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Vincenzo Rabito
Terra matta

Capitolo primo
Questa è la bella vita che ha fatto il sottoscritto Rabito Vincenzo,nato a Chiaramonte Gulfi,allora provincia di Siracusa,il 31 marzo del 1899.
Mio padre Rabito Salvatore mori’ a 40 anni,di polmonite,quando avevo dieci anni, lasciando mia madre con sette figli da mantenere.
Io ero il secondo della numerosa famiglia ed ero io l’unico che sapeva quello che ci voleva per tirare avanti. Mio fratello piu’ grande,Giovanni,pensava solo per la sua pancia e quando guadagnava qualcosa soldi a casa non ne portava mai.  Ero solo io quello che capiva la situazione di mia madre.  Per questo quando non ci avevo niente in tasca camminavo arrabbiato e bestemmiando e quando portavo soldi a casa venivo invece ballando ballando. E per questo mia madre diceva sempre,alle vicine:
”Se non ci fosse mio figlio Vincenzo,nella mia famiglia morissimo tutti di fame!”
Una volta,nel mese di settembre,sentendo dire che a Vittoria cercavano coglitori d’uva,io e cinque miei compagni decidemmo di andare a vendemmiare.
Alle quattro della mattina partimmo a piedi e alle otto eravamo gia’ arrivati.
Prima cosa passammo dal casino,che il prezzo di una puttana era allora di 5 soldi.
Chi me li doveva dare a me cinque soldi,che mai un centesimo mi ritrovavo nelle tasche?!
Miracolo se m’avevo portato il mangiare,composto di 4 pani da un chilo l’uno.
Solo questa era la mia proprieta’!
Aspettai percio’ fuori dal casino e quando gli altri finirono di fare il comodo loro,mi dissero:  “E tu Vincenzo che fai…niente?!”.
Ero il piu’ piccolo della compagnia,13 anni forse,e per legge neanche al casino potevo entrare. Fini’ che i miei compagni misero un soldo per uno e per la prima volta ebbi il piacere di conoscere le donne.
Soddisfatti di questo primo lavoro,mangiando pane e uva,che ne avevamo raccolta in quantita’ lungo la strada,andammo in piazza a trattare coi sensali.
Fui subito fortunato. Uno che conosceva a mio padre mi disse:
“Vincenzo,ci vuoi venire a trasportare uva con il cavallo?…La paga è di 70 centesimi al giorno!”…
Anche se mi mangio 4 soldi al giorno di pane,pensai,10 soldi sempre mi rimangono, percio’ sono apposto!  
Accettai e partii per Santa Teresa,vicino al paese di Acate,che allora si chiamava Biscari. Il lavoro mio era di trasportare uva dalla vigna al palmento,col cavallo. Vuoldire due grosse ceste di un quintale l’una,a viaggio. Per fortuna che a caricare e a scaricare ci pensavano i giovanotti piu’ grandi.  Ma intanto gli altri prendevano per tre volte la mia paga.  “Come posso fare per guadagnare anch’io due lire al giorno?” Pensavo sempre. 
Per davvero a un certo punto il Padreterno mi volle dare una mano. Uno dei raccoglitori casco’ ammalato e il padrone mi offri’ di prendere il suo posto.
“Se sei capace di fare il suo stesso lavoro” mi disse “ti do due lire al giorno,come a tutti gli altri!” 
Mi sembro’ di prendere il terno. Subito subito,col mio coltello comisano,mi misi a tagliare uva come un disperato…tanto agli altri uomini non dispiaceva se guadagnavo quanto a loro,perchè lo sapevano il bisogno che c’era nella mia casa. Tanti avevano conosciuto anche alla buonanima di mio padre e certe volte l’uva la buttavano loro nelle ceste, perchè a me mi venivano troppo alte. Due settimane ci restai,a Santa Teresa,e siccome mi avevo portato solo una camicia e un paio di pantaloni,fini’ che mi ridussi stracciato come un pezzente.
  Completato il lavoro,il padrone mi diede 30 lire,tutti a soldi spiccioli e io me li misi dentro una calzetta. Poi,secondo una consuetudine antica,mi regalo’ dieci chili d’uva bianca,quattro litri di vino rosso e 50 coccia di sarda salata.  Sistemai tutto per bene dentro un panaro di frasche e partii.
Mi sentivo talmente riccone che non pensai piu’ a cercare altro lavoro.
Il mio solo scopo era ora quello di ritornare a casa.  Presi lo stradone per Chiaramonte e cominciai a camminare furiosamente,come uno appena scappato dal carcere. Neanche passaggi ai carretti domandavo, scantato che qualcuno mi levasse i soldi.  
A Quaglio mi vide mio zio e mi disse:
“Da dove spunti,Vincenzo?…Cosa stai combinando,cosi malridotto?”
Non gli risposi nemmeno e continuai per la mia strada.
Arrivai a casa tanto sudato che mia madre scoppio’ subito  a piangere.
“Non vi preoccupate” le dissi “io sto benissimo!”
Posai il panaro sulla tavola e i miei fratellini cominciarono subito a spizzicare l’uva.
Presi la calzetta e la svacantai dentro un  canniscieddo, riempiendolo tutto di monetine di un soldo e due soldi,vuoldire i  5 e i 10 centesimi del Re Vittorio.
“Ora fateli a monzelli di una lira…” ci dissi ai picciriddi.
Nella mia povera casa scoppio’ un’allegria indimenticabile,quel giorno.
“Figlio mio” mi disse mia madre “Dio ti ricompensa!”
Eravamo nel 1912,c’era la guerra di Tripoli,e la miseria della Sicilia di allora nessuno se la puo’ immaginare.
Un giorno si presento’ a casa  un amico di mio padre e ci fece a mia madre questa proposta: “Gna Tura,giusto che vi trovate in una brutta situazione, perchè non mandate a Vincenzo da uno che conosco io?…è un massaro di Grammichele…se la passa bene,è pagatore,e non ha nemmeno figli… a Vincenzo se lo prende come garzonello e capace che lo tratta come un figlio suo!”.   Io mi trovavo presente e subito ci domandai:
“Massaro Raffaele,quanto mi da al mese questo padrone?”
“Due tumina di grano e 5 lire contanti!” mi rispose il massaro Raffaele u picciridditto (cosi chiamato di ‘nciuria).
Accettai,anche se mia madre non voleva,perchè sapevo che a casa eravamo senza farina e senza niente…a patto pero’ che i due tumina di grano mi venissero anticipati! Concludemmo l’affare e,dopo una settimana,il massaro Raffaele torno’ a prendermi,con due scecchi e il grano.
“Sei pronto Vincenzo” mi disse “guarda che ti ho presentato come un picciotto onesto, educato e lavoratore…non farmi fare malacomparsa col padrone!”.
Alla due di notte partimmo,mentre mia madre non si riusciva a dare pace.
