prima la macchia gialla sul ginocchio... Ma che ci faccio qui! Subito, in questo stesso istante alzarmi da tavola, prendere il cappello e semplicemente andarmene, senza dire una parola... Per disprezzo! E domani magari a duello. Vigliacchi. Non deve mica rincrescermi per sette rubli. Magari penseranno... Al diavolo! Non mi rincresce per i sette rubli! Me ne vado in questo istante!...”.
Ovviamente rimasi.
Per il dolore bevevo Lafitte e Sherry un bicchiere dopo l’altro. Disabituato com’ero, mi ubriacavo in fretta, e con l’ubriachezza cresceva anche il dispetto. A un tratto mi venne voglia di offenderli tutti nel modo più temerario e poi andarmene. Cogliere il momento e rivelarmi: che dicessero: anche se è ridicolo, però è intelligente... e... insomma, che andassero al diavolo!
Li guardai tutti sfrontatamente con gli occhi inebetiti. Ma loro sembravano avermi dimenticato del tutto. Loro facevano chiasso, gridavano, si divertivano. Parlava sempre Zverkov. Cominciai a prestare ascolto. Zverkov raccontava di una dama opulenta che aveva portato infine a dichiararsi (ovviamente mentiva senza ritegno), e che in quella faccenda l’aveva aiutato particolarmente un suo intimo amico, un certo principino, l’ussaro Kolja, che aveva tremila anime.
«E intanto quel Kolja che ha tremila anime non c’è mica qui a salutarla», mi intromisi a un tratto nella conversazione. Per un minuto tutti tacquero.
«Lei è già ubriaco a quest’ora», acconsentì infine a notarmi Trudoljubov, lanciando un’occhiata sdegnosa dalla mia parte. Zverkov mi osservava in silenzio come fossi un moscerino. Abbassai gli occhi. Simonov si mise a versare in fretta lo champagne.
Trudoljubov alzò il bicchiere, e tutti lo imitarono, tranne me.
«Alla tua salute, e buon viaggio!», gridò a Zverkov. «Per gli anni passati, signori, per il nostro futuro, urrà!».
Tutti bevvero e si fecero avanti per baciare Zverkov. Io non mi mossi; il bicchiere pieno stava intatto davanti a me.
«E lei non vuol bere?», ruggì Trudoljubov, che aveva perso la pazienza, rivolgendosi minacciosamente a me.
«Voglio fare un discorso da parte mia, personalmente... e allora berrò, signor Trudoljubov».
«Odioso guastafeste!», brontolò Simonov.
Io mi raddrizzai sulla sedia e presi il bicchiere in preda alla febbre, preparandomi a qualcosa di straordinario e non sapendo ancora quel che avrei detto esattamente.
«Silence!», gridò Ferfièkin. «Ora sentirete il vero ingegno!». Zverkov aspettava tutto serio, comprendendo di che si trattava.
«Signor tenente Zverkov», cominciai, «sappia che io odio le frasi, i fraseggiatori e le cinture troppo strette in vita... Questo è il primo punto, a cui seguirà il secondo».
Tutti si mossero nervosamente.
«Secondo punto: odio gli amorazzi e i dongiovanni. E soprattutto i dongiovanni!».
«Terzo punto: amo la verità, la sincerità e l’onestà», continuavo quasi macchinalmente, perché ormai cominciavo a sentirmi raggelare dal terrore, non comprendendo come mai parlavo così... «Amo il pensiero, monsieur Zverkov; amo il vero cameratismo, su basi di parità, e non... hmm... Amo... E del resto, perché no? Anch’io bevo alla sua salute, monsieur Zverkov. Seduca le circasse, spari ai nemici della patria e... e... Alla sua salute, monsieur Zverkov!».
Zverkov si alzò dalla sedia, s’inchinò e mi disse:
«Le sono molto grato».
Era terribilmente offeso e perfino impallidito.
«Al diavolo», ruggì Trudoljubov, pestando il pugno sul tavolo.
«Nossignori, è da spaccargli la faccia!», strillò Ferfièkin.
«Bisogna cacciarlo fuori!», mormorò Simonov.
«Non una parola, né un gesto, signori!», gridò solennemente Zverkov, fermando l’indignazione generale. «Vi ringrazio tutti, ma saprò dimostrargli io stesso quanto valuti le sue parole».
«Signor Ferfièkin, domani stesso mi darà soddisfazione per le sue parole di poco fa!», dissi ad alta voce, rivolgendomi altezzosamente a Ferfièkin.
«Cioè un duello? Prego», rispose, ma probabilmente ero così ridicolo, mentre lo sfidavo, e la cosa si addiceva così poco alla mia figura, che tutti, e al loro seguito anche Ferfièkin, si piegarono in due dal ridere.
«Sì, naturalmente, bisogna lasciarlo perdere! È ormai completamente ubriaco!», disse con ripugnanza Trudoljubov.
«Non mi perdonerò mai di averlo messo in lista!», mormorò di nuovo Simonov.
“Ecco, adesso bisognerebbe lanciargli addosso una bottiglia, a tutti quanti”, pensai, presi la bottiglia e... mi riempii un bicchiere.
“...No, meglio che resti fino alla fine!”, continuavo a pensare. “Voi sareste contenti, signori, se me ne andassi. Neanche per idea. Apposta resterò e berrò fino alla fine, per mostrare che non vi attribuisco la minima importanza. Resterò e berrò, perché questa è una bettola, e i soldi per l’ingresso li ho pagati. Resterò e berrò, perché vi considero dei fantocci, dei fantocci inesistenti. Resterò e berrò... e canterò, se ne avrò voglia, sissignori, canterò, perché ne ho il diritto... di cantare... hmm”.
Ma non cantavo. Cercavo soltanto di non guardare nessuno di loro; assumevo le pose più indipendenti e aspettavo con impazienza che loro, per primi, attaccassero discorso con me. Ma, ahimè, non l’attaccarono. E come avrei desiderato, come avrei desiderato in quel momento di riconciliarmi con loro! Suonarono le otto, infine le nove. Essi passarono dalla tavola al divano. Zverkov si distese sul sofà, posando un piede su un tavolino rotondo. Portarono lì anche il vino. Egli offrì effettivamente tre bottiglie di suo. S’intende che non mi invitò. Tutti gli si sedettero intorno sul divano. Lo ascoltavano quasi con venerazione. Si vedeva che gli volevano bene. “Perché? perché?”, pensavo fra me. Di tanto in tanto li prendeva un entusiasmo da ubriachi e si baciavano. Parlavano del Caucaso, di cosa sia una vera passione, di gioco d’azzardo, di posti di lavoro vantaggiosi; di quanto avesse di rendita l’ussaro Podcharzevskij, che nessuno di loro conosceva personalmente, e si rallegravano che avesse una rendita cospicua; della straordinaria bellezza e grazia della principessa D., che pure nessuno di loro aveva mai visto; finalmente si arrivò all’affermazione che Shakespeare è immortale.
Io sorridevo sdegnoso e passeggiavo dall’altra parte della stanza, dritto di fronte al divano, lungo la parete, dal tavolo alla stufa e viceversa. Con tutte le forze volevo dimostrare che potevo fare a meno di loro; ma intanto pestavo di proposito gli stivali, appoggiando i tacchi. Ma tutto era inutile. Loro non ci facevano neppure caso. Ebbi la pazienza di camminare così, sotto il loro naso, dalle otto alle undici, sempre nello stesso spazio, dal tavolo alla stufa e dalla stufa di nuovo al tavolo. “Mi va di passeggiare così, e nessuno può proibirmelo”. Il cameriere che era entrato nella stanza si fermò diverse volte a guardarmi; per le frequenti svolte mi girava la testa; in certi momenti credevo di delirare. In quelle tre ore cominciai a sudare e mi riasciugai tre volte. A tratti, con profondissimo, velenoso dolore mi trafiggeva il cuore un pensiero: che sarebbero passati dieci anni, vent’anni, quarantanni, e anche dopo quarantanni avrei pur sempre ricordato con ripugnanza e umiliazione quei momenti, i più laidi, ridicoli e orribili di tutta la mia vita. Era impossibile umiliare se stessi in modo più vergognoso e deliberato, e io lo capivo perfettamente, perfettamente, e tuttavia continuavo a camminare dal tavolo alla stufa e viceversa. “Oh, se solo voi sapeste di quali sentimenti e pensieri sono capace e come sono evoluto!”, pensavo in certi momenti, rivolgendomi mentalmente al divano dove sedevano i miei nemici. Ma i miei nemici si comportavano come se non fossi neppure nella stanza. Una volta, una volta sola si girarono verso di me, e fu quando Zverkov cominciò a parlare di Shakespeare, e io di punto in bianco mi misi a ridere sprezzantemente. Simulai la mia risata in modo così plateale e disgustoso che tutti di colpo interruppero la conversazione e osservarono in silenzio per un paio di minuti, seriamente, senza ridere, come camminavo lungo la parete, dal tavolo alla stufa, e come non prestavo alcuna attenzione a loro. Ma non ne sortì nulla: non mi rivolsero la parola e di lì a due minuti mi lasciarono nuovamente perdere. Suonarono le undici.
«Signori», gridò Zverkov, alzandosi dal divano, «e adesso tutti là».
«Naturalmente, naturalmente!», fecero coro gli altri.
Mi volsi bruscamente verso Zverkov. Ero così distrutto, così estenuato, che volevo farla finita, a costo di ammazzarmi! Avevo la febbre; i capelli bagnati di sudore mi si erano appiccicati alla fronte e alle tempie.
«Zverkov! Le chiedo scusa», dissi bruscamente e risolutamente, «Ferfièkin, anche a lei, a tutti, a tutti, ho offeso tutti!».
«Aha! Il duello non fa per lei», sibilò velenosamente Ferfièkin.
Sentii una coltellata al cuore.
«No, non è il duello che mi fa paura, Ferfièkin! Sono pronto a battermi con lei domani stesso, anche dopo la riconciliazione. Anzi insisto su questo, e lei non può rifiutarmelo. Voglio dimostrarle che non ho paura del duello. Lei sparerà per primo, e io sparerò in aria».
«Si illude da solo», osservò Simonov.
«Semplici spacconate!», rispose Trudoljubov.
«Ma ci lasci passare, perché si è messo in mezzo alla strada!... Allora, che le occorre?», rispose sprezzantemente Zverkov. Erano tutti rossi; i loro occhi luccicavano: avevano bevuto molto.
«Chiedo la sua amicizia, Zverkov, io l’ho offesa, ma... »
«Offeso? L-lei! Me-e! Sappia, egregio signore, che lei non può mai e in nessuna circostanza offendere me!».
«E adesso la pianti, si levi di torno!», rincarò Trudoljubov. «Andiamo».
«Olimpia è mia, signori, patti chiari!», gridò Zverkov.
«Non contestiamo! Non contestiamo!», gli rispondevano ridendo.
Io restavo lì, oltraggiato. La compagnia usciva chiassosamente dalla stanza, Trudoljubov si mise a strascicare non so che stupida canzone. Simonov rimase un attimino solo, per dare la mancia ai camerieri. A un tratto mi avvicinai a lui.
«Simonov! Mi dia sei rubli!», dissi risolutamente e disperatamente.
Mi guardò estremamente stupito, con gli occhi inebetiti. Anche lui era ubriaco.
«Non vorrà venire anche là con noi?»
«Sì!».
«Non ho denaro!», troncò lui, fece un sorrisetto sprezzante e uscì dalla stanza.
Lo afferrai per il cappotto. Era un incubo.
«Simonov! Glieli ho visti, i soldi, perché me li rifiuta? Sono forse un poco di buono? Badi di non rifiutare: se sapesse perché lo chiedo! Da ciò dipende tutto, tutto il mio futuro, tutti i miei progetti...».
Simonov tirò fuori i soldi e quasi me li gettò.
«Prenda, visto che non ha il minimo pudore!», disse spietatamente e corse a raggiungerli.
Rimasi solo per un momento. Disordine, avanzi, un bicchiere rotto sul pavimento, vino versato, mozziconi di sigarette, ebbrezza e delirio nella testa, una tormentosa angoscia nel cuore e, infine, il lacchè che aveva visto e sentito tutto e mi guardava incuriosito negli occhi.
«Là!», esclamai. «O tutti loro imploreranno la mia amicizia in ginocchio, abbracciandomi le gambe, oppure... oppure darò uno schiaffo a Zverkov!».

