I comunisti

Solo chi ha giurato di non capire nulla per tutta la vita, ed è capace di mantenere quel giuramento senza difficoltà, può vedere quale sia la tecnica dei comunisti nei paesi non ancora annessi al sistema sovietico. Mantenere la più rigida compattezza nell'<< apparato >>, al vertice della piramide; promuovere la formazione di una << base >> più larga che sia possibile, senza preoccuparsi della sua eterogeneità, ma propagginandovi << cellule >>, altrettanto omogenee quanto l'<< apparato >> stesso; inscenare per mezzo delle << cellule >>, o di << compagni di viaggio >>, o di << idioti utili >>, agitazioni che possano attirare e convogliare nella << base >> la massima quantità possibile di << forze d'urto >>; se l'iniziativa di un'agitazione è presa da altri partiti o gruppi, inserirvi le proprie << cellule >> per favorirla o frastornarla, secondo sembri conveniente; manovrare in modo che le << cellule >> si tengano sempre all'avanguardia dell << forze d'urto >> per dirigerle verso i fini predisposti dall'<< apparato >>, o almeno per impedire che seguano impulsi provenienti da altre origini; conquistare non appena se ne presenti l'occasione, con qualunque mezzo, il governo, cioé mettere la polizia e la burocrazia agli ordini dell'<< apparato >>, << epurandole >> al più presto possibile di ogni elemento << deviazionista >>; sopprimere per mezzo della polizia e della burocrazia così epurate ogni iniziativa che non convenga all'<< apparato >>; consolidare sempre più metodicamente la onnipotenza dell'<< apparato >>, battezzata come << dittatura del proletariato >>.
Se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che questa non è una tecnica esclusiva del Partito comunista. Dovunque gli uomini si associano per fini di qualunque genere, sorge una divisione di lavoro fra una minoranza che fa tutto, e una maggioranza che non fa nulla, salvo ripetere più o meno confusamente le parole d'ordine della minoranza, e seguirne più o meno disciplinatamente i comandi, fino a quando abbia fiducia in essa; perduta quella fiducia, non fa più niente per nessuno, o si lascia convogliare dietro a qualche altro << apparato >>. Più vasta diventa la << massa >>, più necessaria diventa una gerarchia di caporali, sergenti, ufficiali inferiori, ufficiali superiori, comando supremo, la quale tenga stretta insieme e disciplinata la moltitudine. Altrimenti questa rimarrebbe in uno stato caotico, e finirebbe con essere inquadrata e manovrata da un apparato concorrente. I comunisti seguono il metodo di tutti coloro che hanno << direzione d'anime >>, come dicono i gesuiti, e che è in fondo il metodo proprio anche ai gesuiti e ai fascisti.
Fra i partiti fascisti e comunisti da un lato, e i partiti gesuiti o gesuitanti dall'altro, c'è una non trascurabile differenza. I comunisti e i fascisti negano esplicitamente ai seguaci la libertà di uscire dai loro steccati, e stroncano dove e quando possono chi ne esce. I gesuiti o gesuitanti non negano mai esplicitamente quella libertà, ma procurano di irretire chi ne fa uso, o accenna a farne uso, in un tale viluppo di sanzioni (religiose, morali, sociali, economiche, ecc.), che è necessaria una forza di carattere non comune per fare a modo proprio. Ma non bisogna dimenticare che, quando potevano fare quello che volevano, anche i gesuiti e gesuitanti negavano esplicitamente ogni libera uscita, e non scherzavano punto in fatto di sanzioni. I comunisti possono trovare nelle pratiche del Sant'Uffizio molti precedenti per le loro pratiche odierne.
Nel 1851, dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone in Francia, Alexis del Tocqueville disse che lui non disprezzava il suo popolo fino al punto da ritenere indispensabile farlo vivere sotto una dittatura. In fondo alla tecnica e alla dottrina comunista (come di ogni tecnica e dottrina dittatoriale, anche se gesuitica o fascista) c'è un disprezzo radicale verso le capacità intellettuali e morali dei propri simili: pecore cieche e matte, che non si curano di cercare e sarebbero inette a trovare da sé una via per non cadere tutte insieme nell'abisso, e quindi bisognose di essere tenute sulla buona strada da cani mastini e da pastori infallibili che indichino la via ai cani e alle pecore.