Erano i primi giorni di marzo e faceva un freddo da agghiacciare. A cavallo dello scecco io pero’ mi sentivo apposto. Ero contento e il freddo non mi faceva impressione. Pensavo che stavo andando a vedere un paese nuovo e, pergiunta,con quei due tumina di grano avevo levato tanta confusione alla mia famiglia.
Per fare 30 chilometri ci mettemmo sei ore e arrivammo a Grammichele che erano gia’ le otto. Il padrone,un certo Michele Aledda,ci stava aspettando davanti alla porta e subito si dimostro’ un grande zaurdo.
“Come ti chiami?” mi domando’ con voce forte e rigorosa.
“Vincenzo!” risposi.
“Ebbene,Vincenzo…al tuo primo giorno di lavoro sei arrivato tardi!”
Massaro Picciridditto si scuso’ dicendo che per strada aveva piovuto e le trazzere erano tutte infangate,percio’ avevamo dovuto camminare piano.
La signora Carmela,intanto,la moglie di Aledda,aveva gia’ consato la tavola e ci aveva messo sopra due belle uova fritte,un pezzo di formaggio e una pagnotta appena sfornata. Quel pane di masseria caldo caldo,che pesava almeno due chili,in quattro mozziconi me lo stavo finendo tutto,tanto ero affamato. Gli altri intanto mi guardavano a bocca aperta. 
Poi il Picciridditto se ne ando’ e il zaurdo di Aledda comincio’ a fare baccano:
“Avanti Vincenzo,che le mule sono pronte…ora che hai mangiato dobbiamo andare a lavorare!”
La signora Carmela invece diceva:” Michele,che ci andate a fare in campagna…sta scoppiando il temporale…fallo riposare al caruso,che è venuto da Chiaramonte e dev’essere stanco!”.
“Che stanco e stanco” faceva lo zaurdo “e che è venuto forse a piedi?!…Che fa non è forse venuto a cavallo dello scecco!?” 
“Va…va…e bagnati come un maiale!” gli fece alla fine la moglie  “a me mi dispiace solo per Vincenzo e per le mule!”
Cosi ci mettemmo addosso due pesanti cappotti e partimmo,che io ci avevo il culo tutto limato e mi faceva un gran male,di quanto tempo ero stato a cavallo.
Dopo un paio d’ore,per davvero,scoppio’ un forte temporale che sembrava arrivata la fine del mondo. Trona,fulmini,acqua a vacilate,e nessun posto dove ripararsi. Sotto la pioggia fitta fitta pensavo: “Quanto aveva ragione la signora Carmela a chiamarlo bestia…io,con questo zaurdo,alla fine del mese capace che non ci arrivo!”
A Mazzarrone,che non era ancora paese,allora c’erano solo due case.
C’infilammo dentro un pagliaio e bagnati dalla testa ai piedi aspettammo che passasse la tempesta.
“Mi sa che dobbiamo tornare a casa,Vincenzo…” disse il cornuto di Aledda, quando la pioggia comincio’ a calare “vuoldire che oggi non abbiamo guadagnato nemmeno il pane che ci abbiamo mangiato!”
Non lo contava,il bastardone,che io era dalle due di notte che giravo per conto suo!
Sempre sotto l’acqua ritornammo a Grammichele e la signora Carmela, smaccatamente, disse a suo marito:  “Te l’avevo detto o no che pioveva?!” 
“Statti muta Carmela…seno’ prendo la capezza della mula e ti do’ una bella allisciata!” gli rispose la bestia.
La signora accese quindi il fuoco e come una vera madre mi porto’ una tovaglia per asciugarmi.  ”Togliti le robe,Vincenzo” mi disse “e mettiti vicino al fuoco…seno’ puoi cascare malato!”.
Finito di mangiare,potevano essere le sette di sera,il padrone mi disse:  “Vattene a dormire,Vincenzo…che domani ci dobbiamo alzare all’una!”
“Ma come” mi scappo’ detto “io sono morto di sonno e vossia mi vuole fare alzare all’una?!” 
“Figlio mio” replico’ quella bestia,tutto rosso in faccia  “stavolta ti voglio perdonare perchè sei piccolo… ma che fa non lo sai che al padrone non si risponde mai?!… Vattene subito a letto e non mi fare perdere la pazienza!”.     
  La signora Carmela intanto mi faceva segnale di stare muto e io mi quetai perchè sentivo aria di timpolate.
“Sissignora!” risposi e me ne andai a dormire nella stalla.
Nel meglio sonno mi cominciai a sentire scotolare da destra e da sinistra,come se avesse scoppiato il terremoto.  “Alzati Vincenzo!” faceva il padrone,mentre mi strappava le coperte di dosso.
M’avevo coricato vestito,la sera prima,tanto ero stanco. Cosi mi alzai subito,m’infilai le scarpe e,a come mi trovavo,senza neanche lavarmi la faccia, riempii le bisacce di mangiare e accianai sopra la mula  Il padrone intanto aveva caricato l’aratro e la semenza,e partimmo che il cielo era ora bello sgombro e stellato.
Quando arrivammo a Giurfo - cosi si chiamava la localita’ dove Aledda aveva un pezzetto di terra – erano ancora le cinque di mattina. A quell’ora, ancora col buio, che cazzo potevamo combinare?!…
Dovemmo aspettare per piu’ di un’ora l’alba,prima di cominciare a lavorare.
Il padrone andava avanti,con l’aratro,e io dietro seminavo ceci. In lontananza vedevo pure il paese di Chiaramonte,dato che Giurfo si trova vicino al fiume Dirillo,a cinque chilometri dalla Dicchiara. 
 “Se mi dice la testa di scappare” cominciai a pensare “da questo punto mi venisse perfetto!”.
Per cinque giorni di seguito andammo a Giurfo,sempre alzandoci alle due di notte. Io mi studiavo la strada e intanto ci dicevo al padrone “Sissignora!” e sempre lo vantavo,di quanto era sperto e di quanto era bravo,mentre era la piu’ bestia persona che avessi mai incontrato in vita mia.
Cosi arrivo’ la prima Domenica e mi tocco’ lo stesso di dovermi alzare alle Quattro, dato
che il padrone andava a messa a quell’ora. La moglie andava invece alla messa delle otto… era quella bestia che orari da cristiano non ne conosceva!
Comunque,piano piano,m’ero guadagnato la fiducia di marito e moglie,in quella casa.
Tanto che una domenica il padrone mi disse:
“Vincenzo,oggi te ne vai a messa con la signora Carmela…voglio sapere pero’ con chi si ferma a parlare…mi raccomando!”.
Insomma quella bestia era anche una bestia cornuta…
Solo che io,invece di fare la spia per lui,ci cominciai a fare il ruffiano a lei, che la signora Carmela veramente mi rispettava come un figlio.  Tutta la settimana santa me la feci accompagnando la padrona a messa e mi voltavo dall’altra parte se parlava con qualcuno. Al marito,per farlo contento,raccontavo invece che sua moglie camminava sempre con la testa calata a terra,come un’orfanella,e non dava confidenza a nessuno.
