La rabbia

Cos’è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità.
Già, la normalità. Nello stato di normalità non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come “normale”, privo della eccitazione e dell’emozione degli anni di emergenza. L’uomo tende ad addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è.
È allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti.
I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica.
Ci sono stati degli avvenimenti che hanno segnato la fine del dopoguerra: mettiamo, per l’Italia, la morte di De Gasperi.
La rabbia comincia lì, con quei grossi, grigi funerali.
Lo statista antifascista e ricostruttore è “scomparso”: l’Italia si adegua nel lutto della scomparsa, e si prepara, appunto, a ritrovare la normalità dei tempi di pace, di vera, immemore pace.
Qualcuno, il poeta, invece, si rifiuta a questo adattamento.
Egli osserva con distacco – il distacco dello scontento, della rabbia – gli estremi atti del dopoguerra: il ritorno degli ultimi prigionieri, ricordate, in squallidi treni, il ritorno delle ceneri dei morti…

E… il ministro Pella, che, tronfiamente, suggella la volontà dell’Italia a partecipare all’Europa Unita.
È così che ricomincia nella pace, il meccanismo dei rapporti internazionali. I gabinetti si susseguono ai gabinetti, gli aereoporti sono un continuo andare e venire di ministri, di ambasciatori, di plenipotenziari, che scendono dalla scaletta dell’aereo, sorridono, dicono parole vuote, stupide, vane, bugiarde.
Il nostro mondo, in pace, rigurgita di un bieco odio, l’anticomunismo.
E sul fondo plumbeo e deprimente della guerra fredda e della Germania divisa, si profilano le nuove figure dei protagonisti della storia nuova.
Krusciov, Kennedy, Nehru, Tito, Nasser, De Gaulle, Castro, Ben Bella.
Finché si arriva a Ginevra, all’incontro dei quattro grandi: e la pace, ancora turbata, va verso un definitivo assestamento. E la rabbia del poeta, verso questa normalizzazione che è consacrazione della potenza e conformismo, non può che crescere ancora.
Cos’è che rende scontento il poeta?
Un’infinità di problemi che esistono e nessuno è capace di risolvere: e senza la cui risoluzione la pace, la pace vera, la pace del poeta, è irrealizzabile.
Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un’altra nazione, col suo strascico di martiri, di morti.
O: la fame, per milioni e milioni di sottoproletari.
O: il razzismo. Il razzismo come cancro morale dell’uomo moderno, e che, appunto come il cancro, ha infinite forme. È l’odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, dalla prepotenza della maggioranza. È l’odio per tutto ciò che è diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l’ordine borghese. Guai a chi è diverso! questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti.
Linciaggi a Little Rock, linciaggi a Londra, linciaggi in Nord Africa; insulti fascisti agli ebrei.