XVI

«Dunque eccolo, dunque eccolo finalmente lo scontro con la realtà», borbottavo, scendendo precipitosamente le scale. «Questo non è più il papa che abbandona Roma e parte per il Brasile; questo non è più il ballo sul lago di Como!».
“Sei un farabutto!”, mi passò per il capo, “se adesso ridi di questo!”.
«Sia pure!», gridai, rispondendo a me stesso. «Tanto ormai tutto è perduto!».
Gli altri erano già scomparsi senza lasciare traccia; ma poco importava: sapevo dov’erano andati.
Davanti all’ingresso sostava solitario un misero vetturino in servizio notturno, con un pastrano di panno ruvido, tutto ricoperto della neve fradicia e quasi tiepida che continuava a cadere. C’era vapore e si soffocava. Anche il suo piccolo cavalluccio pezzato e irsuto era tutto ricoperto di neve e tossiva; lo ricordo perfettamente. Mi lanciai nella slitta di tiglio; ma appena feci per ritirare la gamba per sedermi, il ricordo di come Simonov mi aveva appena dato i sei rubli mi piegò le ginocchia, e piombai nella slitta come un sacco.
«No! Bisognerà fare molto per riscattare tutto questo!», gridai. «Ma io lo riscatterò o in questa stessa notte perirò sul posto. Via!».
Ci muovemmo. Tutto un turbine vorticava nella mia testa.
“Non supplicheranno mai in ginocchio la mia amicizia. È un miraggio, un volgare miraggio, disgustoso, romantico e fantastico; proprio come il ballo sul lago di Como. E perciò devo dare uno schiaffo a Zverkov! Sono costretto a darglielo. E così è deciso; ora corro a dargli uno schiaffo”.
«Frusta!».
Il vetturino scosse le redini.
“Appena entrerò, glielo darò. È necessario dire qualche parola prima dello schiaffo, a mo’ di preambolo? No! Semplicemente entrerò e glielo darò. Saranno tutti seduti nella sala, e lui sul divano con Olimpia. Maledetta Olimpia! Una volta ha riso della mia faccia e mi ha rifiutato. Trascinerò via Olimpia per i capelli, e Zverkov per le orecchie! No, meglio per un orecchio solo, e tenendolo per un orecchio gli farò fare il giro della stanza. Può darsi che tutti comincino a picchiarmi e mi sbattano fuori. Anzi, è sicuro. Sia pure! Tuttavia avrò dato lo schiaffo per primo: l’iniziativa sarà stata mia; e per le leggi dell’onore questo è tutto; lui ormai è bollato e quello schiaffo non potrà più lavarlo via con nessuna percossa, ma solo col duello. Dovrà battersi. E allora che mi picchino pure. Facciano pure, ignobili! Mi picchierà soprattutto Trudoljubov: è così forte; Ferfièkin mi aggredirà dal fianco e senz’altro mi prenderà per i capelli, è certo. Ma sia, sia pure! Ci vado per questo. Le loro zucche di montone saranno infine costrette a capire il lato tragico di tutto questo! Quando mi trascineranno verso la porta, io griderò loro che in realtà non valgono il mio dito mignolo”.
«Frusta, vetturino, frusta!», mi misi a gridare al poveretto.
Egli sussultò perfino e agitò lo scudiscio. Tanto selvaggio era stato il mio grido.
“Ci batteremo all’alba, ormai è deciso. Col dipartimento è finita. Ferfièkin poco fa l’ha chiamato ‘dipartimento da burla’. Ma dove prendere le pistole? Sciocchezze! Mi farò anticipare lo stipendio e le comprerò. E la polvere, e la pallottola? È affare del secondo. E come si può fare in tempo a organizzare tutto prima dell’alba? E dove vado a prenderlo il secondo? Non conosco nessuno...”.
«Sciocchezze!», gridai, sempre più preso nel turbine. «Sciocchezze!».
“Il primo che incontrerò per strada, al quale mi rivolgerò, è obbligato a farmi da secondo esattamente come a tirar fuori dall’acqua uno che sta annegando. Devono essere ammessi i casi più straordinari. E se domani chiedessi al direttore in persona di farmi da secondo, anche lui dovrebbe acconsentire per puro spirito cavalleresco, e mantenere il segreto! Anton Antonyc...”.
Il fatto è che in quello stesso istante mi appariva più chiaramente e vivamente che a chiunque altro al mondo tutta la rivoltante assurdità delle mie supposizioni e tutto il rovescio della medaglia, ma...
«Frusta, vetturino, frusta, briccone, frusta!».
«Ehilà, signore!», protestò la forza della terra.
A un tratto mi sentii gelare.
“Ma non sarebbe meglio... ma non sarebbe meglio... andare dritti a casa? Oh, Dio mio! Perché, perché ieri mi sono invitato a questo pranzo! Ma no, è impossibile! E la passeggiata di tre ore dal tavolo alla stufa? No, loro, loro e nessun altro devono pagarmela per quella passeggiata! Loro devono lavare quest’onta!”.
«Frusta!».
“E se mi consegnassero alla polizia? Non oseranno! Temeranno lo scandalo. E se Zverkov per disprezzo rifiuterà il duello? Anzi, è più che probabile; ma allora io gli farò vedere... Allora mi lancerò alla stazione di posta, quando domani partirà, lo afferrerò per una gamba, gli strapperò il mantello, mentre salirà in vettura. Gli azzannerò una mano coi denti, lo morderò. ‘Guardate tutti in che stato si può ridurre un uomo disperato!’ Che mi picchi pure sulla testa, e tutti gli altri alle spalle. Io griderò a tutti i presenti: ‘Guardate, ecco un cucciolotto che va a conquistare le circasse con il mio sputo sulla faccia!’
“S’intende, dopo questo ormai sarà tutto finito! Il dipartimento è scomparso dalla faccia della terra. Mi arresteranno, mi processeranno, mi scacceranno dall’impiego, mi rinchiuderanno in galera, mi manderanno in Siberia, alla deportazione. Che me ne importa! Fra quindici anni, quando mi scarcereranno, mi trascinerò dietro di lui vestito di sacco, mendico. Lo rintraccerò in qualche capoluogo di governatorato. Sarà sposato e felice. Avrà una figlia grande... Io dirò: ‘Guarda, scellerato, guarda le mie guance incavate e il mio sacco! Ho perso tutto: carriera, felicità, arte, scienza, la donna amata, e tutto per causa tua. Ecco le pistole. Sono venuto a scaricare la mia pistola e... e ti perdono’. A questo punto sparerò in aria, e di me non si sentirà più parlare...”.
Stavo quasi per mettermi a piangere, benché sapessi con assoluta esattezza, in quello stesso momento, che tutto ciò era copiato da Silvio e dal Ballo in maschera di Lermontov. E a un tratto mi vergognai terribilmente, mi vergognai a tal punto che arrestai il cavallo, uscii dalla slitta e mi fermai nella neve in mezzo alla strada. Il vetturino mi guardava sorpreso e sospirando.
Che dovevo fare? Là non si poteva andare, sarebbe stata un’assurdità; e anche lasciar perdere non si poteva, perché anche così sarebbe risultato... Signore! Ma come si poteva lasciar perdere! E dopo simili offese!
«No!», esclamai, slanciandomi nuovamente nella slitta. «È tutto predestinato, è il fato! Frusta, frusta, andiamo là!».
E per l’impazienza colpii col pugno il collo del vetturino.
«Ehi, perché meni le mani?», si mise a gridare l’ometto, sferzando tuttavia il ronzino, tanto che esso cominciò a scalciare con le zampe posteriori.
La neve fradicia cadeva a fiocchi; mi scoprii, ma avevo altro a cui pensare. Dimenticai tutto il resto, perché mi ero definitivamente deciso allo schiaffo e con orrore sentivo che ormai sarebbe accaduto subito, assolutamente adesso, e ormai nessuna forza avrebbe potuto impedirlo. I fanali solitari balenavano cupamente nella tenebra nevosa, come fiaccole a un funerale. La neve mi era entrata sotto il cappotto, sotto la finanziera, sotto la cravatta e lì si scioglieva; non mi coprivo: tanto era comunque tutto perduto! Finalmente arrivammo. Balzai fuori quasi smemorato, corsi su per i gradini e cominciai a picchiare alla porta con le mani e coi piedi. Mi sentivo soprattutto le gambe, alle ginocchia, terribilmente deboli. Mi aprirono stranamente presto; come se sapessero del mio arrivo. (In effetti, Simonov aveva avvertito che, forse, ce ne sarebbe stato un altro, perché lì bisognava avvertire e in generale prendere delle precauzioni. Era uno di quei “negozi di mode” di allora, che da un pezzo ormai sono stati eliminati dalla polizia. Di giorno era davvero un negozio; ma di sera chi aveva una raccomandazione poteva presentarsi in visita.) Attraversai a passo rapido la bottega buia ed entrai nella sala a me nota, dove c’era una sola candela accesa, e mi fermai sconcertato: non c’era nessuno.
«E dove sono?», domandai a qualcuno.
Ma naturalmente avevano già fatto in tempo a separarsi...
Davanti a me stava una persona con un sorriso ebete, la padrona stessa, che un po’ mi conosceva. Un minuto dopo si aprì una porta, ed entrò un’altra persona.
Senza prestare attenzione a nulla, camminavo a grandi passi per la stanza e, credo, parlavo da solo. Era come se fossi stato salvato dalla morte e con tutto il mio essere lo percepivo gioiosamente: infatti avrei dato quello schiaffo, lo avrei dato senz’altro, senz’altro! Ma adesso non c’erano e... tutto era sparito, tutto era mutato!... Mi guardavo intorno. Non riuscivo ancora a raccapezzarmi. Macchinalmente diedi un’occhiata alla ragazza che era entrata: dinanzi a me intravidi un volto fresco, giovane, alquanto pallido, con le sopracciglia diritte e scure e uno sguardo serio, come un po’ sorpreso. La cosa mi piacque subito; l’avrei odiata, se avesse sorriso. Presi a scrutarla più attentamente e quasi con sforzo: non ero ancora riuscito a riordinare le idee. C’era un che di ingenuo e buono in quel viso, ma anche una serietà perfino strana. Sono certo che questo lì dentro la svantaggiasse, e perciò nessuno di quegli sciocchi l’aveva notata. Del resto, non poteva dirsi una bellezza, anche se era di alta statura, forte, ben fatta. Era vestita con estrema semplicità. Qualcosa di abietto mi morse; andai dritto verso di lei...
Mi guardai per caso allo specchio. La mia faccia stravolta mi parve estremamente ributtante: pallida, cattiva, vile, con i capelli arruffati. “Va bene così, ne sono contento”, pensai, “sono appunto contento che le apparirò ributtante; la cosa mi fa piacere...”.

