Il roboto accademico

Era un roboto bellissimo, uno dei più belli che si siano mai veduti. Bello, si capisce, è un modo di dire: in definitiva era una stanza, una grande stanza lungo le cui pareti correva una specie di mobile continuo, tutto chiuso e tempestato di levette, comandi e spie, le quali ultime quando lui lavorava si accendevano successivamente di rosso con straordinaria rapidità, simulando la folgore. Propriamente era professore di storia, e infatti questa disciplina insegnava in tale università americana, ma era in realtà dotto quanto un intero collegio accademico. Finita la sua lezione, chi voleva interrogarlo non doveva già premere bottoni o inserire cartoncini sforacchiati o prepararlo in alcun modo, secondo usa coi suoi congeneri: bastava formulasse la domanda con voce distinta, neppure squillante. E lui, dopo aver fatto udire certi meccanici borborigmi, nel mentre si scatenavano i fuochi di controllo, in men che non si dica forniva la sua risposta con voce altrettanto distinta sebben rauca (questo sì). Lo si poteva interrogare sui più vari argomenti e quasi sempre rispondeva; mostrava perfino qualche esperienza delle cose del mondo e qualche conoscenza del cuore umano, e in generale era benevolo con tutti. La notte, cessato il massacrante lavoro della giornata e taciutisi gli ultimi quesiti degli altri professori, gli spengevano la luce e si chiudevano le porte perché si riposasse in perfetta tuanquillità.
Ora avvenne una notte che un giovane professore di quella università, venuto a consultare d'urgenza un suo volume, lo udisse mormorare. Credendo aver traudito, attraversò le sue salette che lo separavano dalla stanza: il mormorio si ripetette più forte, accompagnato dal solito rumor di digestione, e inoltre al professore sembrò distinguere una seconda voce, sommessa. Il guardiano notturno era rimasto in portineria e forse si era già riaddormentato, eppoi la curiosità fu troppo forte; per farla breve, il professore spinse cautamente l'uscio della stanza.
La luce era tuttavia spenta, ma in quella stanza lui stava parlando e il suo rosso lampeggiamento permise all'origliante di scorgere, seduta nel mezzo della stanza coi gomiti sulle ginocchia e la fronte appoggiata alle palme, un'esile figura femminile.
Naturalmente era vietato trattenersi nell'edificio dell'università oltre l'ora stabilita, salvo appunto che a qualche professore in fregola di erudizione; infastidire poi il roboto durante il tempo del riposo era severamente vietato a tutti. Chi fosse dunque costei e come fosse arrivata fin lì non si capiva: poteva aver corrotto il guardiano o essersi fatta chiudere dentro nascondendosi. Comunque al professore, nonché perdersi in congetture, sarebbe spettato intervenire subito e allontanare l'intrusa. Ma nel frattempo costei s'era messa a parlare, e d'altronde sarebbero bastate le testé udite parole del roboto a inchiodare l'attenzione del giovane. Le quali erano state: "Non dica sciocchezze". (E' bensì vero che di questa frase convenzionale lui si valeva ogni qualvolta non capisse bene la domanda o la domanda fosse difatto mal formulata o vertesse su argomenti a lui sconosciuti). C'era però dell'altro. Non appena la fanciulla aveva aperto bocca il giovane la aveva riconosciuta: certa studentessa delicatina, dall'occhio umido e dallo sguardo un po' smarrito, una creatura, per dir tutto, al suo professore niente affatto indifferente. Arrivata di lontano, non aveva fatto amicizia con nessuno, non faceva parte di alcuna squadra sportiva e andava quasi sempre a giro con qualche poeta inglese sotto il braccio; dal professore veniva a volte per aiuto nei suoi studi, e lo ascoltava allora in silenzio, guardandolo fissamente colla boccuccia semiaperta.
Per tutti questi motivi il professore venne meno al suo dovere e rimase acquattato in ascolto. Ed ecco press'a poco come si svolse il dialogo tra quei due.