e noi, pazzi malinconici

« Prego, chi siete voi? » Noi siamo una mezza dozzina di pazzi malinconici (o innocenti), ultimi eredi di una stirpe illustre, che si va rapidamente estinguendo; massi erratici, abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si è ritirato sulle alte montagne. È il ghiacciaio che si chiamò “liberalismo”, “democrazia”, “socialismo”, in quel secolo che il forsennato Léon Daudet chiamò «lo stupido secolo decimonono», mentre noi insistiamo a considerarlo come il più intelligente, il più umano, il più glorioso dei secoli Morituri te salutant. Il « liberale» di allora rispettava la libertà altrui e rivendicava la propria. Era anticlericale, perché i clericali minacciavano, e, dove potevano, soffocavano la sua libertà, ma non si sarebbe mai sognato di vietare al clericale di predicare le dottrine del clericalismo, anzi ci prendeva gusto a vedergliele predicare e a riderci su. Era monarchico e conservatore, ma lasciava cantare i repubblicani e gli anarchici. Era individualista, ma sopportava pazientemente la modestia dei socialisti, e magari arrivava a dire: « Oggi siamo tutti socialisti ». Quando la paura dei « sovversivi» (e ne avevano più che questi poveracci meritassero) lo spingeva a stati di assedio, condanne al carcere o al domicilio coatto, sentiva vergogna di quel che faceva; e appena poteva dare qualche amnistia, e ritornare alla normalità, tirava un sospirone di sollievo e si metteva l’animo in pace. Impetrava l’alleanza elettorale dei clericali contro i «sovversivi», ma non si sarebbe mai sognato di sopprimere le libertà politiche dei «sovversivi», come i clericali avrebbero fatto, se avessero potuto, non solo coi sovversivi, ma con gli stessi liberali. La libertà (diceva il liberale di allora) è come la lancia di Achille: ferisce e risana. Malo periculosam libertatem, ripeteva con Tacito. Motivo per cui noi ci denomineremmo volentieri « liberali ». Ma la parola si è così debosciata nel secolo in cui respiriamo, che ci vuole oggi unostomaco di struzzo per dirsi « liberale ». Il liberalismo classico, - quello, per intenderci, di un Cavour o di un John Stuart Mill, - più che un partito, è ormai uno stato d’animo, che si può trovare ovunque viva un uomo civile in qualunque partito. E molto spesso fra quelli che rivendicano il monopolio della etichetta liberale, il medesimo individuo è liberale in un momento su una data questione, e totalitario subito dopo su un’altra. Ne consegue che a chiamarvi liberale correte il rischio di vedervi confuso con certa gente, con cui non vorreste avere nulla da fare neanche se il loro aiuto dovesse scamparvi dalla morte. Ci denomineremmo anche « democratici », dato che la libertà « signorile » come la chiamava Benedetto Croce, cioè riservata alle classi danarose e colte (e incolte purché danarose), intendiamo estenderla agli uomini e donne di tutte le classi sociali. Ma anche la parola « democratico» si è debosciata: non meno e forse più che la parola « liberale ». Ci chiameremmo socialisti o socialdemocratici, dato che ameremmo lavorare alla costruzione di un assetto sociale, nel quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di benessere e di sicurezza per tutti, senza il quale minimo, né può sorgere il desiderio della libertà, né i diritti di libertà possono essere di regola praticati. Tanto per evitare equivoci, il nostro socialismo si apparenta più con quello di Jaurès, dei laboristi inglesi, dei riformisti italiani alla Turati, alla Bissolati e alla Battisti, che con quello degli arcivescovi, vescovi, parroci e sacrestani della Chiesa stalinista. Ma questo socialismo (o socialdemocrazia) si è andato anche esso progressivamente così discreditando, che, oggi, dirsi socialista o socialdemocratico, specialmente dopo le esperienze di questi ultimi tempi, è come buttarsi giù dalla Rupe Tarpeia. Ci denomineremmo anche repubblicani, dato che Vittorio Emanuele III in venti anni di complicità con Mussolini ci rese repubblicani militanti (le repubbliche non nacquero mai dalle virtù o dalla sapienza dei repubblicani, ma dai delitti e dalle scempiaggini dei re). Ma è peggio che andar di notte. I repubblicani hanno avuto in Italia, in non più che cinque anni, l’abilità di discreditarsi più che liberali, democratici e socialisti si siano rovinati in mezzo secolo. In sintesi, ci denomineremmo “liberali-democratici-socialisti-repubblicani”; e, siccome la orribile abitudine americana delle iniziali ha invaso anche il paese dove il sì suona, ci diremmo LDSR: appena una lettera più del PCI, PSI, PLI, PRI, MSI, e tante quante il PSDI (questo non ha saputo neanche mettere insieme un gruppo di iniziali che si potesse pronunciare). Ma quelle quattro lettere ci ricorderebbero, combinate insieme, tutti i vituperi che accompagnano ormai le realtà separate. Dichiariamoci dunque niente altro che pazzi malinconici (PM) e chi vuol capire capisca, e chi non vuol capire passi via.

Colpire uniti, marciar divisi