XVII

...Da qualche parte dietro il tramezzo, come per una forte pressione, come se qualcuno lo strangolasse, rantolò un orologio. Dopo un rantolo innaturalmente lungo seguì un trillo acuto, sgradevole e inaspettatamente frequente, come se a un tratto qualcuno fosse scappato avanti. Suonarono le due. Mi ridestai, benché non dormissi, ma giacessi soltanto semiassopito.
Nella stanza stretta, angusta e bassa, ingombra di un enorme armadio e disseminata di cappelliere, stracci e vecchi vestiti di ogni genere, era quasi completamente buio. Il moccolo di candela che bruciava sul tavolo in fondo alla stanza si stava spegnendo del tutto, e mandava appena qualche scintilla di tanto in tanto. Di lì a qualche minuto doveva sopraggiungere il buio completo.
Non impiegai molto a tornare in me; a un tratto, senza alcuno sforzo, mi ritornò alla memoria tutto quanto insieme, proprio come se fosse stato in agguato per assalirmi di nuovo. E, del resto, anche quando ero assopito mi era rimasto costantemente nella memoria come un punto che non riuscivo a dimenticare, intorno al quale ruotavano pesantemente le mie torpide fantasticherie. Ma era strano: ora, dopo il risveglio, tutto quel che mi era accaduto quel giorno mi sembrava lontanissimo, come se fossi sopravvissuto a tutto ciò tanto, tanto tempo prima.
La mia testa era stordita. Qualcosa pareva volare sopra di me e mi urtava, mi eccitava e turbava. L’angoscia e la bile ribollivano nuovamente e cercavano sfogo. A un tratto accanto a me vidi due occhi aperti, che mi osservavano con curiosità e ostinazione. Lo sguardo era freddamente distante, cupo, come completamente estraneo; metteva a disagio.
Un pensiero cupo nacque nel mio cervello e mi passò per tutto il corpo come una sgradevole sensazione, simile a quando scendi nel sottosuolo umido e muffoso. Mi sembrava innaturale che proprio allora quei due occhi avessero deciso di cominciare a osservarmi. Ricordai anche che per due ore non avevo scambiato neppure una parola con quell’essere e non l’avevo affatto ritenuto necessario; anzi, la cosa poco prima mi era piaciuta, per qualche motivo. Adesso invece mi si disegnò chiaramente l’idea assurda, ripugnante come un ragno, della dissolutezza, che senza amore, in modo brutale e impudico, comincia proprio da ciò che è il coronamento dell’amore vero. Ci guardammo a lungo così, ma lei non abbassava i suoi occhi davanti ai miei e non mutava il suo sguardo, tanto che alla fine provai una specie di raccapriccio.
«Come ti chiami?», domandai a scatti, per finirla al più presto.
«Liza», rispose quasi in un sussurro, ma in modo assolutamente scostante, e distolse gli occhi.
Tacqui per un po’.
«Oggi il tempo... la neve... è schifoso!», dissi quasi fra me, piegando tristemente il braccio dietro la testa e guardando il soffitto.
Lei non rispondeva. Tutto era orribile.
«Sei di qui?», domandai un minuto dopo, quasi adirato, volgendo appena la testa verso di lei.
«No».
«Di dove?»
«Di Riga», disse controvoglia.
«Tedesca?»
«Russa».
«Sei qui da molto?»
«Dove?»
«In questa casa».
«Due settimane». Parlava sempre più a scatti. La candela si era spenta completamente; non potevo più distinguere il suo viso.
«Hai padre e madre?»
«Sì... no... ce li ho».
«Dove sono?»
«Là... a Riga».
«Chi sono?»
«Così... »
«Come così? Chi, di che condizione?»
«Piccoli borghesi».
«Hai sempre vissuto con loro?»
«Sì».
«Quanti anni hai?»
«Venti».
«E perché te ne sei andata di casa?»
«Così...».
Questo così significava: lasciami in pace, mi nausea. Tacemmo. Dio sa perché non me ne andai. Io stesso mi sentivo sempre più nauseato e angosciato. Le immagini di tutta la giornata trascorsa cominciarono a sfilare disordinatamente nella mia memoria, da sole, senza la mia volontà. A un tratto ricordai una scena che avevo visto la mattina per strada, mentre trotterellavo indaffarato verso l’ufficio.
«Oggi hanno portato fuori una bara e per poco non l’han fatta cadere», a un tratto dissi ad alta voce, senza alcun desiderio di attaccare discorso, ma così, quasi per caso.
«Una bara?»
«Sì, in piazza Sennaja; la portavano fuori da uno scantinato».
«Uno scantinato?»
«Non da uno scantinato, ma da un piano seminterrato... sì, sai... là sotto... da una casa di malaffare... C’era una tale sporcizia intorno... Bucce, immondizia... puzzava... uno schifo».
Silenzio.
«È brutto seppellire oggi!», ricominciai, pur di non tacere.
«Perché brutto?»
«La neve, l’umido...» (Sbadigliai.)
«Fa lo stesso», disse lei a un tratto dopo un breve silenzio.
«No, è ignobile... (Sbadigliai di nuovo.) I becchini certo imprecavano, perché la neve li bagnava. E nella fossa c’era certo dell’acqua».
«E perché acqua nella fossa?», domandò con una certa curiosità, ma pronunciando ancor più sgarbatamente e a scatti di prima. A un tratto qualcosa cominciò a stuzzicarmi.
«Sicuro, acqua, sul fondo, più di un palmo. Qui non si riesce a scavare una sola fossa asciutta, al cimitero Volkovoj».
«Perché?»
«Come perché? Un posto così acquitrinoso. Qui è palude dappertutto. Così ti calano direttamente nell’acqua. L’ho visto io stesso... molte volte...».
(Non l’avevo visto neppure una volta, e d’altronde non ero mai stato al Volkovoj, ma l’avevo solo sentito raccontare.)
«Forse per te fa lo stesso, morire?»
«E perché dovrei morire?», rispose mettendosi sulla difensiva.
«Un giorno o l’altro morirai pure, e morirai altrettanto sicuramente di quella poveretta di oggi. Era... era anche lei una ragazza... Morta di tisi».
«Una che fa la vita sarebbe morta all’ospedale... » (Questo lo sa già, pensai io, e ha detto: “una che fa la vita”, e non “una ragazza”.)
«Era in debito con la padrona», obiettai, sempre più stuzzicato dalla discussione, «e l’ha servita fin quasi alla fine, pur essendo tisica. Lo raccontavano dei vetturini parlando con dei soldati, lì intorno. Probabilmente suoi vecchi conoscenti. Ridevano. Anzi, si preparavano a commemorarla all’osteria». (Anche qui avevo lavorato molto di fantasia.)
Silenzio, profondo silenzio. Lei non si muoveva neppure.
«Perché, morire in ospedale sarebbe meglio?»
«Che differenza fa?... E poi perché dovrei morire?», aggiunse stizzosamente.
«Se non adesso, dopo?»
«Ma anche dopo...».
«Per forza! Tu adesso sei giovane, carina, fresca, quindi ti valutano tanto. Ma fra un anno di questa vita non lo sarai già più, sarai sfiorita».
«Fra un anno?»
«In ogni caso, fra un anno varrai di meno», continuavo con gioia maligna. «Passerai da qui a un’altra casa, un gradino più in basso. Ancora un anno e in una terza casa, sempre più in basso, e fra sei o sette anni arriverai allo scantinato della Sennaja. E ti andrebbe ancor bene. Ma ecco, il guaio è se oltre a questo ti si manifesterà qualche malattia, che so, una debolezza di petto... o ti prenderai un’infreddatura, o qualcos’altro. Con questa vita la malattia fatica a passare. Si attacca, e magari non si stacca più. E così morirai».
«E va be’, morirò», rispose ormai rabbiosamente e fece un movimento rapido.
«Certo che dispiace».
«Per chi?»
«Dispiace per la vita».
Silenzio.
«Avevi un fidanzato? Eh?»
«A lei che importa?»
«Mica voglio farti l’interrogatorio. Che m’importa. Perché ti arrabbi? Naturalmente hai potuto avere i tuoi guai. Fatti tuoi. Ma così, rincresce».
«Per chi?»
«Rincresce per te».
«Non è il caso...», sussurrò con un fil di voce e di nuovo si mosse.
Ne fui subito indispettito. Ma come! Io ero stato così tenero con lei, e lei...
«Ma che ti pensi? Di esser su una buona strada, eh?»
«Io non penso niente».
«E proprio questo è il guaio, che non pensi. Svegliati, finché sei in tempo. E sei in tempo. Sei ancora giovane, graziosa; potresti amare, sposarti, essere felice... »
«Non tutte quelle sposate sono felici», troncò nel solito modo sgarbato, parlando come una macchinetta.
«Non tutte, naturalmente: e tuttavia è molto meglio che qui. Incomparabilmente meglio. E con l’amore si può vivere anche senza felicità. Anche nel dolore la vita è bella, è bello stare al mondo, comunque si viva. Mentre qui che c’è, a parte... il fetore? Puah!».
Mi voltai con ribrezzo; ormai non disquisivo più freddamente. Cominciavo io stesso a sentire quel che dicevo, e mi infiammavo. Ormai ero ansioso di esporre le mie ideuzze segrete, sofferte nel mio cantuccio. Qualcosa a un tratto si accese in me, “era apparso” uno scopo.
«Tu non guardare me, se mi vedi qui: non sono un buon esempio. Io, forse, sono ancor peggio di te. Del resto, sono entrato qui ubriaco», mi affrettai tuttavia a giustificarmi. «Inoltre l’uomo non può essere un esempio per la donna. La faccenda è diversa; anche se qui mi infango e insudicio, non sono schiavo di nessuno; ci sono stato e me ne vado, e chi s’è visto, s’è visto. Me lo scrollo di dosso e sono nuovamente un altro. Ma prendiamo solo il fatto che fin dall’inizio tu sei schiava. Sì, schiava! Tu cedi tutto, tutta la tua volontà. E poi vorrai spezzare queste catene, ma ormai no: ti legheranno sempre più saldamente. È una catena maledetta. Io la conosco. D’altro non parlo neppure, e poi tu non capiresti, forse, ma ecco, dimmi un po’: certo ti sei già indebitata con la padrona, vero? Ecco, vedi!», aggiunsi, anche se non mi aveva risposto, ma ascoltava soltanto in silenzio, con tutto il suo essere. «Eccoti la catena! Non ti riscatterai mai più. Fanno così. È come vender l’anima al diavolo...
...E inoltre io... forse sono altrettanto infelice, che ne sai, e anch’io mi immergo apposta nel fango, per l’angoscia. Non si beve forse per la disperazione? Ebbene, io sono qui per la disperazione. Ma dimmi, che c’è qui di buono: ecco, io e te... ci siamo incontrati... poco fa, e per tutto il tempo non ci siamo detti una parola, e tu, come selvaggia, solo dopo hai cominciato a osservarmi; e io te. Si ama forse così? Si devono forse incontrare così due esseri umani? È tutto un orrore, ecco cosa!».
«Sì!», si affrettò ad acconsentire bruscamente. Mi meravigliò perfino la fretta di quel sì. Dunque anche a lei, forse, vagava nella testa quello stesso pensiero, quando prima mi studiava? Dunque anche lei era già capace di certi pensieri?... “Al diavolo, è curioso, questa è - affinità”, pensavo, quasi fregandomi le mani. “E del resto, come non aver ragione di un’anima così giovane?...”.
Soprattutto mi appassionava il gioco.
Lei volse il capo e l’avvicinò a me e, mi parve nell’oscurità, si appoggiò alla mano. Forse mi studiava. Come mi dispiaceva di non poter distinguere i suoi occhi. Sentivo il suo respiro profondo.
«Perché sei venuta qua?», cominciai con un tono già quasi imperioso.
«Così...».
«Eppure come sarebbe bello vivere nella casa paterna! Al calduccio, in libertà; nel tuo nido».
«E se fosse peggio di così?».
“Bisogna azzeccare il tono”, mi balenò in testa, “con il sentimentalismo, forse, non si ottiene molto”.
Del resto fu solo un attimo. Lo giuro, lei mi interessava davvero. E poi ero rilassato e nella giusta disposizione. D’altronde, l’impostura convive così facilmente col sentimento.
«Chi lo dice!», mi affrettai a rispondere. «Tutto può essere. Infatti sono sicuro che qualcuno ti ha offesa e che sono gli altri colpevoli nei tuoi confronti, piuttosto che tu nei loro. Certo io non so nulla della tua storia, ma una ragazza come te, probabilmente, non capita qui dentro di sua volontà...».
«E che ragazza sarei io?», sussurrò in modo appena percettibile; ma io sentii.
“Al diavolo, ma la sto adulando. È disgustoso. O forse è anche bene...”. Lei taceva.
«Vedi, Liza, ti dirò di me! Se avessi avuto una famiglia fin dall’infanzia, non sarei quello che sono adesso. Ci penso spesso. Perché per quanto si stia male in famiglia, sono pur sempre il padre e la madre, e non dei nemici, non degli estranei. Almeno una volta all’anno ti dimostreranno affetto. Saprai pur sempre che sei in casa tua. Io invece sono cresciuto senza una famiglia; forse per questo sono venuto su così... insensibile».
Aspettai di nuovo.
“Forse non capisce nemmeno”, pensavo, “e poi è ridicolo: la morale!”.
«Se fossi un padre e avessi una figlia mia, credo che amerei la figlia più dei maschi, davvero», cominciai alla lontana, come se cambiassi argomento per distrarla. Confesso che arrossivo.
«E perché?», domandò.
Ah, dunque ascoltava! «Così; non so, Liza. Vedi: conoscevo un padre che era un uomo severo, rigido, ma dinanzi alla figlia stava in ginocchio, le baciava le mani e i piedi, non poteva saziarsi di ammirarla, davvero. Lei balla a una festa, e lui sta fermo nello stesso posto per cinque ore, non le stacca gli occhi di dosso. È impazzito per lei; io questo lo capisco. Lei di notte, stanca, si addormenta, e lui si sveglia e va a baciarla mentre dorme e a darle la benedizione. Lui gira con un soprabitino bisunto, per tutti è avaro, ma per lei spende il suo ultimo rublo, le fa regali preziosi, ed è una gioia per lui se il regalo le piace. Il padre ama sempre le figlie più della madre. Come è allegro per certe ragazze vivere in casa! E io, credo, mia figlia non vorrei neppure darla in sposa».
«E perché mai?», domandò lei, sorridendo appena.
«Sarei geloso, quanto è vero Dio. Be’, è mai pensabile che si metta a baciare un altro? Ad amare un estraneo più del padre? È penoso perfino immaginarlo. Naturalmente sono tutte sciocchezze; naturalmente chiunque finisce con l’intender ragione. Ma io, credo, prima di cederla, sarei assillato da un solo pensiero: scartare tutti i pretendenti. E comunque finirei col darla a colui che ella stessa ama. Infatti, quello di cui la figlia s’innamora al padre sembra sempre il peggiore. È proprio così. E questo genera molto male nelle famiglie».
«Altri invece sono felici di venderla, la figlia, altro che maritarla onorevolmente», disse lei a un tratto.
Ah! Ecco di che si trattava!
«Questo, Liza, in quelle famiglie maledette dove non c’è né Dio né amore», ripresi con calore, «e dove non c’è l’amore, non c’è neppure il buon senso. Esistono delle famiglie così, è vero, ma non è di quelle che parlo. Si vede che dalla tua famiglia non hai avuto nessun bene, se parli così. Sei veramente disgraziata. Hmm... Il più delle volte è la povertà la causa di tutto».
«E dai signori è forse meglio? La gente onesta vive bene anche in povertà».
«Hmm... sì. Forse. Di nuovo, Liza: all’uomo piace calcolare soltanto il suo dolore, e la felicità non la calcola. Ma se facesse bene i conti, vedrebbe che a ogni destino ne è riservata una parte. Ebbene, e se nella famiglia le cose van bene, se Dio manda la sua benedizione, capita un bravo marito che ti ama, ti vezzeggia e non si allontana da te! Si sta bene in quella famiglia! Talvolta anche condividere un dolore è bello; e poi dove non c’è dolore? Forse ti sposerai, lo saprai da te. In compenso, se prendiamo magari i primi tempi dopo aver sposato chi ami: quanta felicità arriva talvolta! È una felicità continua. Nei primi tempi perfino i litigi col marito finiscono bene. Alcune quanto più amano, tanto più litigano col marito. Davvero; ne conoscevo una così: “Ecco”, pareva dire, “ti amo, e per amore ti tormento tanto, e tu capiscilo”. Lo sai che per amore si può tormentare apposta una persona? Lo fanno soprattutto le donne. E lei stessa pensa fra sé: “In compenso poi ti amerò tanto, ti accarezzerò tanto, che non è un peccato farti penare un po’ adesso”. E nella casa tutti si rallegreranno per voi, e ci sarà la serenità, e l’allegria, e la pace, e l’onestà... Altre magari sono gelose. Se lui se ne va da qualche parte (ne conoscevo una così), lei non lo sopporta, e nel cuore della notte si precipita fuori, e corre di nascosto a spiare: non sarà là, in quella casa, con quella tale? E questo è male. E lo sa anche lei che è male, e il cuore le resta sospeso, e si tortura, eppure ama; tutto per amore. E com’è bello dopo la lite far la pace, riconoscersi colpevole per prima davanti a lui oppure perdonare! E come stanno bene entrambi, come diventa improvvisamente bello, quasi si fossero incontrati di nuovo, si fossero sposati di nuovo, il loro amore fosse iniziato di nuovo. E nessuno, nessuno deve sapere quel che accade fra il marito e la moglie, se si vogliono bene. E qualunque litigio nasca fra loro, neppure la madre, neppure lei devono chiamare a giudicare, o raccontarle l’uno dell’altra. Sono solo loro i giudici di se stessi. L’amore è un mistero divino e dev’essere celato a tutti gli occhi estranei, qualunque cosa succeda. Così è più sacro, più bello. Si rispettano di più, e molto si basa sul rispetto. E se l’amore c’è stato una volta, se per amore si sono sposati, perché l’amore dovrebbe finire? Non lo si può forse sostenere? È raro il caso in cui non lo si possa sostenere. E poi, se si ha la fortuna di un marito buono e onesto, come può finire l’amore? Il primo amore del matrimonio finirà, è vero, ma allora subentrerà un amore ancor più bello. Allora le loro anime si incontreranno, ed essi metteranno in comune ogni cosa; non avranno segreti l’uno per l’altra. E quando arriveranno i figli, ogni momento, anche il più difficile, sembrerà felicità; purché si ami e si sia coraggiosi. Allora anche il lavoro è allegro, allora qualche volta rinunci anche al pane per i figli, eppure lo fai con gioia. Perché essi ti ameranno poi per questo; dunque accumuli per te stesso. I figli crescono: senti che sei un esempio, che sei un sostegno per loro; che anche se morrai, loro porteranno in sé per tutta la vita i tuoi sentimenti e i tuoi pensieri, così come li hanno ricevuti da te, assumeranno la tua immagine e somiglianza. Significa che questo è un grande dovere. Come possono non sentirsi più uniti il padre e la madre? Dicono che è faticoso avere dei figli? Chi lo dice? È una felicità celeste! Ti piacciono i bambini piccoli, Liza? A me piacciono da morire. Sai: un bimbetto tutto roseo che ti succhia il seno: ma a quale marito il cuore si rivolgerà contro la moglie, guardandola tenere in braccio il suo stesso bambino! Il bambinello roseo, paffutello, si allunga, si coccola; i piedini e le manine di burro, le unghiette pulitine, piccole, così piccole che è buffo guardarle, gli occhietti come se capisse già tutto. E succhia: con la manina ti tira il seno, gioca. Si avvicina il padre: si stacca dal seno, si piega tutto all’indietro, guarda il padre, ride - proprio come fosse Dio sa quanto divertente - e di nuovo, di nuovo riprende a succhiare. O altrimenti prende e morde il seno alla madre, se gli spuntano già i dentini, e con gli occhietti le lancia uno sguardo: “Vedi, ti ho morso!”. Ma non è forse la felicità, quando loro tre, il marito, la moglie e il bambino, sono insieme? Per questi momenti si può perdonare molto. No, Liza, prima dobbiamo noi imparare a vivere, e soltanto dopo incolpare gli altri!».
“Quadretti, proprio con questi quadretti bisogna accalappiarti!”, pensai fra me, anche se avevo parlato con sentimento, quanto è vero Dio, e a un tratto arrossii. “E se a un tratto lei scoppierà a ridere, dove andrò a nascondermi?”. L’idea mi fece infuriare. Verso la fine del discorso mi ero veramente infervorato, e adesso il mio amor proprio soffriva. Il silenzio perdurava. Ebbi perfino voglia di darle uno spintone.
«Lei però...», cominciò a un tratto e si fermò.
Ma avevo già capito tutto: nella sua voce vibrava già qualcosa di diverso, non brusco, non sgarbato e scontroso come poco prima, bensì qualcosa di dolce e pudico, così pudico che a un tratto io stesso mi vergognai dinanzi a lei, mi sentii colpevole.
«Che cosa?», domandai con tenera curiosità.
«Ma lei... »
«Che cosa?»
«Lei... parla proprio come un libro stampato», disse, e a un tratto nella sua voce risuonò di nuovo una nota di derisione.
Quell’osservazione mi punse dolorosamente. Non era quello che mi aspettavo.
E non capii che il sarcasmo era una maschera, che era la tipica, ultima scappatoia delle persone pudiche e caste di cuore, a cui tentino di insinuarsi brutalmente e insistentemente nell’anima, e che fino all’ultimo momento non cedono per orgoglio, timorose di esprimere il loro sentimento dinanzi a voi. Già dalla timidezza con cui era arrivata, in diverse mosse, alla sua battuta sarcastica, decidendosi solo alla fine a pronunciarla, avrei dovuto indovinare. Ma non indovinai, e un sentimento malvagio mi sopraffece.
“Aspetta un po’“, pensai.