Cosi andavamo tutti d’amore e d’accordo,ma io tenevo paura che prima o poi si scoprissero le carte. Le donne sono tutte le stesse, pensavo, non si sa mai,un giorno, bisticciando col marito,alla signora Carmela non ci scappasse detto:
“Tu sei tanto stupido,Michele,che ti fai prendere per fesso persino da un ragazzino!”.
Non per nulla il proverbio antico dice: ”A corda ruppa ruppa,la sciogghi cu nun ci curpa!”.  Alla fine decisi che era tempo per me di tagliare davvero la corda. 
In un momento di bonta’,ci domandai al padrone:
“Massaro Michele,che fa vossia me li dasse a me le cinque lire del mese?…Se li do direttamente a mia madre,i miei fratelli non mi ci fanno sicuro arrivare e io non vedo niente!”.  Davvero lo feci convinto e m’intascai i soldi.
Aspettavo ora la prima buona occasione per scappare. 
Una bella sera mi sentii dire: ”Vincenzo,vai subito a letto…domani all’una partiamo per Mazzarrone… stasera stessa,prima di coricarti,prepara le bisacce delle mule,il mangiare e il vino!”.   Preparai tutto e m’infilai a letto vestito a com’ero.
Dopo cinque minuti,come al solito, venne la signora Carmela a vedere se ero apposto, ma io feci finta di dormire. Due ore dopo,quando tutto nella casa era tranquillo,mi alzai e aprii piano piano la porta della stalla. Il tempo era perfetto. La luna schiarava l’aria come una lucerna e per la strada non passava nemmeno un cane. Mi riempii la sacchina di tela piena di mangiare e partii addio alla fortuna.
Quanti maliservizi avevo fatto,per questo Aledda…quante bugie e quante male mattinate avevo passato…e ora mi toccava pure di scappare peggio di un delinquente.
Ecco perchè s’è venuto a cercare un garzonello fino a Chiaramonte,pensavo anche, perchè a Grammichele lo sanno tutti di che bestia si tratta!
Potevano essere le undici quando attraversai velocemente la Piazza di Grammichele e m’infilai nella trazzera che portava a Granieri. C’era una bella luna che illuminava la strada ma io ormai quella strada la conoscevo a memoria e la potevo fare anche al buio.
”Devo arrivare a passare il fiume prima dell’una”  pensavo intanto“ se Aledda non mi trova è capace di venirmi a cercare con la mula!”
Cominciai a camminare furiosamente, sempre piu’ scantato, e non mi fermai nemmeno una volta,nemmeno per pisciare.  Nel Dirillo ci entrai con tutte le scarpe e l’acqua gelata mi fece sentire un gran brivido per tutta la spina dorsale.
Alla Dicchiara c’era un grande caseggiato,con il tabacchino e il fondaco.
Il padrone si chiamava massaro Vanni ‘Nzeca. Lo conoscevo benissimo dal tempo quando era cascata la nostra casa di Chiaramonte, che la casa rotta la dovemmo vendere per la miserabile somma di 50 lire e ci trasferimmo tutti in una sua campagna di Cicimia,   che lui ci aveva dato a mezzadria.  Il primo anno facemmo un raccolto di soli 5 quintali d’olio,svenduto a 35 lire il quintale che non bastarono nemmeno a pagare l’affitto… senza contare gli attrezzi,la pasta e le altre cose che avevamo preso a credenza dallo stesso Nzeca.  Per tre anni mio padre dovette lavorare per pagare  i maledetti debiti. Per questo casco’ malato e si prese la polmonite. E per questo io bestemmio sempre al Padreterno,perchè se è vero che esiste da mio padre non si fece vedere mai!
Percio’,arrivato alla Dicchiara,a me parse proprio di trovarmi a casa.
Bussai alla porta del tabacchino e dopo cinque minuti mi venne ad aprire il massaro Vanni in persona. Forse pensava che si trattasse di un carrettiere.
  “Vincenzo…” mi disse subito “e chi ti ci porta a te qua’?!…a quest’ora?!”
Anche la moglie, appena mi vide, si fece subito il segno della croce…
 ”Maria Santissima…ma questo che è il figlio della buonanima di Turiddu Rabito!?”.
Mi fecero immediatamente cambiare i pantaloni bagnati con un paio del mio compare Raffaele,che era un figlio loro,della mia stessa eta’,mi fecero sedere a tavola e mi presentarono un bel piatto di ceci riscaldato dalla sera prima.  Io cominciai a raccontare quello che m’era successo e intanto mio compare Raffaele,che s’era alzato anche lui,ogni tanto mi passava il barilotto del vino. ”Bevete,compare Vincenzo,che vi fa bene!” mi diceva. Una volta ristorato,me ne andai nella stalla e mi sistemai in un pezzetto di mangiatoia rimasto libero. Volevo addormentarmi,ma mio compare Raffaele non mi lasciava in pace un momento. Si e no se riuscii a farmi un’ora di sonno,quella notte.
Allo spuntare della prima luce, con tanti carrettieri che gia’ impaiavano e facevano bordello, ringraziai gli ‘Nzeca e ripartii per Chiaramonte a passo di carica.
La strada passava pero’ davanti alla campagna di una sorella di mia madre: la zia Peppa,
e decisi di farci una visita. La sacchina del mangiare e il vino li nascosi in una grotta e mi presentai a mani vacanti.
La poveretta voleva sapere tante cose,ma io le dissi solo che venivo di fare una visita a mio compare Raffaele ‘Nzeca. Lei mi regalo’ dieci uova e io, vedendo nel cortile un gallo vecchio che zoppicava, con una gran faccia tosta dissi: ”Perchè non lo date a noi questo gallo,zia Peppa?!…Per voi mi pare troppo vecchio…la carne è troppo dura per i denti vostri e per quelli dello zio Mariano… noi invece,con i nostri denti,ci potessimo macinare le pietre!”
Si mise a ridere e mi fece: ”Prenditelo,va…e portatelo a casa…che Dio vi benedica a tutti,in quella vostra famiglia sventurata!”
Le baciai la mano e partii contento come una Pasqua.
Per strada mi sucai due uova,dato che mi sentivo allentato,e un sorso di vino ci bevetti sopra. Arrivai al paese sudatissimo e con una forte tosse. Mia madre appena mi vide scoppio’ a piangere. Ogni volta che avevo la febbre lei si figurava sempre che mi stava venendo la polmonite come a mio padre. Mi fece mettere subito a letto e mi preparo’ una tazza di vino bollito e zuccherato. Raccontai tutto e lei fece: “Hai fatto bene a scappare, figlio mio…ora lascialo venire a reclamare,a quel cornuto,che ce le rompiamo noi le corna!”