Noi, dunque, pur sapendo quanta parte di pecora, e di cane, e di lupo, e di suino, c’è nell’uomo, riteniamo che l’uomo sia capace di diventare meno brutto, grazie alla educazione di quella intelligenza che lo distingue dal bruto. E il solo metodo disponibile per educare quella intelligenza è la libera discussione, con tutte le libertà implicite in essa. Perciò rifiutiamo ogni dottrina la quale ritenga legittima arte di governo sfruttare la brutalità umana anziché sviluppare più che sia possibile le forze superiori della intelligenza e della moralità. Nel 1851, dopo il colpo di stato di Luigi Napoleone in Francia, Alexis de Tocqueville disse che lui non disprezzava il suo popolo fino al punto da ritenere indispensabile farlo vivere sotto una dittatura. In fondo alla tecnica e alla dottrina comunista (come di ogni tecnica e dottrina dittatoriale, anche se gesuita o fascista) c’è un disprezzo radicale verso le capacità intellettuali e morali dei propri simili: pecore cieche e matte, che non si curano di cercare e sarebbero inette a trovare da sé una via per non cadere nell’abisso, e quindi bisognose di essere tenute sulla buona strada da cani mastini e da pastori infallibili che indichino la via ai cani e alle pecore. Noi, a differenza dei comunisti e gesuiti, riconosciamo a chiunque il diritto di entrare ed uscire dai nostri steccati a volontà; beninteso che, essendo anche noi uomini, mastichiamo amaro quando qualcuno se ne va, e lo accompagniamo con l’augurio di un accidente secco (ma sappiamo che questo non sta bene). Stretti fra totalitari di destra e totalitari di sinistra, e assaliti di fronte e alle spalle da fascisti nostalgici, neofascisti, criptofascisti, gesuiti e gesuitanti, noi, tapinelli, ci muoviamo su un terreno che si restringe sotto i nostri piedi ogni giorno un poco più (e qualche giorno anche molto), come la pelle di zigrino resa immortale da Balzac. I totalitari di sinistra domanderebbero a un « tribunale del popolo» la nostra condanna alle forche. E quelli di destra ci obbligherebbero a presentare anche al fornaio e al dentista la tessera del partito o il bollettino della confessione; il quale obbligo ci sembrerebbe peggiore di una condanna alle forche. La nostra condizione è resa più miseranda che mai, quando la Democrazia cristiana ci serve in tavola un boccone, come la legge sulla stampa, che noi ci rifiutiamo di inghiottire. Da un lato, ci sono quei gruppi che si chiamano « laici» (liberali, socialisti, repubblicani), ma che con la Democrazia cristiana fanno come quelle signore che cominciano sempre col dire di no e finiscono sempre col dire di sì; e questo perché bisogna difendere la democrazia-democrazia-democrazia dagli assalti dei comunisti. Dall’altro, c’è sempre un comunista o un compagno di viaggio o un idiota utile, che ci batte la mano sulla spalla, e ci sussurra: « Vieni meco! », cioè ci invita a difendere in sua compagnia quel poco di democrazia che riescì a venire a galla dalla confusione del 1945 e non è stato ancora affogato in questa repubblica monarchica dei preti; ma, in fondo alla strada che siamo invitati ad imbroccare, si intravvede la Cecoslovacchia, con le sue processioni di mogli che smaniano di rimanere vedove, ed implorano i « tribunali del popolo» perché pronunzino molte, ma molte condanne a morte. Stretti fra l’uscio e il muro, come comportarci? II problema fu sollevato da Ernesto Rossi nel « Mondo» dell’8 novembre 1952, ed è stato discusso così in lungo ed in largo nelle settimane successive che non si può più dire nulla di nuovo né pro né contro la cooperazione coi comunisti. Ma forse è possibile formulare qualche conclusione. E la conclusione è che un pazzo malinconico non deve partecipare mai, neanche per scampare alla morte, a nessuna iniziativa, comunque seducente, la quale sia presa da comunisti o compagni di viaggio o idioti utili notori. Ognuno per sé e Dio per tutti. Chi vuol servire come idiota utile, faccia pure, ma non aspetti di cooptare pazzi malinconici. Alle riunioni, alle quali sieno convocati uomini di tutti i partiti per discutere argomenti come il progetto di legge sulla stampa, e alle quali si può prevedere che interverranno comunisti o compagni di viaggio per tirar l’acqua al loro mulino, i pazzi malinconici dovrebbero partecipare; sempre, senza esitazione. Ma dovrebbero sempre proporsi non solo di dire le ragioni del proprio atteggiamento sulla materia in discussione,ma anche quello di chiarire con la massima nettezza possibile il contrasto fra le ragioni del proprio atteggiamento e quello dei comunisti e compagni di viaggio: cioè il contrasto tra il fine che i pazzi malinconici vorrebbero raggiungere: opporsi ad una ulteriore restrizione della pelle di zigrino, e promuoverne possibilmente qualche estensione; e il fine che comunisti e compagni di viaggio si propongono, che è quello di distruggere, a profitto proprio e a tempo opportuno, di quella pelle anche quel tanto che non è stato ancora corroso. Nella discussione che ebbe luogo a « Comunità» nell’ottobre 1952 a proposito della legge sulla stampa, mi sarebbe piaciuto assai che qualcuno avesse ricordato al senatore Terracini che nell’aprile 1947 il comunista Mario Montagnana sostenne nell’ « Unità» la teoria che il sequestro preventivo dei giornali era necessario e doveva essere affidato alla polizia. Allora i comunisti italiani speravano di conquistare il governo, votando il Concordato per tenere a bada il Vaticano; ed in un regime comunista la polizia sarebbe stata investita con ben altri poteri che il sequestro preventivo dei giornali. Qualcuno nel 1952 avrebbe dovuto domandare al senatore Terracini se la sua passione per la libertà di stampa sarebbe durata, come la rosa, « lo spazio di un mattino », o se fosse destinata a rimanere perenne senza corsi e ricorsi. Beninteso, avrei avuto gran piacere se qualche altro avesse domandato al senatore Bergamini, presidente di quella riunione, se gli applausi entusiastici, da lui dati negli anni 1920-22 sul « Giornale d’Italia» alle devastazioni che i fascisti facevano dei giornali socialisti, ricomparirebbero domani in quel regime della stampa, che una monarchia restaurata non potrebbe non mettere sul collo del popolo italiano. In conclusione, nessuna firma a nessun ordine del giorno sulla libertà di stampa che fosse firmato o dal senatore Terracini o dal senatore Bergamini. Come nessuna firma a nessun ordine del giorno che portasse le firme del prof. Gedda e di padre Lombardi e che condannasse le forche presenti di Praga senza sconfessare anche le forche eventuali della « Civiltà Cattolica ». Colpire uniti, quando è il caso; marciar divisi sempre, ad ogni costo.