È cosi’ che riscoppia la crisi, l’eterna crisi latente.
I fatti d’Ungheria, Suez.
E l’Algeria che comincia piano piano a riempirsi di morti.
Il mondo sembra, per qualche settimana, quello di qualche anno avanti. Cannoni che sparano, macerie, cadaveri per le strade, file di profughi stracciati, i paesaggi incrostati di neve.
Morti sventrati sotto il solleone del deserto.
La crisi si risolve, ancora una volta, nel mondo: i nuovi morti sono pianti e onorati, e ricomincia, sempre più integrale e profonda, l’illusione della pace e della normalità’.
Ma, insieme alla vecchia Europa che si riassesta nei suoi solenni cardini, nasce l’Europa moderna: il neocapitalismo; il Mec, gli Stati Uniti d’Europa, gli industriali illuminati e “fraterni”, i problemi delle relazioni umane, del tempo libero, dell’alienazione.
La cultura occupa terreni nuovi: una nuova ventata di energia creatrice nelle lettere, nel cinema, nella pittura. Un enorme servizio ai grandi detentori del capitale.
Il poeta servile si annulla, vanificando i problemi e riducendo tutto a forma.
Il mondo potente del capitale ha, come spavalda bandiera, un quadro astratto.
Così, mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa più raffinata e per pochi, questi “pochi” divengono, fittiziamente, tanti: diventano “massa”.
È il trionfo del “digest” e del “rotocalco” e, soprattutto della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre più irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso.
Il mondo del rotocalco, del lancio su base mondiale anche dei prodotti umani, è un mondo che uccide.
Povera, dolce Marylin, sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalità che rallegra e uccide.
Forse tu hai preso la strada giusta, ce l’hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano così, te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realtà dannata, alla fatalità del male.
Perché: finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità sarà divisa in padroni e in servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui.
E ancora oggi, negli anni sessanta le cose non sono mutate: la situazione degli uomini e della loro società è la stessa che ha prodotto le grandi tragedie di ieri.
Vedete questi? Uomini severi, in doppiopetto, eleganti, che salgono e scendono dagli aeroplani, che corrono in potenti automobili, che siedono a scrivanie grandissime come troni, che si riuniscono in emicicli solenni, in sedi splendide e severe: questi uomini dai volti di cani o di santi, di jene o di aquile, questi sono i padroni.
E vedete questi? Uomini umili, vestiti di stracci o di abiti fatti in serie, miseri, che vanno e vengono per strade rigurgitanti e squallide, che passono ore e ore a un lavoro senza speranza, che si riuniscono umilmente in stadi o in osterie, in casupole miserabili o in tragici grattacieli: questi uomini dai volti uguali a quelli dei morti, senza connotati e senza luce se non quella della vita, questi sono i servi.
È da questa divisione che nasce la tragedia e la morte.
La bomba atomica col suo funebre cappuccio che si allarga in cieli apocalittici è il futuro di questa divisione.
Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile… una soluzione che nessun profeta può intuire… una di quelle sorprese che ha la vita quando vuole continuare… forse… Forse il sorriso degli astronauti: quello forse, è il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.

Pier Paolo Pasolini

Dannunziani in pantofole

Le dirò innanzitutto che ignoravo, fino a pochi mesi or sono, la Sua esistenza, il Suo nome e la Sua attività.