Intanto il gallo della zia Peppa saltava per la stanza come un pazzo scatenato. Mio fratello Giovanni lo afferro’ e gli tiro’ il collo. Poi lo spenno’ e mia madre lo mise a bollire nella pentola. Dal letto,guardando la pentola,vedevo che ogni tanto i miei fratelli sollevavano il coperchio e si fottevano un pezzettino di carne. ”Qua’ se non mi alzo” pensai “va a finire che di questo gallo a me che l’ho portato toccano solo le ossa!”.
Cominciai a mangiare pure io e in poco tempo nella pentola ci rimase solo il brodo,
buono la sera per farci la minestra.  
Il Natale del 1913,mi ricordo,fu ricco di neve. Ogni giorno noi carusi  andavamo all’Arcibessi,raccoglievamo la neve nei secchi e la vendevamo a un soldo la palla.
Con questo sistema io e i miei fratelli fummo capaci di guadagnare 5 lire. Quattro li portammo a nostra madre e con 18 soldi ci comprammo una canuzza,che la chiamammo Gioiosa.
  Nell’Aprile del 1914,io e Giovanni decidemmo di andare a Raddusa,dove tutti dicevano che c’era tanto lavoro. Venne con noi anche un certo Vannino Scifo,un picciotto prepotente e sciarrino. Pure a Gioiosa ci portammo. A Piazza Armerina,Scifo per fortuna se ne ando’ per i fatti suoi,e noi proseguimmo da soli,fino a Raddusa.
Qua’ andammo a trovare un paesano,di nome Lauria,un grande amico di nostro padre.
”Carusi,scippate l’erbazza dal seminato” ci disse Lauria “e io vi pago una lira al giorno!”. Cosi facemmo e poi lo stesso lavoro facemmo per altri. In un mese fummo capaci di guadagnare 20 lire a testa. Poi Gioiosa si ammalo’ di rogna e la dovemmo abbandonare campagne campagne.  Andammo quindi  a Catenanuova,a prendere il treno per Catania.
Mi ricordo che stavamo aspettando il diretto da Castrogiovanni,seduti sul passamano della stazione,quando all’improvviso spunto’ Gioiosa,tutta festante.
Cosi contenta di averci ritrovato,la povera canuzza!
Purtroppo si trovava presente il vigile sanitario della stazione. La vide tutta impestata di rogna,la prese al laccio e se la porto’ dietro le case,a spararci un colpo di rivoltella. 
La pena che provai non me la potro’ mai dimenticare!
A Catania,mio fratello Giovanni si fini’ tutte le sue venti lire,tra buttane e opera dei pupi. Io invece riuscii a mandare 15 lire a mia madre. Giovanni fu capace di dirmi:
”Se non ci divertiamo quando ci sono i soldi…allora quando?!”
“Si,pero’,quando li finisci,tu li vieni poi a cercare sempre a me…” gli risposi.
Che mentalita’ storta che aveva mio fratello!
Intanto quella volta fini’ che ci afferrammo e ci buttammo per terra,in mezzo alla strada.
Tanti cercavano di separarci,ma quando seppero che eravamo fratelli,tutti dissero:
”Ah,fratelli siete…allora rompetevi le corna quanto volete!”.
Fu in quel periodo che andammo a stare per la prima volta nella pensione di donna Valduzza e di donna Ciccina,a San Cristoforo. Da allora in poi questa pensione divento’ la nostra pensione preferita.  La’ dentro si parlava sempre di Socialismo e del diritto dei lavoratori,cosi per la prima volta anch’io ho potuto capire cos’era il Socialismo.
Al Piano Fortino si riunivano tutti i braccianti di Catania. I sensali venivano e si sceglievano la manodopera. Come un certo Vincenzo Funaro che ci porto’ da Don Gaetano Lo Monaco, alla Cuccumedda,per mietere grano. Una lira e mezza al giorno ci pagarono,per due settimane. Dopo decidemmo di ritornare verso l’interno e girammo tanti paesi: Carrapepe, Leonforte,Villadoro, Pietraperzia…fino ad arrivare a Gangi,nelle Madonie. Qui ci capito’ un brutto fatto. Lavoravamo a cottimo,da un gran cornuto,e alla fine la paga ci venne di tre lire al giorno. Il disonesto padrone non ce la voleva dare perchè dice che eravamo troppo carusi per guadagnare tanto. Andammo a reclamare alla caserma dei carabinieri e il maresciallo dei carabinieri fu capace di risponderci: ”Come è possibile che avete guadagnato 3 lire al giorno…che non li guadagno neanche io… levatevi di qua’ seno’ vi metto dentro!”.
Ci dovemmo accontentare di quello che ci vollero dare…cosi era composto il mondo,a quei tempi: tutto contrario ai lavoratori!
Comunque,alla fine dell’estate,tornammo a casa con 50 lire e alla poveretta di mia madre ci levammo tanta confusione.
L’anno appresso scoppio’ la guerra. Giovanni venne richiamato,ma lo fecero rivedibile perchè era troppo corto.
  “I miei figli soldato non ne fanno” pensava mia madre,facendosi il cuore “perchè sono tutti troppo corti!”.
Mia sorella Turidda intanto andava gia’ a scuola e aveva l’abbecedario. A forza di vedere in giro questo libro,per la casa,mi venne anche a me la fantasia d’impararmi a leggere e a scrivere e in poco tempo davvero ci riuscii. Quando per la prima volta scrissi su un pezzo di carta il nome di un mio compagno,chiamato Vivera,mi parse di aver vinto una grandissima battaglia.
V I V E R A scrissi e poi Rabito e poi tanti altri nomi. In breve fui capace anche di leggermi da solo il giornale…  ”Nessuno ora mi puo’ piu’ prendere per fesso!” pensavo tutto contento.
Nel giornale leggevo di migliaia e migliaia di soldati che morivano al fronte e di come la guerra piu’ va piu’ brutta diventava. Da Chiaramonte ogni giorno partivano reclute e gli uomini per lavorare si facevano sempre piu’ scarsi.  Questo per la mia famiglia fu una benedizione. Nelle campagne di Chiaramonte avevano bisogno di tanta manodopera e non dovevamo piu’ andare lontano per trovare lavoro.
Vito aveva gia’ 14 anni e percio’ eravamo ormai in tre a guadagnare. Mia sorella Turidda faceva la Quarta elementare,Paolo la seconda e le due sorelline piu’ piccole,Peppinedda e Lucia,erano ancora troppo piccole per la scuola.
Insomma,dopo tanti anni di miseria,per la prima volta cominciavamo a stare discretamente bene nella mia casa. Mia madre si stava rianimando. Pensava persino di mettere da parte qualche soldo,per comprarci una casa,un giorno,o farci la dote alle figlie femmine.  Purtroppo si sa che i conti del povero non risultano mai.
Il 1916 passo’ magnificamente e il 1917 entro’ carico di belle promesse.