Cavour e Togliatti

Non si tratta della « bizzarra dottrina» attribuitaci da Togliatti (“Rinascita”, ottobre 1952) ché, « se si è d’accordo coi comunisti su punti determinati di un programma politico ideale, non bisogna dichiararlo ». La nostra idea autentica è che, nel dichiarare un accordo transitorio su un punto determinato, bisogna anche chiarire il disaccordo permanente sul fine che si vuol raggiungere al di là dell’accordo immediato. Nella fattispecie della legge sulla stampa, è necessario mettere in chiaro quel pensiero che Togliatti condensa nelle seguenti poche, brevi e sentite parole: Dire che certe misure, poniamo pure restrittive di certi diritti di libertà, adottate da un regime sorto da una rivoluzione e che sta attuando una rivoluzione degli ordinamenti economici e sociali, sieno la stessa cosa delle misure di un governo reazionario, è per lo meno ridicolo. Se uno non capisce questa differenza, non si occupi di queste questioni, è il meno che gli si possa dire. Modestia a parte, noi pazzi malinconici possiamo affermare che quella differenza l’abbiamo capita perfettamente. E questa è la ragione per cui ci teniamo sempre in guardia contro il pericolo di diventare idioti utili. E se ogni comunista, o compagno di viaggio, o idiota utile spiegasse quella differenza al principio di ogni discorso in cui rivendica un diritto di libertà, cioè se dicesse chiaro e tondo che i suoi argomenti valgono solamente in quanto vogliono resistere a iniziative di un regime non comunista, ma cadrebbero nel nulla non appena iniziative dello stesso genere fossero prese da un regime comunista, è chiaro che nessun pazzo malinconico avrebbe ragione di perdere il fiato a ripetere quel che ogni comunista direbbe. Il guaio è che questo non avviene, e chi vuol capire certi doppi giochi deve andare a scoprirli in alcune linee piuttosto critiche di « Rinascita ». Ecco perché in ogni manifestazione alla quale comunisti e pazzi malinconici si trovino gomito a gomito, e i primi dichiarino le sole ragioni transitorie di un consenso transitorio, spetta ai pazzi malinconici l’obbligo di mettere in luce anche le ragioni del dissenso permanente. Garibaldi e Cavour (insegna Togliatti in Rinascita) erano in disaccordo sulla questione della monarchia e della repubblica, ma erano d’accordo nel voler costruire la unità politica d‘ Italia; se non si fossero messi d ‘accordo nel far fuori i Borboni, rinviando a miglior tempo la questione della forma politica da cui erano divisi, l’unità italiana non sarebbe sorta mai. Giustissimo. Ma Cavour, nel momento di coordinarsi con Garibaldi e coi Mille, non mostrava ai suoi alleati in fondo alla strada comune tante forche allineate che li aspettavano. Le forche di Togliatti fanno una certa differenza fra lui e Cavour. Essere d’accordo per resistere ad un malanno presente è un affare; coordinare la propria azione con quella di chi vi minaccia con un malanno maggiore allo sbocco del cammino comune, è un affare assai diverso. A me pare che il dissenso con Ernesto Rossi espresso da Jemolo sul Mondo del 22 novembre, nasca da un uso ambiguo della parola “collaborare”. Se per “collaborare” si intende rimescolarsi insieme, creando una confusione i cui risultati deleteri non tarderebbero a maturare, è chiaro che a una collaborazione di quel genere nessun pazzo malinconico consentirà mai; né mi pare che un uomo come Jemolo possa proporre pateracchi di quel genere. Ma se per « collaborare» si intende associarsi per raggiungere fini immediati di utilità comune, sempre evitando equivoci sulle differenze ideologiche permanenti e sui fini a scadenza non immediata, non credo che alcun pazzo malinconico abbia mai pensato a rifiutare collaborazioni di quel genere. Jemolo pensa eziandio che noi, pazzi malinconici, dovremmo collaborare coi comunisti in blocchi elettorali contro la Democrazia cristiana. Si tratterebbe di una cooperazione sul terreno elettorale, e per conseguenza nelle amministrazioni locali e nella Camera dei deputati e nel Senato, per una politica permanente comune: permanente beninteso, finché i comunisti non ne abbiano ricavato tutti i profitti possibili, e mandino alle forche i loro alleati, quando li abbiano spremuti d’ogni sugo. A me pare impossibile che un galantuomo come Jemolo possa proporre a non-comunisti una collaborazione di quel genere. È vero che abbiamo sotto gli occhi una collaborazione con la Democrazia cristiana di partiti che continuano a chiamarsi « laici » mentre ignorano tutte le questioni su cui dovrebbero distinguersi dai clericali. La libertà religiosa dei protestanti può essere ovunque soppressa dal ministro dell ‘Interno, ed i partiti « laici » non se ne dànno per inteso. I beni della Gioventù italiana del littorio possono essere regalati alla Commissione pontificia di assistenza con due miliardi l’anno per buonamano, e i partiti « laici» guardano dall’altra parte. Il Parlamento può essere chiamato a votare miliardi per la costruzione di chiese, mentre mancano decine di migliaia di scuole, e i partiti « laici » dormono il sonno del giusto. Gli esempi di cecità metodica si potrebbero moltiplicare. Dinanzi a bancarotte di questo genere la tentazione di mettersi a collaborare coi comunisti è grande. Ma anzitutto non è possibile sapere se un bel giorno non ci sveglieremmo per leggere sui giornali la notizia di un nuovo concordato fra Togliatti e Pio XII. E poi la bancarotta dei partiti « laici» non è ragione sufficiente perché i pazzi malinconici facciano coi comunisti quel che i « laici» fanno coi clericali.