XVIII

«Eh, basta, Liza, ma quale libro stampato, quando io stesso provo un tale schifo, pur dall’esterno. Anzi, no, non dall’esterno. Nella mia anima adesso si è risvegliato tutto... Possibile, possibile che tu stessa non provi schifo qua dentro? No, si vede che l’abitudine vuol dir molto! Lo sa il diavolo come può ridurre un uomo l’abitudine. Ma non penserai sul serio che non invecchierai mai, che sarai eternamente bella e ti terranno qui fino alla fine dei secoli? Non parlo già del fatto che anche qui è un laidume... E del resto, ecco quel che ti voglio dire anche di questo, della tua vita di adesso; ecco, anche se adesso sei giovane, attraente, buona, con un’anima, con del sentimento; ebbene, ma lo sai che poco fa, appena mi sono svegliato, ho subito provato schifo di essere qui con te? Solo da ubriachi infatti si può finir qui. Mentre se tu fossi in un altro posto, se vivessi come vive la gente onesta, allora, forse, non solo ti farei la corte, ma semplicemente mi innamorerei di te, sarei lieto di un tuo sguardo, non dico di una parola; rimarrei appostato davanti al tuo portone, starei in ginocchio davanti a te; ti guarderei come una fidanzata, e ancora lo riterrei un onore. Non oserei pensare alcunché di poco pulito su di te. Mentre qui so che mi basta fare un fischio, e tu, volente o nolente, mi seguirai, e non sarò io a dipendere dalla tua volontà, ma tu dalla mia. Il più misero muzik che viene ingaggiato per un lavoro non asservisce comunque tutto se stesso, e poi sa che ha un termine. Ma dov’è il tuo termine? Pensa soltanto: che cosa dài qui dentro? Che cosa asservisci? L’anima, l’anima, di cui tu non puoi disporre, l’asservisci insieme al corpo! Lasci profanare il tuo amore da qualsiasi ubriacone! L’amore! - ma è tutto, ma è il diamante, il tesoro di una fanciulla, l’amore! E per meritare quell’amore, qualcuno è disposto a giocarsi l’anima, ad affrontare la morte. E quanto viene valutato adesso il tuo amore? Sei tutta comprata, tutta intera, e a che scopo allora conquistarsi il tuo amore, quando anche senza amore tutto è possibile? No, non c’è oltraggio peggiore per una ragazza, lo capisci? Ecco, ho sentito che vi consolano, sciocche che siete, permettendovi di avere degli amanti qui dentro. Ma questo è soltanto un contentino, soltanto un inganno, soltanto una beffa ai vostri danni, e voi ci credete. Forse che lui, l’amante, ti ama davvero? Non ci credo. Come può amare, sapendo che possono chiamarti via da lui da un momento all’altro? Sarebbe proprio un porco! Ti rispetta forse almeno un briciolo? Che hai in comune con lui? Ride di te e ti sfrutta: ecco tutto il suo amore! E sei fortunata se non ti picchia. O forse ti picchia anche. Chiedigli un po’, se ne hai uno: ti sposerà? Ma scoppierà a riderti in faccia, se solo non ti sputerà addosso o non ti batterà: e forse lui stesso non vale che due soldi bucati. E che credi, per cosa hai rovinato qui la tua vita? Perché ti dan da bere caffè e da mangiare a sazietà? Ma per cosa ti danno da mangiare? A un’altra, a una onesta, un boccone simile non andrebbe giù, perché sa per cosa le danno da mangiare. Tu qui sei in debito, e sarai sempre in debito e fino alla fine di tutto sarai in debito, fino a quando gli ospiti cominceranno a disdegnarti. E il momento arriverà presto, non contare sulla giovinezza. Qui il tempo galoppa a spron battuto. E così ti sbatteranno fuori. E non solo ti sbatteranno fuori, ma molto tempo prima cominceranno a recriminare, cominceranno a rimproverarti, cominceranno a insultarti: come se tu non avessi dato la tua salute, non avessi perduto invano la giovinezza e l’anima per la padrona, bensì avessi mandato lei in rovina, l’avessi ridotta in miseria, derubata. E non aspettarti sostegno: anche le altre tue amiche ti assaliranno, per ingraziarsi la padrona, perché qui sono tutte in schiavitù, hanno perso da tempo la coscienza e la pietà. Si sono abbrutite, e ormai sulla terra non c’è nulla di più turpe, vile, offensivo di quegli insulti. E tu avrai lasciato tutto qui, tutto, senza riserve: la salute, la giovinezza, la bellezza e le speranze, e a ventidue anni sembrerai averne trentacinque, e andrà ancor bene se non sarai malata, prega Iddio per questo. Perché tu forse ora pensi che il tuo non sia neppure un lavoro, ma una pacchia! Ma al mondo non c’è, né c’è mai stato lavoro più pesante e da galera. Parrebbe che il cuore dovesse struggersi tutto in lacrime. E non oserai dire neanche una parola, neanche mezza, quando ti scacceranno da qui, te ne andrai come una colpevole. Passerai in un altro posto, poi in un terzo, poi chissà dove ancora, finché approderai alla Sennaja. E là ormai cominceranno a picchiarti come se niente fosse; è la gentilezza di quei posti; là il cliente non sa neppure accarezzare senza aver prima picchiato. Non ci credi, che là è così orribile? Vacci, guarda una volta o l’altra, forse lo vedrai con i tuoi occhi. Io là ne ho vista una a Capodanno, davanti a un portone. L’avevano sbattuta fuori i suoi, per deriderla, a congelarsi un pochino, perché strillava troppo e avevano chiuso la porta dietro di lei. E alle nove del mattino era già completamente ubriaca, scarmigliata, discinta, massacrata di botte. Era imbellettata, ma con i lividi intorno agli occhi; dal naso e dai denti le colava il sangue: un vetturino l’aveva appena conciata per le feste. Sedeva su una scaletta di pietra, in mano aveva un pesce salato; piangeva, cantilenava una litania sulla sua “malasorte”, e batteva il pesce sui gradini della scala. E davanti all’ingresso si erano affollati dei vetturini e dei soldati ubriachi, che la prendevano in giro. Tu non ci credi, che farai la stessa fine? Anch’io non vorrei crederci, ma chi lo sa, forse dieci, otto anni fa anche lei, quella col pesce salato, era venuta qui da chissà dove fresca come un cherubino, innocente, pura; non conosceva il male, a ogni parola arrossiva. Forse era come te, orgogliosa, suscettibile, diversa dalle altre, guardava come una regina e sapeva bene quale felicità attendeva colui che l’avesse amata e che lei avesse amato. Vedi come è finita? E se in quello stesso momento in cui batteva quel pesce sui gradini sudici, ubriaca e scarmigliata, se in quel momento si fosse ricordata i suoi puri anni passati, quando viveva nella casa del padre e andava ancora a scuola, e il figlio del vicino le faceva la posta per strada, le giurava che l’avrebbe amata per tutta la vita, che le avrebbe affidato il suo destino, e quando insieme avevano stabilito di amarsi per sempre e sposarsi, appena fossero diventati grandi! No, Liza, sarà una fortuna, una fortuna per te, se morirai al più presto di tubercolosi da qualche parte, in un angolo, in uno scantinato, come quella di stamane. All’ospedale, dici? Va bene, ti ci porteranno; ma se la padrona ha ancora bisogno di te? La tubercolosi è una malattia balorda; non è la malaria. Fino all’ultimo istante uno spera e dice di star bene. Si autoinganna. E la padrona ci guadagna. Sta’ tranquilla, è così: hai venduto l’anima, e per di più devi dei soldi, dunque non oserai neppure fiatare. E quando sarai moribonda, tutti ti abbandoneranno, tutti si volteranno dall’altra parte, perché ormai che si può ricavare da te? E oltretutto ti rinfacceranno di occupare il posto gratis, di non sbrigarti a morire. Non potrai chiedere da bere, senza che te lo porgano con improperi: “E quando crepi”, diranno, “schifosa; ci impedisci di dormire: gemi, i clienti si disgustano”. È vero; io stesso ho colto parole simili. Ti cacceranno, agonizzante, nell’angolo più puzzolente dello scantinato: buio, umidità; che cosa non penserai allora, giacendo lì da sola? Morirai: ti raccoglieranno alla svelta, con mani estranee, con brontolii, con impazienza; nessuno ti benedirà, nessuno sospirerà per te, penseranno solo a sbarazzarsi di te al più presto. Compreranno una cassa di legno grezzo, ti porteranno fuori, come oggi hanno portato fuori quella poveretta, poi andranno a commemorarti all’osteria. Nella fossa fango, sporcizia, neve fradicia - è forse il caso di far cerimonie per te? “Dài, buttala giù, Vanjucha; guarda, la ‘malasorte’ anche qui è andata a gambe all’aria, da quella che è. Accorcia le corde, demonio”. “Va bene anche così”. “Come va bene? Non vedi che è distesa sul fianco? Era pur sempre un essere umano, o no? E va bene, butta la terra”. Per causa tua non varrà neppure la pena di insultarsi troppo. Ti ricopriranno alla svelta di argilla livida e bagnata e andranno all’osteria... E così finirà anche la tua memoria sulla terra; sulla tomba degli altri si recano i figli, i padri, i mariti, per te invece né una lacrima, né un sospiro, né una preghiera, e nessuno, nessuno mai nel mondo intero verrà a trovarti; il tuo nome sparirà dalla faccia della terra: proprio come se non fossi mai esistita e mai nata! Fango e acquitrino, per quanto tu bussi contro il coperchio della bara laggiù, di notte, quando i morti si levano: “Lasciatemi andare, buona gente, a vivere nel mondo! Ho vissuto, ma la vita non l’ho conosciuta, la mia vita si è consumata come uno straccio; se la sono bevuta in un’osteria della Sennaja; buona gente, lasciatemi vivere ancora una volta al mondo!...”».
Mi ero così lasciato prendere dal pathos, che cominciavo io stesso a sentire un nodo alla gola, e... a un tratto mi fermai, mi sollevai un po’ spaventato e, chinando timorosamente il capo, col cuore che batteva mi misi in ascolto. E c’era di che turbarsi.
Da un pezzo ormai avevo intuito di averle scombussolato l’anima e spezzato il cuore, e quanto più me ne persuadevo, tanto più desideravo raggiungere lo scopo al più presto e con la maggior forza possibile. Il gioco, il gioco mi aveva appassionato; del resto, non solo il gioco...
Sapevo di parlare in modo pesante, artificioso, perfino libresco, insomma non sapevo parlare altrimenti che “come un libro stampato”. Ma la cosa non mi turbava; sapevo infatti, presentivo, che sarei stato capito e che proprio quel tono libresco poteva servire ancor meglio al caso mio. Ma adesso, raggiunto l’effetto, a un tratto ebbi paura. No, mai, mai prima ero stato testimone di una tale disperazione! Era distesa bocconi, con il viso affondato nel cuscino, che aveva afferrato forte con tutte e due le mani. Le si schiantava il petto. Tutto il suo giovane corpo sussultava come in preda alle convulsioni. I singhiozzi che le stringevano il petto la soffocavano, la straziavano e a un tratto erompevano all’esterno in urla, in grida. Allora si premeva ancor più forte contro il cuscino: non voleva che alcuno lì, non un’anima viva sapesse del suo tormento e delle sue lacrime. Mordeva il cuscino, si morse a sangue una mano (lo vidi poi) oppure, avvinghiatasi con le dita alle trecce scomposte, s’immobilizzava nello sforzo, trattenendo il respiro e stringendo i denti. Stavo per cominciare a dirle qualcosa, a chiederle di calmarsi, ma sentii che non osavo, e a un tratto io stesso, tutto scosso dai brividi, quasi atterrito, mi lanciai a tentoni a raccogliere le mie cose, per uscire al più presto. Era buio: per quanto mi sforzassi, non riuscii a sbrigarmi in fretta. A un tratto tastai una scatola di fiammiferi e un candeliere con una candela intera, nuova. Appena la luce rischiarò la stanza, Liza si alzò di colpo, si sedette e con un viso stravolto, con un sorriso semifolle, mi guardò quasi insensatamente. Mi sedetti accanto a lei e le presi le mani; lei si riprese, si gettò verso di me, voleva abbracciarmi, ma non osò e in silenzio chinò il capo davanti a me.
«Liza, amica mia, ho fatto male... perdonami», cominciai, ma lei strinse le mie mani fra le sue dita con tanta forza, che indovinai che non stavo dicendo quel che ci voleva, e m’interruppi.
«Ecco il mio indirizzo, Liza, vieni a trovarmi».
«Verrò...», sussurrò risolutamente, sempre senza sollevare il capo.
«Adesso però vado, addio... arrivederci».
Mi alzai, si alzò anche lei e a un tratto avvampò tutta, trasalì, afferrò lo scialle posato sulla sedia e se lo buttò sulle spalle fino al mento. Fatto ciò, sorrise di nuovo dolorosamente, arrossì e mi guardò in modo strano. Mi sentivo male; avevo fretta di andarmene, di battermela.
«Aspetti», disse a un tratto, già nel vestibolo, proprio davanti alla porta, trattenendomi per il cappotto; posò la candela in fretta e furia e corse via: evidentemente aveva ricordato o voleva farmi vedere qualcosa. Mentre correva via, arrossì tutta, i suoi occhi scintillavano, sulle labbra le apparve un sorriso: che succedeva? Aspettai controvoglia; tornò un minuto dopo, con uno sguardo che pareva chieder perdono di qualcosa. In generale non era più il viso, lo sguardo di prima, cupo, diffidente e ostinato. Il suo sguardo adesso era supplichevole, dolce, e nello stesso tempo fiducioso, tenero, timido. Così i bambini guardano quelli a cui vogliono molto bene e a cui chiedono qualcosa. I suoi occhi erano castano- chiari, occhi bellissimi, intensi, che sapevano riflettere sia l’amore che un cupo odio.
Senza spiegarmi nulla (quasi che io, come un qualche essere superiore, dovessi sapere tutto senza spiegazioni), mi tese un foglio. In quel momento tutto il suo viso splendeva del più ingenuo, quasi infantile trionfo. L’aprii. Era la lettera di uno studente di medicina o qualcosa del genere: una dichiarazione d’amore ampollosa, fiorita, ma estremamente rispettosa. Ho dimenticato le espressioni, ma ricordo benissimo che attraverso lo stile elevato traspariva un sentimento sincero, che non si può contraffare. Quando ebbi finito di leggere, incontrai il suo sguardo ardente, curioso e infantilmente impaziente su di me. Fissava gli occhi sul mio viso e aspettava con impazienza quel che le avrei detto. In poche parole, in fretta, ma con gioia e quasi con orgoglio, mi spiegò che era stata a una serata danzante, in casa di una famiglia, da certa “gente molto, molto perbene, gente di famiglia, dove non sanno ancora nulla, proprio nulla”, perché lei lì ci stava solo da poco e solo così... era tutt’altro che decisa a rimanere e se ne sarebbe assolutamente andata, appena avesse pagato il debito... “Be’, e là c’era questo studente, tutta la sera aveva ballato, parlato con lei, ed era saltato fuori che l’aveva conosciuta già a Riga, da bambino, avevano giocato insieme, però molto tempo fa; conosceva anche i suoi genitori, ma di questo non sapeva né sospettava niente di niente! Ed ecco, il giorno dopo la festa da ballo (tre giorni prima), aveva mandato quella lettera per mezzo dell’amica con cui lei era andata alla serata... e... ed ecco tutto”.
Quando ebbe finito il racconto, abbassò quasi con vergogna i suoi occhi scintillanti.
Poverina, custodiva la lettera di quello studente come una cosa preziosa ed era corsa a prendere quel suo unico tesoro, non volendo che me ne andassi senza sapere che anche lei era amata onestamente e sinceramente, che anche con lei parlavano in modo rispettoso. Probabilmente il destino di quella lettera era di rimanere in un cofanetto senza alcuna conseguenza. Ma non importava; sono certo che per tutta la vita l’avrebbe custodita come una cosa preziosa, come il suo vanto e la sua giustificazione, ed ecco che in un simile momento se n’era ricordata e aveva portato quella lettera, per vantarsene ingenuamente con me, riscattarsi ai miei occhi, perché anch’io vedessi, perché anch’io la elogiassi. Non dissi nulla, le strinsi la mano e uscii. Avevo tanta voglia di andarmene... Feci tutta la strada a piedi, malgrado la neve fradicia continuasse a cadere a fiocchi. Ero distrutto, schiacciato, perplesso. Ma la verità già brillava attraverso la perplessità. Una turpe verità!

