La solitudine dell'intelligenza

Capita di chiedersi, in questi anni, più spesso che in altri periodi, se i grandi fatti dell'umanità siano opera delle masse o di pochi gruppi eletti che delle masse si farebbero condottieri esprimendone le esigenze o addirittura elaborando per loro, ideologie e mezzi per attuarle.
La risposta ad un questito del genere è sempre duplice e non raramente triplice. Le prime due danno come esclusive le funzioni o delle masse o dei gruppi selezionati; la terza contempera le due esigenze e afferma come esistente un processo di trapasso tra masse e ceti intelligenti per cui le prime sentirebbero oscuramente quello che negli eletti diverrebbe chiaro ed operante per lavoro sottile di interpretazione e di critica.
La terza opinione è palesemente ottimistica e presuppone un'armonia tra oscuri impulsi e chiarezza di visione intellettuale.
E, forse, nelle età felici della storia, se mai ve ne furono, l'armonia si verificò e gli uomini godettero dei benefici di un progresso civile unanimemente sperato e poi felicemente attuato.
Forse quest'armonia remota è ritenuta perfetta dalla visione posteriore. Comunque occorre ammettere che vero progresso non può darsi senza che si verifichino queste favorevoli circostanze; come per converso, le terribili sciagure dell'umanità dipendono da un divorzio troppo lungo fra le forze anonime e i tesori illuminanti dell'intelligenza.
Quest'ultimo periodo, che va dalla fine del secolo passato fino ai nostri giorni, ha assistito a una svalutazione ostinata dell'intelligenza a favore delle forze indifferenziate alle quali si è creduto di riconoscere, non solo il vergine vigore dei fatti della natura, ma anche, implicite in questo vigore, quel che di buono e di veramente utile l'intelligenza contiene.
L'intelligenza pura ha rischiato, in questi ultimi decenni, di venire annientata sotto l'accusa di astrattezza, di gioco gratuito; l'attivismo utilitario opponeva agli schemi della ragione il frutto dell'azione, la crescita dei beni materiali che dall'azione derivano.
E, forse, i danni più gravi derivanti da questa lotta contro l'intelligenza, non vanno ricercati tanto nella sua negazione totale, quanto nell'accettazione di un suo esclusivo valore tecnico e funzionale.
Presso larghissimi strati delle masse fu completamente perduto il concetto dell'intelligenza vera, scomparvero finanzge quell'ossequio o quella riverenza che, in tanti secoli, avevano tenuto luogo del rispetto.
In questi ultimi decenni l'intelligenza ha sofferto di solitudine. Quanto parlo di intelligenza non tanto mi riferisco alla sua accezione comune quanto a quelle superiori qualità dello spirito di cui l'umanità si giova per il suo interiore miglioramento. Parlo di filosofia, di arte, di lettere, del lavoro in apparenza gratuito della mente, della ricerca profonda dei modi di vita dell'anima, della scoperta di quelle interiori armonie che, divenute idee dominanti, sono sentite come proprie da tutti gli uomini.
Queste forme superiori della vita mentale, in questi ultimi tempi, sono state oggetto di svalutazione o addirittura di dileggio; e sono stati preferiti i loro derivati meno pregevoli come la tecnica e i sistemi di organizzazione della vita associata. Non che gli uomini di pensiero abbiano del tutto interrotto il loro lavoro; ma di fronte alla follia collettiva che negava il suo consenso, che rifiutava di farsi persuadere, essi sono scaduti dalla loro prestigiosa situazione. Filosofi, artisti, saggisti, in questi ultimi anni, divenuti dove più dove meno solitari e prevedendo, e non era difficile previsione perché il mondo ne è pieno di dolore fino all'orlo, le recenti sciagure, non sono riusciti, neanche per questa qualità di profeti, a riconquistare, almeno in parte, il perduto rispetto.
Le masse hanno creduto, hanno avuto fede; credenza e fede soprattutto nel potere e nel numero; ed è difficile ora che si rassegnino a riconoscere il loro errore fondamentale: la convinzione che le forze dello spirito avessero gli stessi caratteri di quelle naturali; e che moltiplicandone gli elementi, accrescendone la quantità, se ne aumentasse all'infinito il vigore.
E' difficile persuadersi del fatto che una idea condivisa da milioni di uomini può avere struttura debolissima e quella creata da un solo uomo o da un ristretto numero di uomini, formidabile potere. E' difficile rinnegare lo spirito della processione, rinunciare al tentativo di accodare la propria debolezza mentale all'altrui con la presunzione di creare un complesso di potenti idee.
L'Italia è certamente uno dei paesi che maggiormente hanno sofferto di questa sfiducia nella guida dell'intelligenza. Per nostra sciagura, per troppi anni, la sorte ha voluto negarci una riprova clamorosa della scempiaggine sulla quale si reggeva l'ideologia che per tanti anni ci ha dominati. L'idolatria è stata alimentata, per troppi anni, da una serie di successi pratici; per cui la fiducia del consenso multiplo e talvolta pressoché unanime al regime, ha fatto, nel nostro paese anche più triste che altrove, la solitudine dell'intelligenza.
L'impopolarità della nostra letteratura, del nostro pensiero filosofico, la difficoltà della formazione di un costume morale uniforme nel nostro popolo, dovuto alle antiche vicende politiche che lo hanno tenuto troppo a lungo diviso, la rozzezza mentale di larghissimi strati del popolo, sono fatti, troppe volte esaminati, per insistervi ancora. Ma una cosa è certa; la insufficiente diffusione e lo scarso vigore che avevano nelle menti e nelle coscienze alcuni principi fondamentali che avevano retto la vita democratica dei popoli nel secolo decimonono, resero più facile il cedimento delle coscienze.