Un lavoro ingrato

Jemolo segnala un fatto, che i pazzi malinconici non dovrebbero mai dimenticare: ed è che se lo stato maggiore comunista è chiuso e irriducibile nel suo dogmatismo cieco, molti seguaci sono recuperabili, e non bisogna mai abbandonarli. Se non crediamo di poter più convertire nessuno, se crediamo che mostrarci pazienti, chiari, di buona fede, sinceri, nei nostri incontri, non giovi a nulla, che ogni capacità di proselitismo dei valori del liberalismo sia morta, che il colloquio fra uomo e uomo non serva più a niente, allora non scriviamo neppure più di politica ed attendiamo la fine. Jemolo ha mille ragioni. In nessun partito, come nel Partito comunista, si trovano tanti uomini di fede sincera e robusta, disposti a fare i più grandi sacrifizi per la causa che hanno abbracciata. E quanti giovani e ragazze di bella intelligenza e di stupendo impegno morale sacrificano in quel partito tempo, agi, salute ad un’opera missionaria che non ha riposo! « Fanatici »? Sarà. Ma mille volte preferibili a certi ben pensanti e posapiano che erano decrepiti prima di nascere. Orbene, come comportarci con uomini il cui carattere dobbiamo ammirare, mentre la loro tecnica politica ci ripugna? Secondarli nelle loro illusioni comuniste, rimescolandoci con loro alla rinfusa in movimenti di cooperazione ingannevoli? Oppur parlare sempre loro le parole della verità, parole dure, odiose, ma verità, verità, verità? La verità, la sola verità li farà salvi, e ci farà salvi. A me non pare possibile che un uomo come Jemolo dia una risposta diversa da quella che noi pazzi malinconici dobbiamo dare. Anzi mi domando se un posto segnalato nella nostra confraternita non sia disponibile anche per Jemolo. Non c’è lavoro più ingrato di questo, a cui ci sentiamo oggi costretti. Niente ci è più penoso che dissentire da quella gioventù che ci crede suoi nemici. Neanche nel giorno in cui dovessimo salire le forche fra i suoi applausi, neanche allora vedremmo in essa dei nemici, coi quali i nostri continuatori non debbano o prima o poi fare la pace. Faremmo sempre con essa quel che fece il mago Baalam col popolo di Israele: mandato più volte a maledirlo, sempre lo benedisse. Quel lavoro ingrato dobbiamo farlo soprattutto per rispetto a quella gioventù. Convinti che i sacrifici che essa fa al suo idealismo non la porteranno a niente, dobbiamo dirglielo sempre, e non ingannarla neanche col nostro silenzio. Batta ma ascolti. La società, alla cui preparazione essa lavora, non può sorgere nell’Europa occidentale che per effetto di una guerra in cui la Russia intervenga per imporre con le armi regimi sovietici, i quali altrimenti non sorgerebbero per forze interne. Dobbiamo dire e ripetere che, se quella guerra scoppia, ogni idealismo naufragherà in una furiosa e cieca guerra civile di tutti contro tutti, nella quale ognuno sparerà e a destra e a sinistra senza sapere se contro un nemico o contro un amico. Inutile almanaccare sui resultati di quel folle, universale suicidio. Saremo tutti inghiottiti in una voragine senza fondo. Beato chi sarà stato messo fuori corso fino dal primo momento da una bomba all’idrogeno. Ma, se vi sono ragioni per temere che quella guerra avvenga, ve ne sono altrettante per sperare che non avverrà, cioè che alla fine le due parti, in cui si è diviso il mondo, riconosceranno che una vittoria dell’una sull’altra è impossibile, e che una qualche forma di convivenza pacifica è preferibile a una lotta senza scopi, salvo la fine di tutti. Ebbene, se quel suicidio universale non vi sarà, il comunismo si rivelerà nell’Europa occidentale come una via senza uscita. Le religioni, che non mantengono la promessa dei miracoli, falliscono. Potrà allora quella gioventù persistere in una fede senza speranza? Per la parte migliore di essa arriverà allora il momento di dover fare l’inventario. In quell’ora, invece di buttarsi allo scetticismo ed al cinismo, dovrebbe vedere la possibilità di dedicare la propria fede al raggiungimento di scopi meno brillanti, ma più concreti e più vicini. Se un gruppo di pazzi malinconici avrà saputo in questi anni tenersi immune dai mistificatori degli ideali e dei metodi liberali, democratici e socialisti, quel gruppo potrà forse indicare la via a quella gioventù per un impiego più che mai utile e necessario alle sue attività. Molti giovani e ragazze sono andati a finire nel movimento comunista; o in quello democratico-cristiano, o anche in quello neofascista (sissignori, anche in quello neofascista) perché in questi otto anni non hanno trovato che sconcretezza, opportunismo, imbroglio nei cosidetti partiti laici. Molta parte di quella gioventù potrà essere recuperata da chi avrà saputo dimostrare in questi anni che la sconcretezza, l’imbroglio, l’opportunismo non sono necessariamente associati al pensiero laico non comunista.

Le virtù e le sorti

Togliatti attribuisce il nostro rifiuto a diventare suoi idioti utili nel difendere la libertà di stampa, alla ragione che noi non vogliamo quella libertà, mentre diciamo di volerla, perché intendiamo impedire quei rivolgimenti politici e sociali comunisti, che avverrebbero se ci fosse quella libertà.
Togliatti dovrebbe sapere che noi pazzi malinconici non abbiamo mai nulla imparato da chi insegna che la verità è un pregiudizio borghese. Non abbiamo mai nascosto, anzi abbiamo sempre gridato sui tetti, che i rivolgimenti desiderati da Togliatti noi non li vogliamo. Ma, mentre cerchiamo di evitare il trionfo del totalitarismo comunista, ci opponiamo anche a un trionfo del totalitarismo clericale, che aprirebbe la via al totalitarismo comunista. Perciò difendiamo la libertà di stampa, e per noi e per i comunisti, contro il pericolo più immediato che è il totalitarismo clericale. Ma, nel resistere al totalitarismo clericale, ci teniamo a presentarci per conto nostro, su quel piccolo carrettino sgangherato di cui disponiamo, e non come destrieri sotto quel monumentale tiro a quattro, le cui redini sono tenute da Togliatti.
Togliatti non ci crederà, ma noi possiamo assicurarlo che, mentre i suo comunisti invocano provvisoriamente la libertà per sé, noi quella libertà, finché potremo, la rivendicheremo permanentemente per tutti. Cioè riconosceremo sempre, ai comunisti il diritto di affermare, con la stampa, con la parola, con ogni altro mezzo riconosciuto legittimo dalla tradizione liberale, democratica e socialista, il loro diritto a descrivere coi più rosei colori la felicità e la libertà di cui godono le democrazie progressive, dove tutti i problemi sono stati risoluti, e i bambini di dieci anni, invece di giocare al cavalluccio, studiano i logaritmi. Beninteso che riserviamo a noi stessi il diritto di dire che a quanto i comunisti novellano non crediamo un corno. E beninteso che non appena diventi immediato ed evidente il pericolo che essi innalzino le ben note forche, faremo anche noi la nostra parte per difenderci. Ma neanche allora consentiremo ad abbandonare il nostro carrettino, per metterci sotto il tiro a quattro di De Gasperi o di chi per lui. Anche allora colpiremo uniti ma marceremo divisi.