XIX

Del resto non acconsentii subito a riconoscere quella verità. Svegliatomi l’indomani mattina dopo alcune ore di un sonno profondo, di piombo, ed essendomi subito ricordato tutti gli avvenimenti della vigilia, mi stupii perfino del mio sentimentalismo del giorno prima con Liza, di tutti quegli “orrori e compassioni di ieri”. “Mi faccio prendere da certe crisi isteriche da donnetta, puah!”, decisi. “E perché mai le ho rifilato il mio indirizzo? E se viene? Ma sì, del resto, che venga pure; che me ne importa...”. Ma, evidentemente, il problema principale e più importante adesso era un altro: bisognava sbrigarsi a salvare a qualsiasi costo e al più presto la mia reputazione agli occhi di Zverkov e Simonov. Ecco qual era la cosa principale. Anzi, di Liza mi dimenticai completamente quella mattina, immerso nelle mie faccende.
Prima di tutto bisognava saldare immediatamente il debito contratto il giorno prima con Simonov. Mi decisi a un mezzo disperato: chiedere in prestito ben quindici rubli ad Anton Antonovic. Neanche a farlo apposta, quella mattina egli era d’ottimo umore e me li diede subito, alla prima richiesta. Me ne rallegrai tanto che, firmando la ricevuta, con un’aria spavalda e con noncuranza gli comunicai che il giorno prima “avevo fatto baldoria con gli amici all’hotel de Paris; avevamo salutato un compagno, anzi si può dire un amico d’infanzia, e, sa, è un gran bisboccione, un ragazzo viziato... be’, s’intende, di buona famiglia, con un patrimonio cospicuo, una brillante carriera, spiritoso, simpatico, se la intende con certe dame, capisce: abbiamo bevuto una ‘mezza dozzina’ di troppo e...”. E come se niente fosse: le parole mi uscivano con gran facilità, disinvoltura e sicurezza.
Giunto a casa, scrissi immediatamente a Simonov.
Ancor oggi, quando ci ripenso, non posso fare a meno di ammirare il tono veramente signorile, benevolo, aperto della mia lettera. Abilmente e nobilmente e, soprattutto, senza una parola superflua, mi assumevo la responsabilità di tutto. Mi giustificavo, “seppure mi era ancor lecito giustificarmi”, col fatto che, non essendo assolutamente abituato all’alcool, mi ero ubriacato fin dal primo bicchiere, che (così dicevo) avevo bevuto ancor prima che arrivassero, mentre li aspettavo all’hotel de Paris dalle cinque alle sei. Chiedevo scusa in primo luogo a Simonov; e lo pregavo di trasmettere le mie spiegazioni a tutti gli amici, soprattutto a Zverkov, che, “mi pareva di ricordare come in sogno”, avevo offeso. Aggiungevo che mi sarei recato io stesso da loro, ma avevo mal di testa, e soprattutto mi vergognavo. Rimasi particolarmente soddisfatto di quella “certa leggerezza”, quasi noncuranza (del resto, assolutamente corretta), a cui era inaspettatamente improntata la mia scrittura, e che meglio di tutte le argomentazioni possibili lasciava subito intendere che consideravo “tutto il fattaccio di ieri” con una certa indipendenza; non ero affatto, non ero per nulla annientato, come voi, signori, probabilmente pensate, ma al contrario consideravo la cosa come si conviene a un gentleman che rispetti serenamente se stesso. Come a dire che il passato non può confondere un tipo in gamba.
«Non c’è perfino un certo brio da marchese?», ammiravo, rileggendo il biglietto. «E tutto perché sono una persona evoluta e colta! Altri al mio posto non saprebbero come levarsi dai guai, mentre guardate me, me la sono sbrogliata e torno a far baldoria, e tutto perché sono “un uomo colto ed evoluto del nostro tempo”. E poi forse è vero che è stata tutta colpa del vino, ieri. Hmm... ma no, non del vino. Di vodka non ne ho bevuta affatto, dalle cinque alle sei, mentre li aspettavo. Ho mentito a Simonov; ho mentito senza ritegno; e anche adesso non ho ritegno...
Oh, insomma, me ne infischio! Quel che conta è che me la sono cavata».
Misi nella lettera i sei rubli, sigillai e chiesi ad Apollon di recapitarla a Simonov. Quando seppe che nella lettera c’era del denaro, Apollon divenne più ossequioso e acconsentì ad andare. Verso sera uscii per fare una passeggiata. La testa mi faceva ancora male e mi girava dal giorno prima. Ma quanto più calava la sera e si addensava il crepuscolo, tanto più mutavano e si confondevano le mie impressioni e, al loro seguito, i pensieri. Qualcosa non moriva dentro di me, nel profondo del cuore e della coscienza, non voleva morire e si esprimeva in una bruciante angoscia. Gironzolavo soprattutto per le vie più affollate e animate, per le Mescanskie, la Sadovaja, intorno al Giardino Jusupov. Mi è sempre piaciuto particolarmente passeggiare per quelle vie al crepuscolo, proprio quando vi si infittisce la folla più varia di passanti, operai e artigiani dai volti preoccupati fino alla cattiveria, che si disperde per le case dopo il lavoro diurno. Mi piaceva proprio quell’affaccendarsi da due soldi, quella sfrontata prosaicità. Quella volta la calca per strada mi irritava ancor più. Non riuscivo proprio a recuperare il dominio di me stesso, a ritrovare il bandolo della matassa. Qualcosa si sollevava, si sollevava incessantemente, dolorosamente nella mia anima, e non voleva placarsi. Sconvolto tornai a casa. Era come se sulla mia anima pesasse un delitto.
Mi tormentava costantemente il pensiero che sarebbe venuta Liza. Mi pareva strano che, di tutti i ricordi del giorno prima, il ricordo di lei mi tormentasse in modo particolare, del tutto indipendente dagli altri. Di tutto il resto avevo già fatto in tempo a dimenticarmi completamente prima di sera, ci avevo messo una pietra sopra e restavo ancora perfettamente soddisfatto della mia lettera a Simonov. Qui, invece, non ero affatto soddisfatto. Proprio come se fosse soltanto Liza a tormentarmi. “E se viene?”, pensavo incessantemente. “Ebbene, che m’importa, venga pure. Hmm. Certo è brutto che veda, per esempio, come vivo. Ieri con lei ho fatto talmente la parte... dell’eroe... e adesso, hmm! Del resto è brutto che mi sia lasciato andare così. Che miseria, in questa casa. E ieri ho avuto il coraggio di andare a un pranzo con un abito così! E il mio divano d’incerata, dal quale spunta l’imbottitura! E la mia vestaglia, con la quale è impossibile coprirsi! Che stracci... E lei vedrà tutto questo; e vedrà Apollon. Quell’animale, probabilmente, la offenderà. La importunerà per farmi uno sgarbo. E io, naturalmente, m’intimidirò come mio solito, comincerò a sgambettarle davanti, a coprirmi con le falde della vestaglia, comincerò a sorridere, comincerò a mentire. Uh, che bruttura! E del resto non è questa la bruttura più importante! Qui c’è qualcosa di più importante, di più turpe, di più ignobile! Sì, più ignobile! E di nuovo, di nuovo mettersi quella maschera ipocrita, menzognera!...”.
Arrivato a questo pensiero, mi infiammai di colpo:
“Perché ipocrita? Come ipocrita? Ieri ho parlato sinceramente. Ricordo che in me c’era anche un sentimento autentico. Volevo proprio risvegliare in lei dei sentimenti nobili... se ha pianto un po’, tanto meglio, le farà bene...”.
E tuttavia non riuscivo in nessun modo a calmarmi.
Per tutta quella serata, anche dopo rincasato, anche dopo le nove, quando secondo i miei calcoli Liza non poteva più venire, seguitavo a immaginarmela, e soprattutto la rivedevo sempre nella stessa posizione. Un solo momento di tutto il giorno avanti mi appariva con particolare evidenza: quando cioè avevo illuminato la stanza con il fiammifero e avevo visto il suo viso pallido, deformato, con lo sguardo da martire. E che sorriso penoso, innaturale, deformato aveva in quell’istante! Ma ancora non sapevo che anche quindici anni dopo mi sarei immaginato Liza proprio con il sorriso penoso, deformato, inutile, che aveva in quell’istante.
L’indomani ero già di nuovo pronto a considerare tutto questo una sciocchezza, una malattia dei nervi e, soprattutto, un’esagerazione. Ero sempre stato consapevole di questo mio punto debole e talvolta ne avevo molta paura: “Io esagero tutto, questo è il mio difetto”, mi ripetevo ogni ora. Ma, del resto, “del resto Liza, nonostante tutto, forse verrà”: ecco il ritornello con cui si concludevano tutti i miei ragionamenti di allora. Ero così agitato, che talvolta m’infuriavo. “Verrà! Verrà senz’altro!”, esclamavo, correndo su e giù per la stanza. “Se non oggi, verrà domani, ma mi troverà! È lo stramaledetto romanticismo di tutti quei cuori puri! Oh schifo, oh stupidità, oh limitatezza di quelle ‘luride anime sentimentali’! Ma come non capire, come si fa, dico io, a non capire?...”. Ma a questo punto mi fermavo da solo, e anche profondamente turbato.
“E quante poche, poche parole”, pensavo di sfuggita, “ci sono volute, quanto poco idillio c’è voluto (e oltretutto un idillio fasullo, libresco, costruito), per scombussolare a modo mio tutta un’anima. Quel che vuol dire la verginità! Quel che vuol dire un terreno fresco!”.
Talvolta mi veniva il pensiero di andare io da lei, “raccontarle tutto” e convincerla a non venire da me. Ma a questo punto, a questo pensiero, in me si levava una tale rabbia, che credo avrei semplicemente schiacciato quella “maledetta” Liza, se a un tratto me la fossi trovata accanto, l’avrei offesa, insultata, scacciata, colpita!
Ma passò un giorno, un altro, un terzo: lei non veniva, e io cominciavo a tranquillizzarmi. Mi ringalluzzivo e riprendevo coraggio soprattutto dopo le nove, talvolta cominciavo perfino a sognare, e piuttosto dolcemente: “Io, per esempio, salvo Liza, proprio per il fatto che lei viene da me, e io le parlo... Sviluppo il suo spirito, la istruisco. Infine mi accorgo che lei mi ama, mi ama appassionatamente. Fingo di non capire (non so, del resto, perché finga; così, per bellezza, probabilmente). Finalmente lei, tutta turbata, bellissima, tremando e singhiozzando, si getta ai miei piedi e dice che sono il suo salvatore e che mi ama più di ogni cosa al mondo. Io mi meraviglio, ma... ‘Liza’, dico, ‘credi davvero che non mi sia accorto del tuo amore? Io vedevo tutto, indovinavo, ma non osavo attentare al tuo cuore per primo, perché avevo un ascendente su di te e temevo che ti saresti indotta apposta a ricambiare il mio amore, per gratitudine, e avresti suscitato a forza in te un sentimento che forse non c’era, e io non lo volevo, perché questo... è dispotismo... È indelicato (ma sì, qui insomma mi imbrogliavo in qualche sottigliezza europea alla George Sand, qualcosa di ineffabilmente nobile...). Ma ora, ora sei mia, sei la mia creatura, sei pura, bellissima, sei la mia bellissima sposa’.