A tutti e tre i fratelli ci avevano chiamato alla Contessa,tra Gela e Vittoria, per due mesi di pulire le vigne,che la paga ci veniva di 5 lire al giorno.
Per le feste di carnevale eravamo rientrati a casa e a mezzogiorno di Domenica 18 febbraio eravamo tutti seduti a pranzo,che c’erano maccheroni al sugo di maiale e lardo con i fagioli.  Non era cosa di tutti i giorni un pranzo cosi.  Attorno alla tavola  c’era tanta allegria e specialmente i piu’ piccoli non stavano mai fermi un momento di quanto erano contenti…All’improvviso sentimmo bussare alla porta.  Mia madre ando’ subito ad aprire e si trovo’ davanti un appuntato dei carabinieri.
“Non si spaventi signora” disse quello “che abita qui’ Rabito Vincenzo?”
“è mio figlio!” rispose mia madre,tutta spaventata.
“Il giorno 20 febbraio,questo vostro figlio deve presentarsi al distretto militare di Siracusa… ecco qua’ la cartolina precetto…domani sera si deve far trovare pronto in piazza,per partire…”.
Cosi ando’ a finire a veleno tutta la contentezza del maledetto giorno di carnevale.
Nel paese di Chiaramonte quello stesso giorno arrivarono 35 chiamate,per tutti i picciotti dei primi quattro mesi del 1899,che tanti non avevamo ancora compiuto 18 anni. Quelli che stavano in campagna furono avvisati dai messi del comune,vuoldire Paolo il Cavallaro, che ogni tanto vendeva all’asta gli animali delle fallenze, e Paolo Fortunato,che col tamburo vanniava il prezzo del pesce fresco paese paese. Nelle povere famiglie di Chiaramonte successe l’inferno quella Domenica di carnevale del 1917. Intanto,chi piangeva piangeva, bisognava partire per forza e non c’era Cristo che ci poteva aiutare!


Brani scelti

E così, con tanta cioia, doppo 2 ciorne siammo revate a Ferenze, nella bellissima città artistica d'Italia. E, quanto scentiemmo e presemo le strade di Ferenze, tutte li barcona di dove passammo c'era esposta una bantiera trecolore. Poi, c'erino tutte li museche che c'erino a Ferenze, che ci hanno venuto a prenterene alla stanzione, e tutte li crosse auturità di Ferenze. Così, di dove passammo, ci abatievino li mane, mentre paremmo tante stracione, e ci hanno portato alla caserma San Ciorcie. Perché il deposito del 69 reggemento Fanteria aveva che il suo deposito era lì, di quanto aveva che si aveva formato l'Italia.
Io, a Ferenze, l'aveva sempre vista della stanzione ma non dentra la cità, quinte, solo che l'aveva inteso dire che era bellissima. E quinte io, vedento Ferenze, era meglio del congedo, e meglio di stare a Chiaramonte. Perché io aveva stato abitovato a dormire fuora, senza maie conoscire che cosa era un letto, che cosa erino li linzuola e il materazzo, e ora avevo invece una bellissema rite di ferro e una lampadina, nella cammerata, che con la luceletrica si poteva lecere il ciornale. E poi annesuna parte ni aveva luce così, perché a Chiaramonte luce ancora non ci n'era. E io, e tutte, sempre avemmo stato per 30 mese al buio e ni ha parso che ci hanno portato imparadiso.
E così, ci avevino fatto fare il bagno; che erimo tutte incrasciate, piene di terra e di sudure. E io, alla prima notata, disse: «Non voglio penzare più annesuno, perché mi trovo nelle felicetà».
Per 3 ciorne ci hanno portato il cafè in branta senza direce: «Alzative!» Alla sera, per 3 ciorne, quanto volemmo riantrare, riantrammo. Apello per noi, per 3 ciorne, non ci n'era. Quinte, alla sera tutte liciammo il ciornale e ci quardammo in faccia e diciammo che erimo dalla stalla alle stelle, e tutte diciammo la stessa cosa: «Questo paradiso, di dove ni ha venuto?» E tutte diciammo: «Questa ene la vera bella vita…»
E così, in uno mese di questa bella vita, antiammo a caminata tutte li sere ceranto Ferenze Ferenze, che tutte li casine di Ferenze ni li stapemmo imparanto, che io ni aveva cirato tante: a Catania, a Palermo, a Siraqusa, e tante altre, ma, de fronte alli casine di Ferenze, tutte facevino schifo. C'era tanta pulezia, li parete, voldire dentra li casine, erino tutte di toletta, che quanto ni vedeva una ragazza pare che ne guardava 6, con quelle spechie che c'erino.
La prima ciornata che io prese servizio in compagnia, di quantave che avemmo venuto a Ferenze, mi hanno mantato di quardia fissa per 20 ciorne al carcere delle Morate. Che questo carcero si trova in mienzo alla città, e la consegna di questo carcero era che tutte i passante di quella strada dove io faceva a la quardia era che non zi dovevino fermare. Perché tutte queste detenute di questo carcero erino detenute politece e tutte quelle che passavino dovevino passare senza fermarese, perché la leggie – che erimo i soldate – teniemmo paura che scrivessero qualche beglieto, e poteva socedere una revolozione.
Quinte, recordo che era aprele del 1920. Ferenze era tutta la cità socialista e comunista. Solo li ricche non erino socialiste, e quelle che non avevino fatto la querra. Ma poi tutte erino revolozienarie, perché la Russia aveva fatto la revolozione doppo la querra e l'Italia la voleva fare magare. Quinte, a Firenze di mese e mese si aspetava che nel munecipio si ci doveva mettere la bantiera rossa.
Io certo, a fare per 20 ciorne la quardia, alle borchese che erino vicino dove faceva la quardia io (che erino tutte socialiste, femmene e uomine) mi ci aveva fatto amico, perché era più socialista di loro. Perché io e mio padre e mio nonno erimo di razza e di natura con il cuore di socialista, e quinte io, a forma di soldato, mi piacevino che avessero acopato il munecipio e io mi ci avesse trovato apresso.
Io aveva 21 anno, più meglio di me per scherzare con le segnorine del popolo basso, che erino socialiste, c'era magare io.