Togliatti afferma che noi << non crediamo alle sorti né alle virtù della democrazia pura >>, e intende per democrazia pura la nostra democrazia vuota, che non permette un pollo in pentola né a padre Lombardi né a padre Togliatti. Per quanto riguarda <> di questa povera democrazia, possiamo assicurare Togliatti che ci crediamo proprio sul serio. Cioé siamo convinti che solamente un regime politico permanente di libertà per tutti ha la virtù di moltiplicare il numero degli uomini e ridurre quello dei bruti. Ecco perché non siamo né fascisti, né clericali, né comunisti.
Ma mentre affermiamo la nostra fede in quella democrazia, non possiamo giurare con altrettanta sicurezza sulle sorti della medesima. Su questo punto Togliatti ha tutte le ragioni di questo mondo. Saremmo veramente dei singolari tipi di imbecilli, se, dopo avere sperimentato mezzo secolo di disastri, fossimo sicuri delle nostre sorti. Arroge che non abbiamo alle nostre spalle né il governo russo, né il governo americano. Non possiamo assoldare giornalisti che annunzino ai cieli le nostre glorie. Non possiamo mobilitare, non biglietti di viaggio e diarie pagate, centinaia di delegati per congressi-pastette. Non abbiamo fondi per stampare neanche un manifesto elettorale. In queste condizioni come faremmo ad essere sicuri sulle sorti della nostra sciagurata democrazia pura?
E allora che cosa state a fare? domanderà Togliatti.
La risposta è duplice. Prima di tutto, non è detto che il nostro piccolissimo peso, spostandosi di qua o di là, nell'equilibrio instabile che caratterizza oggi la vita pubblica italiana, non possa servire ad evitare, o almeno limitare, tanto il prepotere dei clericali quanto quello dei comunisti. Inoltre non è detto che grande fiamma non possa secondar poca favilla, mettiamo fra dieci, venti, cento anni. Il movimento laborista era niente nella prima metà del secolo XIX; gli ci è voluto un secolo per arrivare dove si trova oggi. L'unità politica italiana era un sogno da perdigiorni nel 1831, e diventò un fatto reale nel 1861. Che cosa era il movimento socialista italiano nell'anno del congresso di Genova? Dieci anni non erano passati, ed aveva assunto proporzioni formidabili. Che cosa era il movimento comunista italiano nel 1921, sebbene avesse dietro a sé trent'anni di socialismo, della cui eredità poteva in larga misura appropriarsi? Che cosa era il movimento antifascista intorno al 1942, e che cosa era nel 1945, e che cosa è (ahinoi!) oggi? E' vinto chi si sente vinto e di dichiara vinto, non chi tiene duro.
Oggi in Italia nessuno sa aspettare. O mi fate ministro entro due settimane, o faccio una rivoluzione sociale. Datemi cento milioni, e io tre mesi vi imbastisco una mezza dozzina di religlioni nuove, di partiti nuovi, di organizzazioni operaie a raggio nazionale nuove, che sotto le bandiere più diverse faranno tutti le stesse cose.
In questa frenesia dei successi << di massa >> immediati, che acceca molti, troppi, spiriti, non è male che un numero, anche minimo, di pazzi malinconici rimanfa fermo a predicare certi principi, che non sono stati inventati ieri sera e che non sono sbanderiati oggi in una lotta elettorale per essere dimenticati subito a lotta finita.
Gaetano Salvemini

Qualche sasso in capponaia

Se mi fosse lecito esprimere una franca opinione (in questo paese di clericali mezzo comunisti e di comu­nisti mezzo clericali, nel quale esprimere una franca opinione è diventata roba da manicomio) direi francamen­te che tanto la mozione ideologica quanto la mozione programmatica, approvate in Firenze dal congresso dei socialisti unitari, sono un capolavoro di corbellerie. Ma sono corbellerie innocue. Da mezzo secolo tutti i con­gressi socialisti di tutto il mondo, qualunque tendenza vi prevalga (e ce ne sono di tendenze!), non mancano mai di votare corbellerie ideologiche e programmatiche dello stesso genere, le quali però non fanno male a nes­suno, perché nessuno se ne ricorda più dopo averle vo­tate, e non se ne ricordano più neanche coloro che nel­le commissioni preparatorie hanno sudato sette camicie per ponzarle. Con tutto questo mi pare che il Congresso sia l'indice confortante di una nuova disposizione psicologica, che si è andata lentamente maturando nel paese. Dopo la campagna elettorale del 18 aprile 1948 e do­po la vittoria clericale in quella campagna, né clericali né comunisti si sono mai occupati di proporre soluzioni serie, cioè concrete e immediatamente praticabili, per nessuno dei problemi vitali che pur stringono alla gola il popolo italiano. La tecnica dei clericali e dei comunisti in Italia si ri­duce in tutte le elezioni nazionali, regionali, provinciali, comunali a presentare al popolo italiano un solo pro­blema: se si debba preferire Pio XII a Stalin o vicever­sa. I clericali sanno che la maggioranza degli elettori ita­liani, fino a quando non vi sia una terza alternativa, pre­feriranno sempre Pio XII a Stalin. E i comunisti, nella aspettativa sonnambula della crisi finale della struttura capitalistica italiana, e magari mondiale, credono di essere sempre interessati a non lasciare al popolo italiano altra opzione che quella fra Pio XII e Stalin; fallito Pio XII, non resterebbe che Stalin. De Gasperi applica, ed è logico nell'applicarla, la tec­nica 'o Pio XII o Stalin e nessuna altra alternativa'. Se ha incluso e ritornerà ad includere nella sua cappo­naia deputati repubblicani, socialisti e liberali, non lo fa perché abbia positivamente bisogno di siffatti trapeli. La sua maggioranza parlamentare può vivere benissimo di vita propria e trasformare il governo in potere e il po­tere in regime. De Gasperi tiene nella sua capponaia quei poveri diavoli senza autorità e senza prestigio per­ché dentro la capponaia non gli danno noia, mentre