E in casa mia, ardita e libera,
Entra da vera padrona!

Dopodiché cominciamo a vivere felici e contenti, andiamo all’estero, eccetera, eccetera”. In una parola, la cosa diventava ripugnante perfino per me, e finivo col farmi una linguaccia.
“E poi non la lasceranno uscire, la ‘sgualdrina’!”, pensavo. “A quanto pare quelle lì non le lasciano uscir troppo a passeggio, tanto più di sera (chissà perché ero così sicuro che dovesse venire proprio di sera, e precisamente alle sette). Ma, del resto, ha detto che non si è ancora venduta del tutto, là dentro, che gode di diritti particolari; dunque, hmm! Al diavolo, verrà, verrà senz’altro!”.
Fortuna ancora che nel frattempo Apollon mi distraeva con le sue villanie. Mi faceva scappare anche l’ultima pazienza! Era la mia croce, il flagello inviatomi dalla Provvidenza. Io e lui ci punzecchiavamo senza tregua ormai da diversi anni, e io lo odiavo. Dio mio, come l’odiavo! Nella mia vita credo di non aver mai odiato nessuno come lui, soprattutto in certi momenti. Era un uomo anziano, sussiegoso, che ogni tanto faceva anche il sarto. Ma, chissà perché, aveva per me un disprezzo addirittura spropositato, e mi guardava dall’alto in basso in modo insopportabile. Del resto, guardava tutti dall’alto in basso. Bastava dare un’occhiata a quella testa color stoppa, lisciata dal pettine, a quel ciuffo che egli si gonfiava sulla fronte e ungeva di olio di semi, a quella bocca seria, perennemente imbronciata, per capire che vi trovavate di fronte a un essere che non dubitava mai di sé. Era un pedante al massimo grado, e il più madornale pedante fra tutti quelli che ho incontrato sulla terra; e per giunta con un amor proprio che sarebbe forse convenuto soltanto ad Alessandro il Macedone. Era innamorato di ogni suo bottone, di ogni sua unghia - assolutamente innamorato, quella era la sua aria! Mi trattava come un autentico despota, parlava pochissimo con me, e se gli capitava di rivolgermi un’occhiata, mi guardava con uno sguardo fermo, maestosamente superbo e costantemente canzonatorio, che a volte mi mandava in bestia. Svolgeva le sue mansioni con l’aria di farmi un grandissimo favore. Del resto, non faceva quasi esattamente nulla per me e anzi non si stimava neppure in dovere di fare qualcosa. Non c’era alcun dubbio che mi considerasse l’ultimo cretino sulla terra, e se “mi teneva presso di sé” era unicamente perché da me si poteva ricevere uno stipendio ogni mese. Acconsentiva a “non far nulla” da me per sette rubli al mese. Per lui mi saranno perdonati molti peccati. Talvolta arrivavo a un odio tale, che bastava il suo passo a farmi quasi venire le convulsioni. Ma soprattutto mi ripugnava la sua parlata blesa. Aveva la lingua un po’ più lunga del normale, o qualcosa del genere, per cui biascicava e sibilava e, credo, ne andava terribilmente fiero, immaginando che ciò gli conferisse grandissima dignità. Parlava sottovoce, misuratamente, tenendo le mani dietro la schiena e abbassando gli occhi a terra. Mi mandava particolarmente in bestia quando si metteva a leggere il Salterio nella sua stanza dietro il tramezzo. Molte battaglie sopportai per quella lettura. Ma a lui piaceva un mondo leggere la sera, con voce sommessa e monotona, cantilenando, come a una veglia funebre. È curioso che proprio così sia finito: adesso viene pagato per leggere il Salterio per i defunti, e inoltre stermina i topi e fabbrica lucido per scarpe. Ma allora non potevo scacciarlo, era come fuso chimicamente con la mia esistenza. Inoltre lui stesso non avrebbe mai e poi mai acconsentito ad andarsene. Io non potevo assolutamente vivere in una chambre garnie: il mio appartamento era la mia reggia, il mio guscio, il mio astuccio, in cui mi nascondevo a tutta l’umanità, e mi sembrava, il diavolo sa perché, che Apollon ne fosse parte integrante; così per ben sette anni non potei scacciarlo.
Trattenere, per esempio, il suo stipendio anche solo per due, tre giorni, era impossibile. Egli avrebbe piantato una tale grana, che non avrei saputo dove andare a nascondermi. Ma in quei giorni ero a tal punto incattivito con tutti, che decisi, chissà per quale motivo e scopo, di punire Apollon e di non pagargli lo stipendio per altre due settimane. Era già un pezzo, un paio d’anni, che meditavo di farlo - unicamente per dimostrargli che non avrebbe più osato darsi tante arie con me e che, se volevo, potevo sempre non pagargli lo stipendio. Stabilii di non parlargliene, anzi di tacere apposta per piegare il suo orgoglio e costringerlo a menzionare lui per primo lo stipendio. Allora avrei tirato fuori tutti i sette rubli dal cassetto, gli avrei fatto vedere che li avevo e li tenevo da parte appositamente, ma che “non volevo, non volevo, semplicemente non volevo pagargli lo stipendio, non volevo perché così mi garbava”, perché quello era “il mio volere di padrone”, perché lui era irrispettoso, perché era un villanzone; ma che se me l’avesse chiesto rispettosamente, allora, forse, mi sarei raddolcito e gliel’avrei dato; altrimenti avrebbe aspettato altre due settimane, ne avrebbe aspettate tre, avrebbe aspettato un mese intero...
Ma per quanto fossi rabbioso, fu comunque lui a vincere. Non ressi neppure quattro giorni. Cominciò come cominciava sempre in casi simili, perché casi simili si erano già verificati, erano già stati tentati (e osserverò che sapevo tutto in anticipo, conoscevo a memoria la sua subdola tattica), e cioè: cominciava col puntare su di me uno sguardo estremamente severo, senza distoglierlo per diversi minuti di seguito, soprattutto venendomi ad aprire o accompagnandomi alla porta. Se, per esempio, io resistevo e fingevo di non accorgermi di quegli sguardi, lui, sempre tacendo, procedeva a ulteriori supplizi. A un tratto, di punto in bianco, entrava silenzioso come un gatto nella mia stanza, mentre camminavo su e giù o leggevo, si fermava sulla porta, metteva una mano dietro la schiena, scostava un piede e puntava su di me il suo sguardo, ormai non solo severo, ma assolutamente sprezzante. Se a un tratto gli chiedevo di che avesse bisogno, non rispondeva nulla, continuava a guardarmi con insistenza ancora per qualche secondo, poi, stringendo le labbra in un modo particolare, con aria significativa, lentamente girava su se stesso e lentamente se ne andava in camera sua. Di lì a un paio d’ore a un tratto usciva di nuovo e di nuovo mi si presentava davanti allo stesso modo. Capitava che, inferocito, non gli chiedessi neppure di che aveva bisogno, ma semplicemente sollevassi brusco e imperioso la testa e cominciassi a mia volta a guardarlo con insistenza. Così ci fissavamo, talvolta, per un paio di minuti; finalmente lui si voltava, lentamente e altezzosamente, e spariva di nuovo per due ore.
Se neppure questo bastava a farmi metter giudizio e continuavo ancora a ribellarmi, a un tratto lui attaccava a sospirare, guardandomi, a sospirare a lungo, profondamente, come a misurare con un solo sospiro tutta la profondità della mia degradazione morale, e, ovviamente, andava a finire che l’aveva completamente vinta: io m’imbestialivo, gridavo, ma ero comunque costretto a cedergli sul punto in questione.
Quella volta però, appena cominciarono le solite manovre di “sguardi severi”, uscii subito dai gangheri e infuriato mi scagliai contro di lui. Ero già fin troppo irritato anche senza di ciò.
«Fermati!», presi a gridare come un ossesso, mentre egli si voltava lentamente e in silenzio, con una mano dietro la schiena, per andarsene nel suo stanzino. «Fermati! Girati, girati, ti dico!», e devo aver sbraitato in modo così innaturale, che egli si voltò e prese a osservarmi addirittura con un certo stupore. Del resto, continuava a non dire una parola, e proprio questo mi mandava in bestia.
«Come osi entrare nella mia stanza senza permesso e guardarmi così? Rispondi!».
Ma dopo avermi guardato tranquillamente per mezzo minuto, fece per voltarsi di nuovo.
«Fermati!», berciai, correndo da lui. «Non ti muovere! Così. Rispondi adesso: cosa sei entrato a guardare?»
«Se adesso ha qualcosa da ordinarmi, il mio compito è eseguire», rispose dopo un nuovo silenzio, biascicando piano e misuratamente, inarcando le sopracciglia e piegando tranquillamente la testa da una spalla all’altra; e il tutto con una flemma terrificante.
«Non è questo, non è questo che domando, boia!», mi misi a urlare, tremando di rabbia. «Te lo dico io, boia, perché vieni qui: tu vedi che non ti pago lo stipendio, e siccome non vuoi, per orgoglio, inchinarti, chiedere, ecco che vieni con i tuoi sguardi idioti a punirmi, a tormentarmi, e non sos-spetti, boia, quanto questo sia stupido, stupido, stupido, stupido, stupido!».
Fece per voltarsi di nuovo, ma io lo afferrai.
«Ascolta», gli gridai. «Ecco i soldi, vedi; eccoli! (li tirai fuori dal cassetto del tavolino). Tutti i sette rubli, ma non li riceverai, non li ri-ce-verai, finché non verrai a chiedermi scusa rispettosamente, con aria contrita. Hai sentito?»
«Questo non è possibile!», rispose con una sicurezza di sé perfino innaturale.
«Lo sarà!», gridai. «Ti do la mia parola d’onore che lo sarà!».
«E poi non devo chiederle scusa di niente», continuò, come se non si accorgesse affatto delle mie grida, «perché è lei che mi ha chiamato “boia”, per la qual cosa posso sempre denunciarla per oltraggio alla polizia».
«Vacci! Denunciami!», mi misi a urlare. «Vacci subito, in questo minuto, in questo secondo! E comunque sei un boia! Boia! Boia!». Ma lui si limitò a guardarmi, poi fece dietrofront e, senza più ascoltare le mie grida di richiamo, se ne scivolò nel suo angolo, senza voltarsi.
“Se non fosse per Liza, tutto questo non sarebbe successo!”, decisi fra me. Quindi, rimasto fermo un minuto, con aria importante e solenne, ma con il cuore che mi martellava lento e forte, mi recai io stesso da lui dietro il tramezzo.
«Apollon!», dissi piano e posatamente, ma ansimando. «Va’ immediatamente e senza indugiare un attimo a chiamare il poliziotto di quartiere!».
Lui nel frattempo si era già seduto al suo tavolo, aveva inforcato gli occhiali e preso in mano il cucito. Ma, udito il mio ordine, a un tratto si lasciò sfuggire una risata.
«Subito, va’ in quest’istante! Vai, vai, o non ti immagini neppure quel che accadrà!».
«Lei è davvero fuori di cervello», osservò, senza neppure sollevare la testa, biascicando con la solita lentezza e continuando a infilare l’ago. «E dove si è mai visto che uno vada a chiamare le autorità contro se stesso? Se poi vuole spaventarmi, si sgola inutilmente, perché non otterrà nulla».
«Vai!», stridetti, afferrandolo per una spalla. Sentivo che stavo per colpirlo.
Ma non avevo neppure sentito che in quel momento, a un tratto, la porta dell’anticamera si era aperta piano piano e una figura era entrata, si era fermata e aveva cominciato a osservarci perplessa. Guardai, restai impietrito dalla vergogna e mi precipitai nella mia stanza. Là, afferratomi con entrambe le mani i capelli, mi appoggiai col capo alla parete e rimasi immobile in quella posizione.
Dopo un paio di minuti si udirono i passi lenti di Apollon.
«C’è di là una che chiede di lei», disse, guardandomi con particolare severità, poi si scansò e lasciò entrare - Liza. Lui non voleva andarsene e ci osservava con aria sarcastica.
«Vattene! Vattene!», gli ingiunsi, smarrito. In quel momento il mio orologio si tese, sfrigolò e batté le sette.