Ma ora, prima da qualche articoletto di cronaca nera e nerastra, poi da qualche «sfottitura» alla radio, poi ancora dalla lettura di qualche Suo scritto ho saputo della Sua esistenza e che Lei sarebbe uno scrittore, un critico, un poeta, ecc … E va bene.
Uno più uno meno non guasta ed anche se i Suoi atteggiamenti in sede estetico-letteraria; la Sua ben modesta dimestichezza con quello che è lo scrivere in un italiano non da lettori di Vie Nuove; i Suoi giudizi categorici e senza appello su cose, uomini e problemi che Ella non può conoscere, valutare e comprendere, mi lasciavano un po’ dubbioso sull’uomo e sullo scrittore (chiamiamolo così); d’altra parte certi Suoi «a fondo», certe Sue azzardatissime e fondamentalmente ingenue affermazioni, divertivano il vecchio polemista che sonnecchia e sogghigna in me.
Ma in queste ultime settimane, fra Lei personalmente (con quella iconoclastica e addirittura paradossale risposta a quel buon uomo di Teano che, bontà sua, chiede pietà per D’ Annunzio al Sig. P.P. Pasolini…) e la recensione del Bo ad un Suo libro apparsa su un recente Europeo, Lei ed il Suo esegeta, starei per dire il Suo agiografo, avete superato la misura. Altro che «crocianesimo generico e aberrante», altro che «disgusto stilistico da letterato a letterato» e simili corbellerie. Meno male, Sig. Pasolini, che il Vate è morto altrimenti con un aggettivo la ridurrebbe in poltiglia.
Pur con la sua retorica (ma era la Sua), pur con certe forme che a Lui si possono perdonare, pur con certi atteggiamenti che sanno di narcisismo, D’Annunzio è D’Annunzio e tale rimarrà nei secoli e ci vuol altro che cento Pasolini e mille Bo (e Ungaretti e Montale e Quasimodo e, insomma, chiunque abbia preso la penna in mano in quest’ultimo sessantennio) per poter fare un confronto, almeno per quanto riguarda la letteratura italiana.
E non voglio abbandonarmi a citazioni, non voglio infarcire la mia prosa di aggettivi, non voglio accennare a giudizi di letterati di primo piano, non voglio ricordare l’enorme patrimonio linguistico, il cadenzato scintillio di sue prose e poesie, il drammaturgo e l’Uomo del Timavo e del Carnaro: lascio a Lei e al suo contorto esegeta Bo il turibolo dell’incenso per altri Dei. Questo ha un altare troppo alto perché il mio povero incenso possa raggiungerlo, ma, La prego, abbia almeno Lei il senso delle proporzioni. Lei vede, Signor Pasolini, che io, non firmando, non esco dai limiti di una serena ed educata polemica, chiamiamola rettifica, e quindi non Le dico altro che vorrei dirLe se firmassi.
Se non firmo è perché il mio nome non Le direbbe nulla e perché non voglio accomunarlo al Suo e perché è dal 1944 che non scrivo più su un giornale o una pubblicazione e non voglio certo fare ora una «rentrée» su simile foglio. Ma Ella sente da come Le scrivo che non sono il solito «vile anonimo» e se pubblicherà la presente — tempo e voglia permettendo — Le scriverò ancora giacché tanto lei che il Suo amico Bo (Lei più di lui, per la verità) mi interessate, magari dal solo punto di vista, zoologico.
E giacché ci siamo, cerchi di evitare di fare il piccolo populista in ritardo di due generazioni, riveda e corregga il suo zoppicante italiano da Università popolare serale, dica al Bo (all’ermetico critico che ama scriver difficile a tutti costi: mi ricorda certe pagine di Celine scritte in «argot» e certe relazioni di giovani aggiornati a qualche congresso di correnti…) di non esagerare perché esagerando si casca nel ridicolo ed il ridicolo seppellisce.
E magari, non sarà male, creda, leggetevi tutti due un po’ di Guicciardini e di Guerrazzi, di Manzoni e di Verga, magari di Baldini e di Panzini, magari di Brocchi e di Gotta (… Non inorridite…), magari di Monelli e di Ansaldo. Mi abbia con i migliori saluti.