fuori potrebbero diventare pericolosi, funzionando come cen­tri di cristallizzazione per formazioni politiche indipen­denti e dai clericali e dai comunisti. A questo pericolo De Gasperi vuole far argine e vi farà argine col solo metodo che abbia sottomano, anche se per applicarlo de­ve sfidare le vociferazioni dei clericali più ciechi e più fanatici, organizzati nell'Azione cattolica e manovrati da dei gesuiti. Due anni or sono, quando tornai in Italia dopo ventidue anni di assenza, trovai ovunque migliaia, dico mi­gliaia, di persone che erano disgustate di tutti i gruppi antifascisti tradizionali, e si erano ritirati nel proprio gu­scio, dolenti di rimanere isolate e impotenti. Nella esta­te scorsa quelle persone le ritrovai tutte più disgustate, più isolate e impotenti che mai. Ma nei loro spiriti, ol­tre alla opinione desolata che non c'era modo di opporsi alla penetrazione senza discrezione e senza scrupoli dei clericali in tutti i capillari economici, amministrati­vi, scolastici, dell'organismo statale, c'era un senso di in­dignazione per quella prepotenza altrui e impotenza pro­pria, e un senso di irritazione contro i comunisti che avevano reso possibile il sorgere di siffatta situazione e contro quei socialisti, repubblicani e liberali che faceva­no le capriole innanzi al carro dei vincitori. Ci sono in Italia migliaia di sottotenenti, sergenti e caporali che raccoglierebbero intorno a sé un vasto eser­cito di uomini e donne (una 'terza forza') se avessero la certezza di obbedire a uno stato maggiore non asser­vito alle miserabili vanità di persone, che, diventate mi­nistri, non sono in fondo, come scrisse una volta Ernesto Rossi, che 'bischeri in automobile'. Quei sottotenenti, sergenti e caporali che sono conve­nuti al Congresso di Firenze da tutta l'Italia, si sono messi in moto perché hanno sentito albeggiare la spe­ranza che non serviranno anche questa volta alle vanità di qualche 'bischero in automobile', perché hanno sen­tito che occorreva finalmente dire basta a chi pretende continuare in eterno a fare il gioco e dei clericali e dei comunisti, mettendosi al servizio dei clericali, in odio ai comunisti. Sono socialisti, come risulta, senza possibilità di equi­voco, dalle corbellerie di cui hanno infarcito la loro dichiarazione ideologica e la loro dichiarazione program­matica. Ma, come ho detto, si tratta di esercitazioni che da mezzo secolo hanno fatto la barba, e di cui nessuno si occupa, né per consentirvi né per dissentirne. Al di sotto di quelle elucubrazioni, di cui non possono fare a meno i piccoli borghesi intellettuali che hanno letto (o piuttosto non hanno mai letto) Carlo Marx, c'è una esi­genza sempre viva e sempre fresca: quella del sociali­smo a cui crede il proletariato vero, che di Carlo Marx conosce solo i ritratti. 'Da quando ero piccina', mi diceva pochi giorni or sono una donna del popolo, 'io sono stata sempre so­cialista'. 'Che cosa intendi per socialista?'. 'Inten­do che ci dovrebbe essere un po' di bene per tutti. Mi avvicino alla vecchiaia; allora non potrò più lavorare; non è giusto che io vada a Montedomini o a doman­dare l'elemosina'. Quella donna non aveva mai doman­dato in vita sua la socializzazione degli strumenti di produzione e di scambio. Su mille seguaci dell'apparato comunista, forse non uno ha un'idea precisa di quel che gli darebbe 'Baffone', ma tutti vogliono 'un po' di bene per tutti'. Gli uomini raccolti a Firenze vogliono che ci sia un po' di bene per tutti, anche se hanno se­polta questa loro umanità, che è la sorgente perenne del socialismo, sotto una piramide di parole insulse. Non so­lo vogliono un po' di bene per tutti, ma sentono che quel po' di bene per tutti si può raggiungere soltanto at­traverso una azione politica nuova, nella quale non si sperperino attività preziose, come sono state sperperate negli anni trascorsi. Con questo non affermo che non vi siano pericoli nel socialismo degli uomini convenuti a Firenze. Di tanto in tanto è affiorata nelle discussioni ed ha fatto capolino anche nelle su lodate dichiarazioni una pretesa di mo­nopolizzare per i socialisti unitari ogni forma di azione che non sia né clericale né comunista. Auguro con tutto il cuore che questa pretesa resti nelle dichiarazioni di cui nessuno già si ricorda. Oltre alle possibilità di un partito socialista democra­tico, indipendente e dai clericali e dai comunisti, esisto­no in Italia numerosissime altre forze non disposte a la­sciarsi classificare come socialiste, ma disposte a collaborare coi socialisti per la soluzione dei grandi proble­mi nazionali. La 'terza forza', né clericale né comuni­sta, non può essere chiusa nella gabbia di un partito so­cialista e nient'altro; dovrebbe essere organizzata in una confederazione fra gruppi di centro sinistra, e di sini­stra, nella quale il partito socialista democratico avreb­be il suo posto naturale, ma non dovrebbe pretendere nessun predominio. I gruppi di centro sinistra e di sinistra dovrebbero conservare ciascuno la propria ideologia e la propria organizzazione, ma tutti dovrebbero impegnarsi ad una azione comune per la conquista di quella mezza dozzina di grandi riforme che sono necessarie al paese, delle quali non si occupano né clericali né comunisti. Rifor­me che non debbono essere solamente elencate, tanto per far con esse un po' di baccano, nei giorni delle ele­zioni. Debbono essere proposte concrete, immediate, per ogni problema di cui si riconosce la urgenza vitale per il paese. E bisogna organizzare una propaganda sistema­tica intorno a quelle soluzioni, ciascun partito per mez­zo della propria organizzazione. Esaurito quel primo programma immediato comune, si vedrebbe poi se la con­federazione dovrebbe disciogliersi o rinnovarsi intorno ad un