XX

E in casa mia, ardita e libera,
Entra da vera padrona!
Dalla medesima poesia

Le stavo davanti annientato, disonorato, disgustosamente confuso e, credo, sorridevo, cercando affannosamente di coprirmi con i lembi della mia vestagliuccia cenciosa, imbottita d’ovatta: ma sì, esattamente come mi ero immaginato ancor poco prima, in un momento di sconforto. Apollon, rimasto incombente su di noi per un paio di minuti, se ne andò, ma non mi sentii meglio. Il peggio fu che anche lei a un tratto si confuse, e in un modo che non mi sarei mai aspettato. Guardandomi, s’intende.
«Siediti», dissi macchinalmente e le avvicinai la sedia che stava accanto al tavolo, mentre io mi accomodavo sul divano. Lei vi si sedette subito, obbediente, guardandomi con gli occhi sbarrati ed evidentemente aspettandosi qualcosa da me. Proprio l’ingenuità di quell’attesa mi rese furioso, ma mi trattenni.
Avrebbe dovuto fingere di non accorgersi di nulla, come se tutto fosse normale, mentre lei... E sentii vagamente che gliel’avrei fatta pagare cara per tutto ciò.
«Mi hai trovato in una strana situazione, Liza», cominciai, balbettando e sapendo che quello era proprio il modo in cui non bisognava cominciare.
«No, no, non farti chissà quali idee!», gridai, vedendo che a un tratto era arrossita. «Io non mi vergogno della mia povertà... Al contrario, vado fiero della mia povertà. Sono povero, ma nobile... Si può essere poveri e nobili», borbottavo. «Del resto... vuoi del tè?»
«No...», cominciò.
«Aspetta!».
Mi alzai di scatto e corsi da Apollon. Bisognava pur sparire da qualche parte.
«Apollon», sussurrai con rapidità febbrile, gettandogli davanti i sette rubli, che erano rimasti per tutto il tempo nel mio pugno, «eccoti lo stipendio; vedi, te lo pago; ma in compenso devi salvarmi: porta immediatamente del tè dalla trattoria e dieci biscotti. Se non vorrai andare, renderai infelice un uomo! Tu non sai che donna è quella... È - tutto! Tu, forse, pensi chissà che... Ma tu non sai che donna è quella!...».
Apollon, che si era già seduto al lavoro e aveva inforcato di nuovo gli occhiali, dapprima, senza lasciare l’ago, lanciò un’occhiata ai soldi in silenzio; poi, senza prestarmi alcuna attenzione e senza rispondermi nulla, continuò ad armeggiare col filo, che non era ancora riuscito a passare nella cruna. Aspettai per tre minuti buoni, in piedi davanti a lui, con le braccia conserte à la Napoléon. Le mie tempie erano bagnate di sudore; ero pallido, lo sentivo. Ma, grazie a Dio, probabilmente egli s’impietosì, guardandomi. Quand’ebbe finito col suo filo, si alzò lentamente dal posto, lentamente spostò la sedia, lentamente si tolse gli occhiali, lentamente ricontò i soldi e infine, dopo avermi chiesto al di sopra della spalla quanto tè doveva prendere, uscì lentamente dalla stanza. Mentre tornavo da Liza, strada facendo mi venne in mente di darmela a gambe così com’ero, in vestaglia, senza guardarmi indietro, e che lì succedesse quel che doveva succedere.
Tornai a sedermi. Lei mi guardava inquieta. Tacemmo per qualche minuto.
«Io lo ammazzo!», gridai a un tratto, pestando forte il pugno sul tavolo, tanto che l’inchiostro schizzò fuori dal calamaio.
«Ah, che dice!», gridò lei, trasalendo.
«Io lo ammazzo, lo ammazzo!», stridevo, picchiando il tavolo, completamente infuriato e nello stesso tempo comprendendo benissimo quanto fosse stupido essere così infuriato.
«Tu non sai, Liza, che cos’è quel boia per me. Lui è il mio carnefice... Adesso è andato a prendere dei biscotti; lui...».
E a un tratto proruppi in lacrime. Era una crisi. Come mi vergognavo, fra i singhiozzi; ma ormai non riuscivo più a trattenerli. Lei si spaventò.
«Che ha! Che le succede?», gridava, agitandosi intorno a me.
«Acqua, dammi dell’acqua, ecco, là!», mormoravo con voce flebile, rendendomi conto del resto, fra me, che avrei potuto benissimo fare a meno dell’acqua e di mormorare con voce flebile. Ma, come si suol dire, recitavo, per salvare le apparenze, benché la crisi fosse anche autentica.
Lei mi porse l’acqua, guardandomi come sperduta. In quel momento Apollon portò il tè. A un tratto mi sembrò che quel normale e prosaico tè fosse orrendamente sconveniente e misero dopo quel che era stato, e arrossii. Liza guardò Apollon addirittura con spavento. Egli uscì senza degnarci di uno sguardo.
«Liza, tu mi disprezzi?», dissi, guardandola fisso, tremando per l’impazienza di sapere che cosa pensava.
Lei si confuse e non seppe risponder nulla.
«Bevi il tè!», dissi rabbiosamente. Ce l’avevo con me stesso, ma s’intende che chi doveva farne le spese era lei. Una rabbia tremenda contro di lei ribollì a un tratto nel mio cuore; mi sembrava che l’avrei ammazzata. Per vendicarmi, giurai mentalmente di non dirle neppure una parola per tutto il tempo. “Perché è lei la causa di tutto”, pensavo.
Il nostro silenzio durava ormai da cinque minuti. Il tè stava sul tavolo; non l’avevamo toccato: arrivai al punto che non volevo cominciare a bere apposta per metterla ancor più a disagio; e lei non aveva il coraggio di cominciare. Diverse volte mi guardò con triste perplessità. Io mi ostinavo a tacere. Il martire principale ero naturalmente io, perché ero pienamente cosciente della ripugnante bassezza di quella mia biliosa idiozia, e nello stesso tempo non potevo in alcun modo dominarmi.
«Io da quel posto... voglio... andarmene completamente», esordì lei, per rompere in qualche modo il silenzio, ma, poverina, proprio di quell’argomento non bisognava parlare, in quel momento già abbastanza stupido, a una persona già abbastanza stupida com’ero io. Perfino il mio cuore si strinse di compassione per la sua goffaggine e inutile franchezza. Ma qualcosa di orribile schiacciò subito in me tutta la compassione; anzi, mi stuzzicò ancor più; che il mondo intero andasse alla malora! Passarono altri cinque minuti.
«Non l’ho disturbata?», cominciò timidamente, con un filo di voce, e fece per alzarsi.
Ma appena vidi quella prima scintilla di dignità offesa, cominciai a tremare di collera e subito esplosi.
«Perché sei venuta da me, dimmelo, per favore?», cominciai, ansimando e non riuscendo neppure a dare un ordine logico alle mie parole. Volevo tirar fuori tutto insieme, in una volta; non mi preoccupavo neppure di dove cominciare.
«Perché sei venuta? Rispondi! Rispondi!», gridai, quasi fuori di me. «Te lo dico io, bella mia, perché sei venuta. Sei venuta perché allora ti dissi delle parole pietose. Ed ecco che ti sei intenerita e ti è venuta di nuovo voglia di “parole pietose”. Dunque sappi, sappi che allora ridevo di te. E anche adesso rido. Perché tremi? Sì, ridevo! A pranzo mi avevano appena offeso proprio quelli che erano arrivati prima di me. Ero venuto lì per picchiare uno di loro, l’ufficiale; ma non ci ero riuscito, non l’avevo trovato; bisognava pure vendicarsi dell’offesa su qualcuno, prendersi una rivincita: mi capitasti a tiro tu, e su di te riversai il fiele e mi divertii a tue spese. Mi avevano umiliato, e allora anch’io volevo umiliare; mi avevano trattato come uno straccio, e allora io volevo mostrare il mio potere... Ecco cos’è stato, e tu già pensavi che fossi venuto apposta per salvarti, eh? L’hai pensato? L’hai pensato?».
Sapevo che forse si sarebbe confusa e non avrebbe capito i particolari; ma sapevo anche che avrebbe capito benissimo la sostanza. E così accadde. Divenne pallida come un cencio, volle dire qualcosa, le sue labbra si contorsero dolorosamente; ma come se le avessero tagliato le gambe con una scure, ricadde sulla sedia. E per tutto il tempo poi mi ascoltò a bocca aperta, spalancando gli occhi e tremando per l’orrore e la paura. Il cinismo, il cinismo delle mie parole l’aveva schiacciata...
«Salvare!», continuavo, balzando dalla sedia e correndo avanti e indietro per la stanza davanti a lei. «Salvare da che! Ma se forse sono peggio di te! Perché allora, quando ti recitavo quei sermoni, non mi sbattesti sul muso: “E tu perché sei venuto da noi? Per insegnarci la morale, forse?”. Di potere, di potere avevo bisogno allora, di teatro avevo bisogno, di ottenere le tue lacrime, la tua umiliazione, il tuo isterismo: ecco di che avevo bisogno allora! E poi io stesso non lo sopportai, perché sono una nullità, mi spaventai, e il diavolo sa perché ti diedi stupidamente il mio indirizzo. Quanto inveii poi, prima ancora di arrivare a casa, quanto imprecai contro di te per quell’indirizzo. Ormai ti odiavo perché ti avevo mentito. Perché volevo soltanto giocare un po’ a parole, fantasticare di testa, mentre di fatto sai che cosa mi occorre? Che andiate in malora, ecco cosa! Mi occorre la tranquillità! E pur di non essere disturbato, adesso venderei tutto il mondo per una copeca. Che vada in malora il mondo, oppure che io non possa bere il mio tè? Io risponderò: che il mondo vada in malora, ma io possa sempre bere il tè. Lo sapevi questo, oppure no? Ecco, e invece io lo so di essere una canaglia, un vigliacco, un egoista, un fannullone. Ho tremato per tutti questi tre giorni, per la paura che tu venissi. E sai che cosa mi preoccupava più di tutto in questi tre giorni? Che allora avevo recitato la parte dell’eroe davanti a te, mentre qui a un tratto mi avresti visto con questa vestaglietta sdrucita, misero, ributtante. Ti ho detto poco fa che non mi vergogno della mia povertà; ebbene, sappi che me ne vergogno, me ne vergogno più di ogni altra cosa, la temo più di ogni altra cosa, più che se rubassi, perché sono vanitoso come se mi avessero strappato la pelle, e ormai anche l’aria mi fa male. Ma possibile che neppure ora tu abbia indovinato che non ti perdonerò mai di avermi trovato con indosso questa vestagliuccia, mentre mi avventavo, come un cagnetto rabbioso, contro Apollon? Il salvatore, l’eroe di allora si avventa come un botolo tignoso e spelacchiato contro il suo lacchè, il quale ride di lui! Anche le lacrime di prima, che non ho saputo trattenere davanti a te, come una donnetta colta in fallo, non te le perdonerò mai! E anche ciò che adesso ti sto confessando non lo perdonerò mai a te. Sì: tu, tu sola devi rispondere di tutto questo, perché mi sei capitata a tiro, perché sono un mascalzone, perché sono il più schifoso, il più ridicolo, il più meschino, il più stupido, il più invidioso di tutti i vermi della terra, che non sono affatto migliori di me, ma che, sa il diavolo perché, non si imbarazzano mai; mentre io per tutta la vita continuerò a ricevere schiaffi da ogni lendine - e questa è una mia caratteristica! E che me ne importa se tu non capirai niente di tutto questo! E che cosa, ma che cosa mai me ne importa di te, e se in quel posto ti stai rovinando oppure no? Ma lo capisci come ti odierò adesso, dopo averti detto questo, solo perché sei stata qui e hai ascoltato? Perché un uomo si confessa così soltanto una volta nella vita, e solo in preda all’isterismo!... Che vuoi ancora? Che hai ancora, dopo tutto questo, da startene impalata davanti a me, perché mi tormenti, perché non te ne vai?».
Ma a questo punto accadde una strana circostanza.
Ero talmente abituato a pensare e immaginare tutto secondo i libri e a rappresentarmi ogni cosa al mondo così come io stesso l’avevo inventata prima nei miei sogni, che lì per lì non capii neppure quella strana circostanza. Ma ecco quel che accadde: Liza, offesa e schiacciata da me, aveva capito molto più di quanto immaginassi. Aveva capito, di tutto, ciò che una donna capisce sempre prima di ogni altra cosa, se ama veramente, e cioè che ero infelice.
Il senso di spavento e di offesa cedette il posto sul suo viso dapprima a un doloroso stupore. Quando poi cominciai a darmi della canaglia e del vigliacco e a piangere a dirotto (pronunciai tutta quella tirata fra le lacrime), tutto il suo viso fu contratto da una specie di spasimo. Voleva alzarsi, fermarmi; quando poi finii, non prestò attenzione alle mie grida: “Perché sei qui, perché non te ne vai!”, ma alla sofferenza che doveva essermi costata quella confessione. E poi era così avvilita, poverina; si considerava infinitamente inferiore a me; come poteva stizzirsi, offendersi? A un tratto balzò dalla sedia per un impulso incontenibile e, protendendosi tutta verso di me, ma sempre intimidita e senza osare muoversi dal posto, mi tese le braccia... Perfino il mio cuore ne fu scosso. Allora a un tratto si slanciò verso di me, mi cinse il collo con entrambe le braccia e scoppiò in pianto. Anch’io non ressi e mi misi a singhiozzare come non mi era mai capitato prima...
«Non mi lasciano... Io non posso essere... buono!», dissi a stento, quindi arrivai fino al divano, vi caddi bocconi e per un quarto d’ora singhiozzai in preda a un’autentica crisi isterica. Lei si strinse a me, mi abbracciò e parve restare sospesa in quell’abbraccio.
Ma il problema era che la mia crisi isterica dove pur passare. E così (sto scrivendo l’infame verità), mentre ero disteso bocconi sul divano, tenendomici ben stretto, e affondavo il viso nel mio miserabile cuscino di pelle, cominciai a sentire a poco a poco, da lontano, involontariamente ma irrefrenabilmente, che adesso sarebbe stato imbarazzante alzare la testa e guardare Liza dritto negli occhi. Di che mi vergognavo? Non so, ma mi vergognavo. Nella mia testa sconvolta passò anche l’idea che le parti adesso si erano definitivamente invertite, che l’eroina adesso era lei, mentre io ero una creatura umiliata e schiacciata, come lei dinanzi a me quella notte, quattro giorni prima... E tutto questo mi venne in mente già in quei minuti in cui giacevo bocconi sul divano!
Dio mio! Possibile che allora la invidiassi?
Non so, ancor oggi non so decidere, ma allora, naturalmente, potevo comprenderlo ancor meno di adesso. Senza esercitare potere e tirannia su qualcuno io infatti non so vivere... Ma... con i ragionamenti non si spiega niente, e di conseguenza è inutile ragionare.
In ogni modo mi vinsi e sollevai un po’ la testa; bisognava pure sollevarla, prima o poi... Ed ecco, sono tuttora convinto che proprio perché mi vergognavo di guardarla, nel mio cuore a un tratto allora si accese e divampò tutt’altro sentimento... un sentimento di dominio e di possesso. I miei occhi brillarono di passione, e strinsi forte le sue mani. Come la odiavo e come mi sentivo attirato da lei in quel momento! Un sentimento rafforzava l’altro. Assomigliava quasi a una vendetta!... Sul suo viso si espresse dapprima una sorta di perplessità, quasi di paura, ma fu solo un attimo. Mi abbracciò con trasporto e ardore.