M.P.


L’anonimato in cui Lei cordialmente si cela, gentile signore, non è così fitto da nascondere il fatto che Lei è fascista. Nel ’44 ha smesso di pubblicare, e pour cause; poi è rimasto ai margini, e pour cause, e ora di nuovo qui, con tono distaccato, vivace e un po’ bohème a fare l’idealista. Si capisce dunque come lei ami D’Annunzio, si capisce come lei chiami questo poeta «l’Uomo del Timavo e del Carnaro», si capisce come l’irriti Bo, che, durante il periodo fascista, era esattamente il contrario di quello che voi volevate fosse un letterato, e si capisce, infine, come le sia antipatico io, furente nemico della istituzionale stupidità dei fascisti. Quanto a Baldini, a Panzini, Brocchi, Gotta, Monelli e Ansaldo, sono nomi che io le consiglio di scrivere sulla sua lapide.

Caro lettore, osserva un po’ la lettera a cui ho qui risposto in due parole. È un documento abbastanza interessante. Esso testimonia un tipo di fascismo non molto diffuso, eppure essenziale. Non so se il regime di Mussolini avrebbe potuto reggere per tanti anni se la stampa e la radio non avessero potuto contare su un numeroso gruppo di persone simili all’autore di questa lettera Esse rappresentavano il tessuto culturale del fascismo. Ossia a la follia fatta norma.
C’è in questa lettera un profondo e misterioso masochismo. Una persona di una certa cultura (l’anonimo è almeno laureato o diplomato), che conosce la letteratura classica, e bene o male, la storia nazionale, rifiuta in blocco tutta l’esperienza che da tale conoscenza può derivare per umiliarla e annichilirla in una specie di esaltata «riduzione» alla meschinità culturale piccolo-borghese, su cui il fascismo si basava e di cui viveva. Ora è ben nota l’ignoranza dell’italiano medio che pur abbia frequentato le scuole statali: e non c’è da meravigliarsi che tale sua scarsa coscienza culturale fosse pronta ad accettare l’aberrazione ideologica della reazione. Si capisce come un piccolo-borghese ignorante e conformista potesse accettare direi quasi con voluttà i narcisistici «pseudo-concetti» fascisti. Ma la cosa è meno facile da capire quando anziché di un professionista o di un impiegato si tratti di un uomo di cultura, un pubblicista, un giornalista, un letterato: il quale, almeno, dovrebbe possedere gli strumenti elementari per individuare e analizzare delle aberrazioni ideologiche e storiche come quella fascista.
È vero: la cultura italiana della prima metà del Novecento è una ben misera cosa: è un sottoprodotto provinciale della cultura europea post-romantica e decadente. Su questo Gramsci ha scritto delle pagine dal valore assoluto. Il fascismo stesso è un prodotto di tale cultura, ad alto livello. Il superuomo, Wagner, la regressione narcissica a un tipo di vita remota, ellenica o romana, l’esaltazione dell’io, il disprezzo per la massa, la vita inimitabile (eccoci arrivati a D’Annunzio): sono tutti elementi culturali ad alto livello destinati a formare il «gusto» fascista.
Ora, che cos’era un letterato, un professore universitario, un giornalista in orbace? Un fatto umoristico, prima di tutto, se si ha voglia di ridere. Ma in realtà la graduazione psicologica di tale depravazione non è poi così complicata: essa avveniva pressapoco così: il nostro uomo (mettiamo l’anonimo di questa lettera) era alle origini un dannunziano (ossia un decadente provinciale, con la testa piena di prosa d’arte, di narcissismo di cattiva lega, di letteratura classica intesa come gloria nazionale anziché come prodotto storico in evoluzione, insomma di umanesimo corrotto e accademico); il secondo gradino ideale era la trasformazione di tale titanismo sedentario e scolastico in smania d’azione (le imprese patriottiche, le divise, i manganelli, le marce: la riesumazione attiva di un passato morto e sepolto, nella fattispecie il legionario romano, il navigatore veneziano, ecc. ecc.); il terzo gradino… E qui bisogna ricordare che il piccolo-borghese italiano conformista ha come caratteristica principale, insieme alla sete di servilismo, la paura del ridicolo (la lettera dell’anonimo in questione parla chiaro: «… Non esagerate, perché esagerando si casca nel ridicolo ed il ridicolo seppellisce»). Il terzo gradino è dunque una «correzione» — verso la normalità benpensante, piccolo-borghese, «furba» — del mostro dannunziano, del guerriero in orbace. Così tutto va a posto. Il nostro anonimo si è messo la paglietta del «vecchio polemista che sonnecchia e sogghigna in lui»: e sente, con profonda consolazione, che un po’ di vivacità stilistica, un po’ di umorismo, un po’ di scapigliatura, un po’ di bohème, un po’ di cultura classica mettono a posto tutto, rettificano con una serie di correzioni eufemistiche e riduttive, l’eccessiva serietà dell’arcaico e bellicoso uomo ideale fascista. Insomma il nostro anonimo ha l’aria di dire, asciugandosi il sudore allegramente sotto la paglietta, con l’occhio iniettato di ironica felicità: «Ecco, vedete? Non è vero che i fascisti siano dei fanatici esagerati: io accetto tutto il fascismo, Eichmann compreso, certo! Però, io son qui, in paglietta, ho una famigliola e leggo i classici… Il mio odio contro i comunisti è addirittura cordiale! Io coi marxisti ci vado a cena e ci bevo all’osteria! La mia coscienza di tale odio è così profonda e sconfinata che ci rido!».
E così degli uomini di cultura, i cui nomi tuttora in Italia sono coperti di onore e rispetto, si vestivano in orbace, con la scusa che erano poi, a casa, dei dannunziani in pantofole.