Poi, per mantenire l'ordene publico, invece di custura, avevino fatto il colpo della Reggia Quardia, che l'aveva fatto il coverno propia per potere fermare i sociale comuniste. E li borchese, quanto passavino della strada, li babiavino a questa Reggia Quardia, perché era contraria a queste che da un ciorno all'altro dovevino ocupare il monicipio. E quinte, quanto queste borchese vedevino passare li soldate della Reggia Quardia, si metevino a ridere, e io, a forma di soldato che li doveva remproverare, invece mi ci miteva a ridere, perché li più assaie erino donne che erino acanite e vere socialiste, più delle uomine, e amme mi piacevino sempre queste scenate e queste resate che ci facevino a queste Reggia Quardia. E i borghesi se ne priaveno, che io ci aveva dato a capire che era socialista come erino loro; solo che io era soldato e non poteva cantare «Bantiera rossa». Ma loro erino una camurria, sempre cantanno «Bantiera rossa»... Io era soldato, e mi diverteva a mettere fuoco dicento: «Quanto mi piace il socialista…»
Poi che era tempo di prima vera, che tutte stavino sedute fuore, e io era felice, sempre parlanno con donne e con signorine. Perché io era caruso, e quanto uno è caruso tutte ci danno compedenza, però sempre quelle del popolino. E io, quella quardia, mi pareva un cioco. Ma io cercava sempre una ocasione per fareme ponire, perché li cazze mieie non mi le faceva maie... Che, questa, l'ho voluto io, per essere umpoco strafotente, che propia davante alla callitta dove io faceva il servizio di sentenella si ha trovato a passare un maresciallo della Reggia Quardia con la sua fidanzata, tanto mafiuso e che si credeva un cenerale, perché era a fianco alla sua ragazza.
E questo maresciallo, sotta li fenestre dei detenute, si ha fermato e cominciavo a fare segnale con le mano, dove io era costretto a direce che qui non si poteva stare. E il maresciallo mi quardavo e forse mi voleva dire: «Che, non lo vedi che sono unmaresciallo?» E poi che c'era la ragazza ci ha parso brutto, e piano piano si n'antò. E all'altra fenestra, un'altra volta si ha fermato, che io con una resata e una babiata (era tra la luce e il buio, che il sole cià era tramontato) ci ho detto: – Ou! Provessore, vedete ca lì non zi pole stare. Così, a quella parola di smarco, «provessore», si ofese maledettamente e... parte di corsa, va al colpo di quardia, che c'era il maresciallo che comantava queste sentenelle. Così, subito subito, viene il maresciallo che comantava amme e mi ha detto: – Rabito, smonta, dacie la conzegna a questo e tu viene al corpo di quardia.
E così, mi hanno portato di fronte al maresciallo della Quardia, che era pieno di veleno contra di me, che era io soldato e lui maresciallo (e un tenente della custura c'era, perché ci aveva lue telefonato). Certo che, di fronte al tenente della custura e di fronte al maresciallo, io era niente, però era bene preparato, che paura non ni aveva.
Il tenente della quistura mi ha messo sol'atente e mi ha detto: – Quanto haie che faie lu soldato? – E io ci ho resposto che era del 99.
E così, parlavo il maresciallo de fronte al tenente: – Ora ti arrancio io. Ti faccio fare lo revolezionario inziemme con i tuoie amice borchese a sfottere al tuo soperaiure! che ti dovesseto vercognare a dessere italiano! lo faccio conoscire bene al tuo soperaiure! ti faccio dire «provisure»! ti faccio vedere se mi deve sfottere inziemme ai tuoi compagni comuniste! io lo so che sei siciliano, che li siciliane, quanto vogliono sfotere, basta a dire: «Provesore, baciammo li mano»! (Mentre il tenente rideva). Perché io lo so, che ho fatto il pricatiere dai carabiniere 8 anne in Sicilia, a Palermo, e li conoscio bene ai siciliane! – Così, mi ha detto: – Ora ti manterò in calera! E io ci deceva: – Maresciallo, lei si sbaglia. Io ci ho detto «provessore» per usarece più cortesia, non per sfottere, come dici leie.
Ma lui sempre diceva che mi doveva mantare in calera. Così, io mi sono rabiato e ci ho detto: – Quello che vuole, fa. Io, esento in servizio, esento di sentenella, esento di notte, non conoscio neanche a uno che macare fosse cenerale! Io, per despettare la mia consegna, non conoscio annesuno. Magare ci posso sparare, perché mi sento uno soldato e voglio respettare l'ordene che mi danno i mieie superaiure. Quinte io, alleie, maresciallo, ci poteva magare sparare, perché, di doppo che tramonta il sole, non conoscio annesono. E quinte, anze, a direce «provessore, si n'antasse», perché mi pareva che fosse uno crosso borchese con la sua donna a passeggio, mi deve rencraziare che non ci sparaie. Perché io ho stato imprima linia montato di vedetta e capiscio che cosa voli dire il dovere che devo fare il soldato in querra, mentre leie querra non ha fatto, perché campagna di querra nel petto non ci n'ave, e io, invece, ci l'ho... Che leie dice che facio schifo a essere nell'esercito italiane! E così, il maresciallo e il tenente si n'antaro e il povero Rabito Vincenzo, quella sera, passaie alla pricione.

Ma, all'endomane, mi recordo beni l'attema che venne il mio sercente e mi dice: – Rabito, deve antare nel nostro comantante di recemento che ti vuole parlare. E mi sono apresentato al mio colonello, che, come mi ha visto, m'ha conosciuto subito. Così, io ci ho detto: – Signore colonello, se mi dovessero fare fare servizio un'altra volta, la consegna non la respettasse più, dato che un soldato come me, per fare il suo dovere, lo manteno in calera. Così, come mi ha intesa parlare, mi ha batuto la spalla, il bravo colonello. Così, mi ha detto: – Coraggio, Rabito, che ti la stai cavanto bene! E quinte, fui molto fortonatissimo, perché poteva fenire in calera, se il mio foglio matricolare non era a posto e se il bravo colonello non mi aiutava...

Manefestazione di revolozione ci n'erino tutte i ciorne. E quinte, tutti i soldate erimo tutte li notte di pechetto armato; speciarmente noi ciovene, il fucile, non lo lasciammo maie.
Poi, facemmo sempre servizio nel centro della cità, sempre a Palazzo Vechio, sempre a piazza Signoria, sempre il fucile carreco come tiempo di querra, perché li comuniste volevino acupare il palazzo, che lì c'erino tutte l'oficie del coverno. Perché li Quardie Rosse erino più forte della Reggia Quardia, e queste Cuardie Rosse erino quidate dello onorevole Ciacomo Mattiotte, che in tutta la Romagna aveva stato capace di ocupare più di 60 comune, che ci aveva fatto mettere la bantiera rossa.
Poie, recordo che tutte li ciornale portavino che in uno paese della Romagna c'era stato il ciovene ciornaliste Benito Mossoline che antava ciranto, che nei comune invece ci voleva fare mettere la bantiera nera fascista; quinte antava ciranto con i ciovene fasciste e di dove passavino bruciavino tutto e facevino propaganta contra a Matiotte. Quinte, la revolozione era vicino.
Poi, una notte amMosolina l'avevino filiato dove era, e cià lo stavino prentento per ammazarlo, ma non l'hanno pututo prentere, perché grazie al capo stanzione di quello paese, a un certo Farenaccie, che l'ha nascosto dentra il bagagliaio, e non l'hanno pututo prentere, li sociale cumuneste.
E poi, Mussoline, quanto fece la revolozione e deventò capo del coverno, per recompenzo l'ha fatto menistro, a questo capo stanzione che ci ha salvato la vita.