"Dovevo pur dirtelo una volta". (A lui, non si sa perché, era stabilito di dar del tu, mentre egli stesso ridava del lei a tutti, come un bambino o come fa idealmente un animale). "Dovevo pur dirtelo: io t'amo. Sì, t'amo. Non son di quelle che non sappiano sceverar dall'animo la causa del sembiante: io t'amo per te stesso, non per il tuo corpo, nel quale poi non vedo nulla di deforme. Che m'importa se non hai membra umane?".
"Non dica sciocchezze".
"Ma perché sciocchezze! Non si può forse amare la vigile intelligenza, l'animo benevolo che all'alto intelletto si accompagna, indulgente e quasi sorridente alla nostra ignoranza e alle nostre debolezze, la sicura esperienza che ci guida attraverso la vera vita, il disprezzo d'ogni cosa volgare?".
"La treggea non è da porci". (A quali parole della fanciulla rispondessero queste di lui del resto alquanto spostate e astratte, non è dato sapere. La fanciulla le prese per buone).
"Vedi dunque! Non si possono amare per se stesse tutte queste qualità, che ci additano una più alta meta e ad essa ci confortano? E a che cosa, a chi altro giureremo fedeltà?".
"A Federico il Losco, duca di Svevia, della Casa di Hohenstaufen".
"Oh!... No, sul serio: io sono inferma e voglio guarire, e quale altro medico troverei migliore di te?".
"Non dica sciocchezze".
"Ancora! Oh, intendo la tua saggezza e la tua sollecitudine per me; ma non temere, son forte contro qualcunque vole pregiudizio. Ma poi t'amo, l'ho detto. O dovrei lasciare che la parte trista e futile di me prendesse il sopravvento, per assorbire gradatamente e annientare ogni altra mia facoltà?".
"Non dica sciocchezze".
"Oh Dio, tu opponi una insormontabile barriera alle mie parole. Sei generoso: temi che la mia fragilità abbia a non resistere alla prova, al bruciore dei miei sentimenti, e possa un giorno pentirsi di questa dedizione. Ma datti pace, il mio amore non è povera cosa e non è soggetto alla ineluttabile vicenda degli altri amori. Ah, dove meglio potrei posare che tra le tua braccia di ferro, dove troverei più sicura assistenza, da chi altri riceverebbe l'anima mia il suo pane, dove sarei più felice che vicino a te, dove?".
"Sulla Ghiaradadda, ossia sulla riva sinistra del fiume Adda".
"Tu scherzi ancora, e forse dovrei ringraziartene. Ma pure, quando sarò io viva e intera, se tu non mi aiuti; mio Dio, quando dunque?".
"Nel 1748".
"Oh, ascolta. Tu non hai le gambe da camminare, e io sarò le tue gambe. Io ti porterò lontano da qui, dove il fragore di questa ignobile vita e il brusìo di questi uomini non possano raggiungerci. Là saremo felici, trascorreremo in mai turbata pace, in alte visioni, il resto dei nostri giorni. Dimmi dunque ... No, per ora dimmi soltanto se acconsenti: vuoi?".
"Non di...ca... sciocchezze".

Difatto da due o tre risposte egli andava manifestando una certa esitazione, del tutto insolita; e quest'ultima risposta rese con voce positivamente interrotta.
"Ah, tu non vuoi intendermi - proruppe la fanciulla in tono di pianto torcendosi le mani. - Dunque il mio essere dovrà ancora vagare, cieco e incompiuto, a se stesso incognito, per una vita che gli è avversa; assetato, tradit, senza trovare la sua luce, l'anima che lo fecondi e forse ne sia fecondata?".
Un fatto ancor più strano avvenne ora: egli fece udire il suo interno sobbollimento, lampeggiò di luci, ma presto si rispense con una sorta di mugolio, senza aver detto nulla.
Del resto qui la storia precipita, ché il professore non resse oltre al proprio turbamento.
"Mia cara! - gridò entrando, accendendo la luce e prendento la fanciulla per un braccio. - Signorina! La sua mente è sconvolta, lei è preda di una mostruosa illusione! A chi rivolge lei codeste parole infiammate che io vorrei baciare una per una sulle sue labbre medesime?... Sì, mi perdoni... Rientri, cara, in sé: quello non è che un roboto, uno strumento inanimato. E io...".
"Indiscreto! - gridò a sua volta la fanciulla sobbalzando e cercando di asciugarsi le lacrime. - Indiscreto, lei mente. Mi lasci, non potrà strapparmi di qui e non potrà togliermi ciò che egli dirà, ciò che sta per dire. Odimi, tu, e rispondi. Senti, mio adorato - soggiunse più dolcemente: - tu, m'ami? O almeno credi che potrai amarmi un giorno?".
Come prima, il roboto lampeggiò un momento, ma senza emettere alcun suono distinto.
"S'è guastato, lascialo stare e ascoltami tu stessa - disse il giovane febbrilmente, quasi balbettando e tentando di abbracciare la fanciulla. - Da tanto tempo io... Oh, lei lo aveva compreso che io l'amavo, non è vero? E io sono una creatura umana, e non chiederei di meglio che... Mi guardi dunque un momento, mi dica se posso sperare che...".
A questo punto, però, avvenne una cosa di tutte pià straordinaria: il roboto prese a lampeggiare e borbottare e mugolare, sebbene da nessuno interrogato. E il lampeggiamento, insostenibile alla vista, si faceva sempre più rapido, sempre più rapido, tra schianti sinistri che non avevano ormai nulla di comune coi soliti rumori.
Spaventoso scatenamento: già quasi tutte le sue luci erano accese, avvivandosi e smorendo in una incontrollabile ridda, mentre il fragore era divenuto di tuono. Egli tempestava e infuriava come chi abbia la favella mozza per morbo o per soverchiare di sentimenti.
"Mio caro! Parla, oh sì parla!" gridava la fanciulla invasata, respingendo lo sbigottito compagno.
Ma con un supremo schianto egli si spense, e rimase cieco, peso.
La fanciulla dopo un attimo gli si buttò addosso mormorando: "Oh caro, ma dunque caro?". Poi un sospetto le attraversò la mente, ed ella si dette convulsamente a scuotere leve, a girar chiavi, a premere bottoni.
Invano. Egli non avrebbe ormai più parlato: era morto.

E per concludere in un modo qualunque, a lei cosa restava se non porgere orecchio distratto (e in seguito, coll'aiuto del tempo, più attento) alle consolazioni del suo professore?

Tommaso Landolfi