Pier Paolo Pasolini

Contro il monumento

Sono vissuto a lungo in Friuli, mia mamma è friulana, mi sono interessato di storia e di letteratura friulana per tutta la mia prima giovinezza, molti dei firmatari di questo manifesto sono miei amici: alcuni, come Giuseppe Zigaina e Biagio Marin amicissimi. Ho abbastanza competenza, dunque, per sapere come stanno e come si svolgono le cose in quei posti: il «tono» delle cose. Il nazionalismo, lassù – con il potenziale fascismo – nasce purtroppo, oltre che dal solito qualunquismo, dalla solita sotto-esistenza culturale, anche da una forma di moralismo, tipico del Nord: tipico di quel cattolicesimo già venato di protestantesimo. E perciò tanto più pericoloso, perché strettamente amalgamato con delle profonde convinzioni morali sbagliate. Insomma mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata, i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili. Andate a far capire a loro che un monumento a D’Annunzio Legionario è una cosa mostruosa!
Non lo ammetteranno mai, perché, per questo, dovrebbero rinunciare all’intera loro concezione dell’esistenza.
Bisogna anzitutto spiegare loro che D’Annunzio è stato un pessimo poeta, oltre che un pessimo cittadino. Io, per esempio, non sono del tutto d’accordo con gli intellettuali friulani e triestini che hanno scisso il D’Annunzio poeta e combattente dal D’Annunzio legionario e prefascista. Il D’Annunzio è uno. La sua importanza letteraria è soltanto negativa, e così la sua importanza nel costume e nella storia. Egli rappresenta e esprime l’Italia nel suo momento involutivo: nel momento cioè in cui il Risorgimento ha mostrato i suoi limiti, la sua vera essenza di rivolta aristocratica, il suo liberalismo apocrifo (cfr. Gramsci), e la nuova classe borghese è cominciata a diventare quello che è: una mostruosa riserva di egoismo, di conformismo, di paura, di mistificazione, di ristrettezza mentale, di provincialismo.
Si badi che io non sono contrario a D’Annunzio per le stesse ragioni per cui gli sono stati contrari gli intellettuali italiani del primo Novecento, o del Novecento tout court: i quali lo avversavano nelle sovrastrutture letterarie per così dire. In realtà erano dei dannunziani essi stessi: dei D’Annunzio in pantofole anziché in coturni, che è già qualcosa, non dico di no: ma è quasi niente. Erano insomma antidannunziani come erano antifascisti: per ragioni di buon gusto, perché sia Mussolini che D’Annunzio erano dei «cafoni». Ma è noto come un simile antifascismo non servisse quasi a nulla: e molti antifascisti di questo tipo sono stati accademici d’Italia.
D’Annunzio è il tipico rappresentante dell’eterno classicismo servile e evasivo italiano, che assumeva in lui forme di decadentismo provinciale; e, a causa del suo immanente e superficiale irrazionalismo – tipico anch’esso – sfociava spesso nell’azione: la quale azione non poteva essere che retorica e sostanzialmente conformista, malgrado gli aspetti di clamoroso anti-conformismo. L’impresa di Fiume è stata una pagliacciata narcisistica. I poveri, onesti nazionalisti friulani ne sono delle ingenue vittime.
Poiché cosa fatta capo ha, diciamolo con tutta l’amarezza del caso, e il monumento a D’Annunzio Legionario è là, incrollabile (orrendo, naturalmente), io suggerirei di erigergli non lontano, un piccolo, modesto monumento a I. G. Ascoli. Sono vissuto per anni in Friuli, e anche nell’ambiente professionale e filologico: ma mai che mi sia capitato di sentire dell’entusiasmo sincero per questo ebreo di Gorizia che è certamente la figura d’intellettuale più importante, e la sola europea, che abbia espresso il Friuli nel nostro secolo. È un uomo che ha svolto un lavoro sì monumentale, e modesto, e magari discutibile in molti punti: e non certo rivoluzionario. Ma il silenzio in cui è stato tenuto durante il fascismo – naturalmente perché ebreo – e il complice silenzio che si continua a tenere su di lui, adesso, gli merita certamente un riconoscimento che lo contrapponga, lui, vittima del fascismo, al legionario fascista.