E così, Ferenze, di uno momento al'altro, si poteva trovare tutto con li bantiere rosse ed eremo pericolose lo stesso come quanto doveva scopiare una querra. E così, noi soldate stiammo dentra il Palazzo Vechio, che dovemmo defentere questo palazzo, che se venevino li comuniste a metterece la bantiera rossa ci dobiammo sparare, e se venevino li ciovene fasciste a meterece la bantiera nera fascista ci dobiammo sparare pure. Quinte, erimo imienzo 2 revolozione.
Ma a Ferenze questo non poteva venire maie, di acupare il municipio, perché, compure che tutta la popolazione era socialista – e magare soldate ci n'erimo tante socialista, comincianto di me e che era capace di antare in favore ai demostrante –, ma non si poteva fare niente, perché forza publica ci n'era assai assaie, perché nelle crante oficie e speciarmente nel palazzo del coverno c'erino migliaia e migliaia di Quardie Reggie con mitragliatrice messe piazate nelle barcone e pontate contra i demostrante.
E inzamaie davero queste sociale comuniste volessero prentere il municipio, che lo sa quanto muorte e ferite ci dovevino essere!
Ma per noi soldate potevino acupare quello che volevino, perché avemmo fatto la querra e a tutte quelle che erino state congedate non ci avevino dato niente, e desocopate erino, e quelle che non avevino fatto né querra e niente erino tutte messe aposto, perché la lecie desonesta che facevino era quella: tutte avevino rechito, che non aveva fatto la querra, e li fessa erimo noie che abiammo fatto la querra.

Una notte, mi recordo che erimo di pechezzo dentra il Palazzo Vechio e dovemmo stare sempre con li cermenne messe, e li scarpe neanche ni potemmo levare, e neanche potemmo dormire. Così, avemmo precorato un mazzo di carte e ci passammo il tempo, per non dormire, e ciocammo al Sette e menzo. E c'era un sercente che prima ni faceva mettere li carte sul tavolo, poi tutte mettemmo fuore li solde per ciucare, e questo mulo bastarddo veneva e si prenteva tutte li solde, e li carte ci strapava.
Così, alla 3 volta, presemo 2 coperte, allo scopo che, se avesse venuto un'altra volta, tutte di acordio ci metiemmo queste 2 coperte sopera la testa, lo butammo per terra e lo prentemmo a bastunate, a questo desonesto sercente, che era una specolazione che annoi ci stapeva fotenno tutte li solde! E davero così fu, che tutto quello che avemmo procetato ci arioscio. Che venne il sercente e lo presemo a pedate, che lo lasciammo mità morto e mità vivo. Così, non zi ha pututo alzare.
Poi che c'era tanta confosione, e poi che in quello momento propia assonato magare la larme, che per noi fu una crante fortuna... E il sercente che cridava... E subito hanno venuto tante di quelle Quardie Reggie che non si ha pututo capire che ene che aveva dato tante pedate, tante pugna e tante muzicuna al sercente! Poi hanno venuto magare tante oficiale di quelle del nostro reggemento e volevino sapere come aveva stato, e nesuno sapeva niente. E tanta composione che c'era, ci abiammo fatto credere che avevino stato li sociale comuniste che avevino dato tante bastunate al sercente... Che, con quello allarme che ci ha stato, per paura, avemmo uscito fuore e quanto siammo entrate abiammo visto il povero sercente bastonato...
Così, venne una barella e l'hanno portato allo spedale impricolo di vita, e noi ni l'abiammo carrecato, e tutte tante dispiaciute e diciammo: «Pecato, che bravo sercente, come l'hanno bastonato queste desoneste Quardie Rosse!»

E poi, secome tutte li famiglie recona di Ferenze, con questo movemento revolozionario che c'era, tenevino paura che di ummomento all'altro entravino queste Quardie Rosse nelle suoi palazze per devastarece tutto e robarece tutto, per paura, antavino alla caserma San Ciorcie e precavino al colonello per darece 4 o 5 soldate bene armate e macare una mitragliatrice per defesa del palazzo. Il colonello ci le dava, però a pagamento, e poi a queste 5 soldate ci dovevano dare ammanciare e tutto quello che ci atocava a uno soldato. Quinte, uno di queste, per fortuna, era io.
E così, in quello palazzo, abiammo trovato il paradiso. Che, facento servizio in quella famiglia, si manciava a tavola, si beveva bene, si fomavino sicarette di lusso, se dormeva bene. E abiammo fatto 40 ciorne di buona e felicissema vita. Poi c'era la cammiriera che aveva 8 anne più di me, che se avesse stato di 21 anne, quanto ni aveva io, di quanto era amorosa e bella, mi l'avesse sposato.
E così, io fece queste 40 ciorne di buona vita e non ni ho fatto più, e in queste 40 ciorne mi aveva dementecato a Francesca che ci scriviammo, e non ci ho scritto più.
Poi, ci hanno mantato a un altre 4 soldate, e mi ha parso molto brutto allasciare quello bello servizio e quella bella cammeriera. E ci hanno fatto antare in caserma e, doppo tanto servizio che avemmo fatto, amme e a li 2 soldate e il caporale ci hanno dato per recompenzo 24 ore di permesso. E quente, doppo che unsciemmo alla matina, con quello permesso potiemmo rientrare alla sera alle ore 24 e magare all'una. Quinte per me fu una rechezza, perché questo permesso lo avevino fatto cominciare dalla mezzanotte e finire alla menzanotte, e ci avevino dato magare per piremio un beglietto franco per il teatro, magare. E recordo che il teatro era il Teatro La Percola, che era lo più meglio teatro di Ferenze. E io disse: «Che bella sodisfacione antare nel più bello teatro di Ferenze».

E poi, alle ore 12, si fenio lo spetacolo e unsciammo per riantrare in caserma e antare a dormire, e poi che il permesso che si aveva fenito. Così, strada facento, c'erino una ventina di ciovenotte che cantavino e facevino bordello, che erino tutte comuniste e cantavino «Bantiera rossa», e io, per compenazione, mi ce sono trovato nel mezzo, e magare li altre 3 soldate, e ni ci abiammo trovato nel menzo e cantammo. Magare, per comincianto da me, mi piaceva di cantare «Bamtiere rossa». E così, cantammo e caminammo. Io mi ho trovato che camminava di un lato della banchina, dove c'erino tante sedute fuore che ci piaceva il fresco, perché era il mese di aqusto. Tutte erino con li ciacchie levate, che sentevino caldo. Così, io cantava, e mi ho visto achiappare per tutte 2 li braccie, decendomi: – Ora ti faccio antare in calere –. Mentre li altre che cantavino e camminavino, come hanno visto che amme mi hanno afferrato emmi hanno portato in una casa vicino, tutte si ni hanno scapato, perché hanno auto paura che amme mi avevino preso qualche capitano della custura. E io ci ho detto: – Che cosa vi ho fatto che mi state facento tanto male a li braccia? – E uno di quelle 2 mi ha detto: – Male le brace niente fosse! E che deve antare in calera, perché seie tu, da suldato, revolozionerio! Vercogna, che soldato italiano!