programma nuovo. Per tutti i problemi che affaticano la vita italiana in questi momenti c'è una soluzione che non è né dei cle­ricali né dei comunisti. Questa è la ragione per cui in Italia c'è posto per una 'terza forza', cioè per uomini che non vendano né a destra né a sinistra il loro diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie. Ma per di­stinguere chi è disposto da chi non è disposto a vende­re la sua primogenitura, bisogna mettere tutti innanzi ai problemi reali della vita italiana, e costringerli a di­chiarare se accettano per quei problemi certe soluzioni ben definite o no: Patto atlantico ed organizzazione mi­litare che dovrebbe derivarne; Piano Marshall e trucchi con cui i suoi fondi sono sperperati miseramente; problema doganale; problema fondiario e agrario; disoccu­pazione operaia; istituti parassitari parastatali; corruzio­ne e incompetenza della burocrazia statale e delle buro­crazie regionali, provinciali e comunali; scuole che sca­tenano ogni anno sul paese diluvi di analfabeti che deb­bono essere assorbiti dalla burocrazia, oppure infettano tutti i capillari della vita economica e morale; relazione tra i poteri secolari e le autorità ecclesiastiche, e (nodo intorno a cui si sviluppano tutti gli altri problemi) la questione meridionale. Non è facile formulare soluzioni concrete per questi problemi. D'accordo. È assai più facile scombiccherare dichiarazioni ideologiche e programmatiche. Ma se non si comincia dal formulare quelle soluzioni, 'i bischeri in automobile' sbucheranno da tutte le parti alla pri­ma occasione; perché se voi avete qualcosa di concreto da domandare a chi vi invita ad andare al governo, e quel qualcosa di concreto è rifiutato, voi dovete rifiutar­vi di andare al governo a mani vuote: cioè dovete andarvene per 'la via della terza forza'. Se invece non avete niente da domandare, tutte le occasioni saranno buone per combinare pateracchi o coi clericali o coi co­munisti. Quali gruppi potrebbero formare una confederazione di centro sinistra? Il Partito Socialista Unitario, costituitesi a Firenze, certamente. Il Partito Repubblicano, certamente. Il Par­tito Socialista dei Lavoratori Italiani, diverso dal parti­to unitario, certamente. Un Partito Liberale di Sinistra, certamente; ma ai liberali di sinistra occorrerebbe do­mandare parecchi chiarimenti sulle riforme immediate per cui sarebbero disposti ad impegnarsi: che la sola laicità non può coprire tutte le necessità della vita ita­liana presente. E anche ad un partito socialista, stacca­tesi dai socialconfusionisti, si dovrebbe riconoscere il diritto ad una organizzazione a sé, se volesse conservar­si autonomo. È naturale che tutti questi partiti prima di confederarsi si dovrebbero sbarazzare dei loro 'bische­ri in automobile', in servizio o potenziali. Fra tutti questi partiti non ci sarebbero discussioni ideologiche. Ognuno conserverebbe le ideologie proprie e le scombicchererebbe a modo suo nei propri congressi. Le discussioni avverrebbero solamente sulle soluzioni concrete e immediate di quei problemi dei quali si ri­conoscesse la gravita e l'urgenza. Ma su quelle soluzio­ni si impegnerebbero tutti i gruppi confederati. Sarebbe desiderabile che il comitato direttivo del Par­tito Socialista Unitario affidasse immediatamente ad una commissione di tre persone serie l'ufficio di consultare tecnici che aiutino a definire le soluzioni più ragionevo­li dei problemi nazionali più urgenti. Tale commissione non dovrebbe dare, come Mosè dal monte Sinai, nessu­na tavola di nessuna nuova legge. Dovrebbe elaborare proposte da discutere in un congresso nazionale, al qua­le interverrebbero delegati designati dai gruppi disposti a formare la confederazione di centro sinistra e sinistra; in esso si accerterebbe se è possibile una azione comu­ne o almeno per quali gruppi essa è possibile. Belle idee, forse. Ma tutte le speranze fiorite in que­sti giorni si dissiperanno in breve se i socialisti unitari e i loro eventuali confederati cercheranno successi elet­torali immediati e ridistribuzioni di portafogli ministe­riali a brevi scadenze, invece di dedicarsi ad un piano, almeno quinquennale, di propaganda e di organizzazio­ne nel paese, allo scopo di far sentire la necessità di certe soluzioni, e non di correre dietro a fate morgane parlamentari. Il punto debole delle mie... ideologie è proprio qui, fuori dei clericali e fuori dei comunisti c'è ancora in Italia troppa gente che vuole resultati immediati. 'O mi fate ministro o vi faccio una rivoluzione': è un dilem­ma dal quale molti non sanno come uscire. Ebbene da questo dilemma bisogna uscire. E solamente un piano di soluzioni concrete e immediate per i problemi italiani vitali, dimostrando l'impossibilità di accordi o compro­messi, sia coi clericali, sia coi comunisti, può rompere il circolo magico di quel dilemma. La repubblica italiana del 1946 è stata definita la re­pubblica monarchica dei preti. Anche la repubblica fran­cese del 1871 fu una repubblica monarchica dei preti. Ma dopo soli sette anni, nel 1877, diventò una repub­blica repubblicana e anticlericale. C'erano in Francia uo­mini, che, invece di mettersi servilmente in coda ai mo­narchici e ai preti, seppero rimanere al loro posto, aspet­tare, prepararsi tecnicamente ai loro futuri doveri di go­verno: e, aiutati dalle bestialità dei monarchici e dei preti, vinsero. Perché non potrebbe avvenire lo stesso nella repubbli­ca italiana? Pochi uomini colla testa sulle spalle e coi piedi per terra, che abbandonassero i perditempo ideo­logici, si mettessero a lavorare per far sentire al paese la necessità di certe soluzioni concrete ai grandi proble­mi della vita pubblica, e sapessero aspettare, aspettare, aspettare: quei pochi uomini potrebbero fare il miracolo.