Pier Paolo Pasolini

Le lettere personali

Sono tornato dal Sudan, e appena a casa, una delle prime cose che ho fatto è stato aprire la posta di Vie Nuove. La posta di Vie Nuove consiste in una busta abbastanza voluminosa che mi viene mandata a mano dal giornale, con sopra scritto, sempre con la solita calligrafia filiforme e dilatata, il mio nome con l’aggiunta “da parte di Vie Nuove”. Ho ritrovato qui, sul tavolo in orribile disordine, questa busta famigliare ormai: proprio un dato dalla vita quotidiana, dopo quasi due anni di consuetudine. Sono abbastanza consuetudinario per averne provato un certo piacere.
Dentro la busta gialletta ci sono di solito due tipi distinti di lettere. Li riconosco subito, a una prima occhiata, questi due diversi tipi: lo riconoscerei, anche se uno di essi non fosse contrassegnato con la parola “personale” scritta con una impaziente e vistosa matita rossa.
Queste lettere personali sono, a loro volta di tre tipi, anch’essi riconoscibili molto facilmente, di solito. C’è la busta su cui l’indirizzo è scritto con la calligrafia mostruosamente incerta, angolosa, rozza, pesante, congestionata, piena di maiuscole che sembrano scarafaggi di parole cominciate in lettere grandi che poi vanno man mano restringendosi per non fuoruscire dallo spazio breve della busta, di ghirigori non privi di ingenua solennità, quasi formule magiche atte a ingraziare il lontano destinatario. Vi si sente dietro la maestra di seconda elementare, la scuoletta rustica, la fatica manuale, la mano rossa e callosa... Queste lettere, intrise di miseria e di stento, di solito mi chiedono un aiuto, diciamo, esistenziale: o sono ragazzi che mi chiedono dei miei libri perché non hanno soldi per comprarli, o dei malati che mi chiedono aiuti economici, o dei disoccupati che mi chiedono di aiutarli a trovare lavoro. Il secondo tipo è, spesse volte, esteriormente, simile al primo: ma, nella maggior parte dei casi, la calligrafia è più agile e spesso elegante: quella delle compagne di scuola al liceo, quella degli impiegati delle poste o delle banche, abituati a scrivere con anonima scioltezza. In queste lettere ci sono per lo più delle piccole fotografie: fotografie dei mittenti. Perché, questi mittenti, hanno in cuore un grande sogno: quello di diventare attori, e hanno, della cosa una idea taumaturgica puerilmente provinciale, facendo tutto un fascio de La dolce vita, di Grand Hotel, o di Accattone. Saltano fuori povere facce biancastre e anonime, appena appena differenziate fra loro da una espressione truce, o da un sorriso malamente mondano o da una intensa espressione perbene. E fin qui, pazienza. Noie, stringimenti al cuore, impazienze, si possono anche provare senza gran danno. Siamo sempre sul puro piano esistenziale. Ma i dolori vengono col terzo tipo di lettere personali (che sono la maggior parte). Si tratta di lettere in cui è, intanto, accluso un manoscritto: versi, racconti, romanzi, soggetti cinematografici, tesi di laurea. Di tali lettere ne ricevo almeno tre alla settimana tramite Vie Nuove, e almeno tre direttamente. E, davanti ad esse, ormai non provo più che pura angoscia.
Intendiamoci, un’occhiata a questi manoscritti la do sempre, se non altro per la curiosità (cosa darei, per scoprire un autore nuovo, di vero valore!): una poesia, una pagina narrativa...Di più non posso, e da ciò l’angoscia. So benissimo che speranze, che struggimenti, che ansie sono nel cuore di chi mi manda queste sue prove a attende un giudizio. L’ho provato anch’io, quand’ero ragazzo e, su prove simili, puntavo tutta la mia vita. Perciò non so dire il dispiacere, il malessere, il rimorso che sento a non poter scrivere quel giudizio che, spesse volte mi è richiesto con tanta simpatia e, soprattutto, a non poter leggere per intero i manoscritti che ricevo. È un brutale fatto di mancanza di “tempo materiale”: sei manoscritti alla settimana, più i libri pubblicati da giovani alla loro prima opera, anch’essi in attesa di un mio giudizio: è possibile poterli leggere? E scriverne? Dovrei impiegare almeno un intera mattinata. Ora, il lavoro solo la mattina, lavoro, dico, a ciò che mi sta più a cuore, alla letteratura: il resto della mia giornata è tutta dedicata all’altro lavoro: il cinema, la critica ecc. Ora è vero che, una volta tanto, potrei anche leggere qualche manoscritto o qualche opera prima e scrivere la mia opinione: ed è infatti quello che facevo fino a due o tre anni fa. Posso assicurare, comunque, che tutt’ora, se l’occhiata che do al manoscritto è veramente positiva (ed è successo non più di due o tre volte in due anni) vado avanti con la lettura e rispondo all’interessato. Ma più di così non posso fare, a meno di non dedicare tutta la mia vita alla letteratura e a vaglio dei manoscritti. E non sarebbe niente, ripeto, se io rinunciassi a compiere questo che è in definitiva un dovere, con indifferenza: no, ne provo angoscia, ogni settimana la mia razione di angoscia per lettere non spedite...

Pier Paolo Pasolini

Tratto da "Città Pasolini" https://www.cittapasolini.com/post/pier-paolo-pasolini-angoscia-per-lettere-non-espedite-vie-nuove-1962