Così, mi hanno portato nell'altra stanza più dentra. Così, vado per quartare a uno di queste che mi aveva afferato: era il tenente colonello di cavallaria. E il suo atendente, forse perché io era soldato, così mi ha detto: – Ora mi dice chi sono li tuoi compagni che cantavino «Bantiera rossa» o che altremente ti arrancie. Che prima ti faccio mentere in galera del tuo comantante e poi, tutte queste soldate che siate comuniste, io vi farò spedire per la Cerenaica, che lì avete da fare con i rebelle nechire.
Così, questo tenente colonello, vedente che stava comincianto a piangere, mi ha detto: – Rabito, se te vuoi librare di questa crante ponezione, lo saie tu che cosa deve fare, se sei furbo... Mi dice che erino li altre che cantavino «Bantiera rossa».
E io ci repeteva sempre che: – Se io l'avesse conosciuto, io a quest'ora ci l'avesse detto. Io sono stato con molta desceplina verso ai superariore, perché, come lei mi ha chiamato, sobito sono venuto, altremente io avesse scapato come hanno scapato li altre. Quinte, leie mi potesse lasciare stare, perché io sono innocente e non cantava.
Così, mi ha tenuto una ora e mi ha detto: – Domane ti la vede con il tuo colonello. Se ti vuole perdonare, ti perdona. Io devo fare il mio raporto che tu cantavi. Lo devo fare –. E mi ammantato fuore a pedate nel culo.
Il colonello Valentino volle sapere tutto il fatto socesso e non mi ammantato neanche imprecione, ma poi doppo 8 ciorne mi ammantato a chiamare e mi ha detto: – Tu sei un vechio mio soldato, e seie stato sempre furbacione e per questa volta saraie perdonato, ma quarda che ti conoscio da 3 anne e non voglio che vaie a fenire in calera, perché tu cantavito de securo «Bantiera rossa», perché il colonello di cavalleria non ene uno buciardo –. Poi mi ha batuto la spalla e mi ha detto: – Coraggio Rabito, che la chilassa del 1899 quanto più presto la concedeno –. E io, a questo colonello Valentine che ha detto questa parola, mi pare che l'avesse detto un santo, tanto era stuffo di fare il soldato. Che aveva più di 4 anne e mezzo che faceva il soldato e aveva fatto tanto servizio che non aveva fatto nesuna congesione, non mi aveva imparato nessuno mistiere.
Io aveva una abitutene in tutte li forrarieie di fareme chiamare non con il nome di Rabito, che era il cognome propia, ma mi faceva chiamare Arrabito. E il motivo era questo: che, quanto in compagnia devedevino manciare opure davino la cinquina, prentevino sempre comencianto della «a», e io che era della «erre» sempre prenteva all'ultimo. Tanto fece che mi ho fatto chiamare Arrabito, e mi chiamavino tutte quase Arrabito Vincenzo. Tanto che nella midaglia c'ene il mio nome e cognome «Arrabito Vincenzo». E quanto devedevino sigarette e cenquina e tante altre cose, io, che era della prima lettera, sempre prenteva dai prime.
Ma questa volta mi ho trovato frecato…

E quinte, venne un ordene che nella città di Ancona ha scoppiato una revolta, e in tutte li cetà d'Italia c'era l'inferno. Ma, però, nella città di Ancona ci fu una vera revolozione, perché si hanno messo di acordio i soldate con li borchese. Ed ecco come forino i fatte: che ad Ancona c'era uno reggemento di bersegliere, quase tutte del 99 (della stessa mia età) e tutte che avevino fatto la querra e avevino fatto 4 anne di soldato, e certo che aspetavino il congedo! E invece del concedo li stavino imparcanto per antare a fare il soldato in Arbenia. E queste brave e malantrine soldate bersegliere non ci volevino antare, poi che sapevino che la nave era pronto nel porto di Ancona. E quinte, tutte hanno detto come dessero nel Piave: «Di qui non si passa» alli austriece, e non passareno. E così hanno detto ad Ancona queste bersagliere tra di loro: «Noi non antiammo in Arbenia, che c'ene la malaria».
E alla sera quardavino il mare, e la nave era pronte per partire. E quinte, hanno preparato il piano come dovevino fare per non partire.
Così, alla sera, come se ne suno antate alla libra uscita, si hanno portato fuore tutte i vestite di bersagliere impiù che avevino, perché d'ogni soldato bersagliere avevano 2 vestite. E così, antavino dalle borchese revolozinarie e ci davino uno vestito per vestirese bersagliere, e li soldate se vestevino di borchese e li borchese deventavino bersagliere. E così, quanto revavo l'orario della retrada, invece di entrare i vero bersagliere, rientravino li farse bersagliere borchese. E così, quella sera, la caserma si arreimpito piena di revolozinarie. E quinte, li soldate che dovevino partire erino più di 1.500, ma li borchese non erino 1.500, erino radopiate. Quinte, erino 3.000, tutte armate. E così, verso li ore 10, quanto il tenente di servizio doveva chiamare la pello per vedere che ancora non zi aveva retrado, queste revolozinarie, per il primo, hanno preso al tenente e il sercente e tutte li soldate che facevino li sentenelle, ci hanno tapato la bocca, li hanno portato imprecione e hanno fatto uscire a tutte li pricioniere. E così, la quardia, la facevino li borchese che erino i finte bersegliere, mentre i vero bersagliere erino fuore con la sua donna. E così, nella caserma, tutte li demostrante si hanno armato come meglio potevino: perché, nella caserma, arme ce n'erino tante, e assaie mitraglie, magare c'erino tanta monezione della querra e poi che c'erino tutte li arme che si dovevino portare in Arbania. E queste arme l'hanno portato fuore.
E così, Ancona si ha trovato tutta ammano dei sociale comuniste. Che il coverno italiano non era più padrone della cità di Ancona. Magare tutte li nave che c'erino nel porto erino tutte con li bantiere rosse. Il municipio era tutto rosso. Certo che tutte queste finte bersagliere erino tutte echise soldata che avevino fatto la querra e sapevino bene sparare. E quinte, soldate e borchese erino tutte uno.
E così, l'ordene che venne, non a Ferenze solo, ma per tutte li cità vicino Ancona, fu per antarece soldate a compattere in questa città di Ancona.
E quinte, queste soldate che ci dovevino antare, li prentevino della prima lettera dell'ordine alfabetico e fenevino nella lettra della «emme». Quinte io, per mia mala sfortuna, mi hanno chiamato il primo!
Ed era per questo che la mia brutta vita era sempre arrabiata, perché sempre penzava di fareme bello e invece mi faceva tanto male, perché era nato per bistimiare sempre.