XXI

Un quarto d’ora dopo correvo avanti e indietro per la stanza con forsennata impazienza, mi avvicinavo ogni momento al paravento e spiavo Liza dalla fessura. Lei sedeva sul pavimento, con la testa appoggiata al letto e, probabilmente, piangeva. Ma non se ne andava, e questo mi irritava. Stavolta sapeva già tutto. L’avevo offesa definitivamente, ma... non è il caso di raccontare. Aveva indovinato che il mio impulso di passione era appunto una vendetta, un nuovo modo di umiliarla, e che al mio odio di prima, quasi astratto, si aggiungeva adesso un odio ormai personale, invidioso per lei... E del resto non sostengo che capisse tutto ciò distintamente; ma in compenso capiva perfettamente che ero un uomo abietto e, soprattutto, incapace di amarla.
Lo so, mi si dirà che questo è inverosimile: è inverosimile essere cattivi, stupidi come me; forse si aggiungerà ancora che era inverosimile non amarla o perlomeno non apprezzare il suo amore. Ma perché inverosimile? In primo luogo, ormai non potevo più amare, perché, lo ripeto, amare per me significava tiranneggiare e avere la supremazia morale. Per tutta la vita non ho potuto neppure immaginare un amore diverso e sono arrivato al punto che talvolta ora penso che l’amore consista appunto nel diritto di tiranneggiare l’oggetto amato, volontariamente concesso da quest’ultimo. Anche nei miei sogni del sottosuolo non mi immaginavo l’amore altrimenti che come una lotta, lo facevo sempre cominciare con l’odio e finire con la sottomissione morale, e a questo punto non sapevo neppure immaginare che dovessi farmene dell’oggetto sottomesso. E poi che c’è di inverosimile, se mi ero già moralmente corrotto a tal segno, mi ero così disabituato alla “vita vera”, che poco prima avevo pensato di rimproverarla e svergognarla perché era venuta da me ad ascoltare “parole pietose”; e non indovinavo neppure che non era venuta affatto per ascoltare parole pietose, ma per amarmi, perché per una donna proprio nell’amore consiste ogni resurrezione, ogni salvezza da qualsiasi perdizione e ogni rigenerazione, che non può manifestarsi altrimenti che in esso. Del resto, ormai non l’odiavo più tanto, quando correvo per la stanza e guardavo dalla fessura oltre il paravento. Mi era soltanto insopportabilmente penoso che fosse lì. Avrei voluto che scomparisse. Desideravo “la tranquillità”, desideravo restarmene solo nel sottosuolo. La “vita vera” mi aveva a tal punto schiacciato, che facevo fatica perfino a respirare.
Ma passarono ancora alcuni minuti, e lei non si alzava, come se fosse assopita. Ebbi la spudoratezza di bussare piano piano sul paravento, per ricordarle... A un tratto si riscosse, si levò di scatto e si precipitò a cercare il suo scialle, il suo cappellino, la pelliccia, come volesse salvarsi da me fuggendo via... Due minuti dopo uscì lentamente da dietro il paravento e mi lanciò un’occhiata greve. Feci un sorrisetto cattivo, del resto forzatamente, per salvare le apparenze, e mi voltai per evitare il suo sguardo.
«Addio», disse lei, dirigendosi verso la porta.
All’improvviso corsi da lei, le afferrai la mano, la aprii, vi misi... e poi la richiusi di nuovo. Subito dopo mi voltai dall’altra parte e scappai alla svelta nell’angolo opposto, per non vedere almeno...
Or ora volevo mentire: scrivere che lo feci casualmente, in un attimo di confusione e smarrimento, per pura stupidità. Ma non voglio mentire e perciò dico chiaro e tondo che le aprii la mano e vi posi... per cattiveria. Mi era venuto in mente di farlo mentre correvo avanti e indietro per la stanza, e lei stava seduta dietro il paravento. Ma ecco cosa posso dire con sicurezza: feci quel gesto crudele apposta, sì, ma non col cuore, bensì con la mia testa malata. Quella crudeltà era a tal punto artificiosa, a tal punto cerebrale, precostruita, libresca, che io stesso non resistetti neppure un minuto: prima scappai nell’angolo per non vedere, e poi con vergogna e disperazione mi misi a rincorrere Liza. Aprii la porta dell’anticamera e stetti in ascolto.
«Liza! Liza!», chiamai sulla scala, ma timidamente, sottovoce...
Non ci fu risposta, mi parve di sentire i suoi passi sugli ultimi gradini.
«Liza!», gridai più forte.
Nessuna risposta. Ma in quel momento sentii di sotto aprirsi a fatica, con un cigolio, e poi sbattere pesantemente la massiccia porta a vetri esterna, che dava sulla strada. Il rumore echeggiò su per le scale.
Se n’era andata. Rientrai in casa, pensieroso. Mi sentivo terribilmente oppresso.
Mi fermai davanti al tavolo, vicino alla sedia su cui si era seduta lei, e guardai insensatamente nel vuoto. Passò circa un minuto, e all’improvviso trasalii tutto: proprio davanti a me, sul tavolo, vidi... insomma vidi una banconota azzurra da cinque rubli, spiegazzata, la stessa che un minuto prima avevo stretto nella sua mano. Era quella banconota; né avrebbe potuto essere un’altra; in casa non ce n’erano altre. Dunque aveva fatto in tempo a gettarla sul tavolo, nel momento in cui ero scappato nell’angolo.
E allora? Potevo aspettarmi che l’avrebbe fatto. Potevo aspettarmelo? No. Ero talmente egoista, stimavo così poco gli uomini, in realtà, che non potevo neppure immaginarmi che l’avrebbe fatto. Non lo sopportai. Un attimo dopo corsi come un pazzo a vestirmi, mi gettai addosso quel che riuscii a trovare nella fretta, e mi lanciai a perdifiato al suo inseguimento. Non doveva essersi allontanata neppure di duecento passi, quando corsi fuori in strada.
C’era silenzio, la neve fioccava e cadeva quasi perpendicolarmente, stendendo un cuscino sul marciapiede e sulla via deserta. Non c’era un passante, non si udiva un suono. I lampioni tremolavano tristi e inutili. Corsi per circa duecento passi fino all’incrocio e mi fermai.
“Dov’è andata? E perché la rincorro? Perché? Per cadere in ginocchio davanti a lei, singhiozzare di pentimento, baciarle i piedi, implorare perdono!”. Era questo che volevo; tutto il mio petto si straziava e lacerava, e mai, mai ricorderò quel momento con indifferenza. “Ma perché?”, pensai. “Forse non prenderò a odiarla, magari domani stesso, proprio perché oggi le ho baciato i piedi? Le darò forse la felicità? Oggi non ho forse saputo di nuovo, per la centesima volta, quanto valgo? Non la tormenterò forse?”.
Stavo ritto nella neve, fissando la tenebra torbida, e pensavo a questo.
“E non sarà meglio, non sarà meglio”, fantasticavo ormai a casa, soffocando con le fantasie il dolore vivo del cuore, “non sarà meglio se lei porterà con sé l’offesa per sempre? L’offesa è infatti una purificazione; è la più bruciante e dolorosa presa di coscienza! Domani stesso avrei insozzato la sua anima e avrei sfinito il suo cuore. Mentre ora l’offesa non si estinguerà mai in lei, e per quanto sudicio sia il fango che l’attende, l’offesa la eleverà e purificherà... con l’odio... hmm... forse anche col perdono... E del resto starà forse meglio per questo?”.
In effetti, ecco che pongo una domanda oziosa da parte mia: che cos’è meglio: una felicità a buon mercato o elevate sofferenze? E allora, che cos’è meglio?
Così farneticavo quella sera a casa mia, più morto che vivo per il dolore dell’anima. Mai prima di allora avevo sopportato tante sofferenze e rimorsi; ma poteva esserci alcun dubbio, quando ero uscito di corsa dall’appartamento, che a metà strada sarei tornato a casa? Non incontrai mai più Liza e non ne sentii mai più parlare. Aggiungerò anche che per molto tempo restai soddisfatto della frase sull’utilità dell’offesa e dell’odio, benché io stesso per poco non mi ammalassi per l’angoscia.
Perfino adesso, dopo tanti anni, tutto ciò è troppo sgradevole da ricordare. Molte cose adesso sono sgradevoli da ricordare, ma... non sarà meglio concludere qui queste «Memorie»? Mi sembra di aver commesso un errore, cominciando a scriverle. Per lo meno ho provato vergogna per tutto il tempo, scrivendo questo racconto: dunque non è più letteratura, ma una punizione destinata a emendarmi. Infatti raccontare, per esempio, lunghe storie su come ho mancato la mia vita per la corruzione morale consumata nel mio cantuccio, per la mancanza di un ambiente sociale, la disabitudine alla vita e il vano risentimento covato nel sottosuolo - quanto è vero Dio, non è interessante; in un romanzo ci vuole un eroe, e qui sono raccolte apposta tutte le caratteristiche di un antieroe, e l’essenziale è che tutto ciò produrrà un’impressione spiacevole, perché siamo tutti disabituati alla vita, tutti zoppichiamo, chi più chi meno. Anzi, siamo talmente disabituati che talvolta sentiamo per l’autentica “vita vera” una sorta di ripugnanza, e perciò non possiamo sopportare che ce la rammentino. Infatti siamo arrivati al punto da considerare l’autentica “vita vera” quasi una fatica, poco meno che un lavoro, e siamo tutti d’accordo, in cuor nostro, che sui libri è meglio. E perché ci arrabattiamo talvolta, perché facciamo stravaganze, che cosa chiediamo? Non sappiamo neppure noi che cosa. E staremmo peggio, se le nostre stravaganti richieste venissero accolte. Ebbene, provate un po’ a darci, per esempio, più indipendenza, slegate le mani a chiunque di noi, ampliate la nostra sfera di attività, indebolite la tutela, e noi... ma ve l’assicuro: chiederemo subito di ritornare sotto tutela. So che forse vi arrabbierete con me per questo, griderete, pesterete i piedi: “Parli per sé, direte, e per le sue miserie del sottosuolo, e non si azzardi a dire: ‘tutti noi’“. Permettete, signori, io non mi giustifico affatto con questa generalizzazione. Per quel che poi riguarda me personalmente, nella mia vita ho solo portato alle estreme conseguenze ciò che voi non avete osato condurre neppure a metà, prendendo oltretutto per buon senso la vostra viltà, e consolandovi così, ingannando voi stessi. Sicché io, forse, ne esco ancor più “vivo” di voi. Ma guardate più attentamente! Se non sappiamo neppure dove abiti, adesso, questa vita, e cosa sia, come si chiami! Lasciateci soli, senza i libri, e subito ci confonderemo, ci smarriremo: non sapremo che partito pigliare, a cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare! Ci è di peso perfino essere uomini - uomini con un corpo e sangue vero, nostro; ce ne vergogniamo, lo consideriamo un disonore e ci sforziamo di essere non so che ipotetici uomini universali. Siamo nati morti, e da tempo non nasciamo più da padri vivi, e la cosa ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto escogiteremo il modo di nascere da un’idea. Ma basta; non voglio più scrivere “dal Sottosuolo”...

Del resto, non si concludono qui le “memorie” di questo amante dei paradossi. Egli non ha resistito e ha continuato. Ma anche a noi sembra che ci si possa fermare qui.