Ora, conclusa dopo tante sciagure la tardiva avventura imperialistica dell'Italia, non è certo venuto meno quel disorientamento delle coscienze che la precedette; né si può dire che il divorzio consumato venticinque anni fa tra l'intelligenza italiana e il popolo abbia trovato la sua conciliazione. Vi sono, è vero, segni confortanti di una salutare inquietitudine, massime nei giovani, ma non può affermare che sia stato trovato un indirizzo che permetta fin da ora di disegnare i nuovi lineamenti dello spirito nazionale per il prossimo futuro.
Eppure non c'è speranza di salvezza se non ri riuscirà a trovare l'equilibrio tra le oscure forze dell'impulso e quelle dell'intelligenza; occorre che i problemi dell'anima divengano quotidiano alimento per risolvere tutti i quesiti della vita pratica.
Gli italiani sono vissuti per decenni facendo una delega del proprio potere intellettivo, ricevendone passivamente dall'alto le norme della propria condotta. La fede, l'entusiasmo, il concorrere in apparenza attivamente a realizzare le norme ricevute, diedero l'illusione che non si trattasse di obbedienza passiva ma di libera elezione. Perniciosa credenza che renderà più difficile, per larghi strati del popolo italiano, ritrovare nel ritmo interiore l'amore della critica illuminata, delle decisioni ponderate, del rispetto dell'intelligenza altrui.
La cultura italina rimase, per acuni aspetti, pienamente vitale durante il fascismo; ma fu una vitalità che non poteva giovarsi delle linfe del consenso che le sono indispensabili. Quel tanto di astrattezza nel pensiero filosofico sistematico, nella saggistica, nella letteratura narratica e nella poesia che allora veniva cautamente lamentato da pochi e che oggi è clamorosamente rivelato dai più, persiste ed è elemento nocivo. Ma, per la verità, la persistenza di questa specie di schiva aristocrazia, come dicono i benevoli nella nostra cultura, che la condanna alla sterilità, non è dovuta, come è facile pensare, soltanto a difetti intrinseci.
L'indifferenza del pubblico che ancora permane o è venuta addirittura accentuandosi, non favorisce il ritorno del calore, della chiarezza, della forza eloquente, nelle prove più alte della nostra intelligenza.
La cultura è fatto ciclico, corale; le sue manifestazioni, che, in apparenza, sono autonomamente generate e solo in un secondo momento acquistano forza di espanzione, traggono veramente gli elementi più autentici della loro iniziale vitalità da un fermento oscuro, da un'esigenza multipla, non chiara ma vivente nell'anima di un popolo.
Se esiste questa reciprocità di ispirazione e di influsso, questo circolo vivo di consensi, di dissensi, di discussioni, di polemiche, un popolo ha veramente una cultura; ha cioé una spiritualità in vibrazione. Nelle epoche felici della nostra storia quando la mente e l'anima italiana rifulsero per singolare calore, nel medioevo, nel rinascimento, nel risorgimento, il coro, questa ciclica vitalità, era evidente. Boccaccio leggeva Dante in Orsammichele, Benedetto Varchi commentava Petrarca in pubblici comizi e l'aneddotica, le cronache minute del tempo di dicono di una viva partecipazione del popolo, anche di quello minuto, ai grandi movimenti della cultura nazionale.
Nonostante le differenze, le varietà, le zone di ombra, l'Italia in queste memorabili età, aveva una cultura, un'anima. E non si trattava, com'è noto, di cultura nazionalistica, cioé angustamente legata al territorio, alle tradizioni, che escludesse le altre culture, che tentasse di ignorare l'indivisibile universalità dello spirito.
Sono note, durante il risorgimento, le strettissime relazioni della cultura lombarda e settentrionale in genere, con la francese e di quella meriodionale con la tedesca. Non vi era, in quel bellissimo fervore patriottico, nulla che fosse esclusivo e limitato. E ai tempi di Dante e di Boccaccio, tutto il pensiero e l'arte caratteristicamente italiani, risonavano del pensiero e dell'arte che si erano venuti elaborando in tutto il bacino del Mediterraneo; e provenzali, francesi, spagnoli e saraceni mescolavano le loro voci nel pensiero, nella narrativa, nella cantata, nella novellistica popolare, nelle leggende. Eravamo italiani ed europei a un tempo e la conoscenza del pensiero altrui accentuava i caratteri peculiari della nostra cultura.
Invece mai, forse, come oggi, assistiamo in Italia a una svalutazione sistematica di tutto quello che è intrinsecamente italiano. E Dio solo sa quanto rispetto (troppo oseremmo dire) tutti noi abbiamo per quanto di buono, di mediocre, e anche di cattivo si fa fuori dall'Italia. Ma il popolo italiano, e parlando di popolo parliamo di quello che conta per capacità mentale e per cultura, non è ancora persuaso dello strano assurdo esistente in due delle sue più radicate convinzioni: l'italiano è il popolo più intelligente della terra: tutto quello che gli italiani fanno è mediocre e spregevole. Il che è aperta prova di stupidità e vale ad accentuare l'indifferenza dell'italiano per la cultura in genere e per quella nazionale in specie.
La nostra intelligenza rimane perciò solitaria; mentre la sua vita dipenderebbe, come sempre è accaduto, da un atto comune di amore e di fiducia.

Francesco Jovine